Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1167 del 21/01/2020

Cassazione civile sez. III, 21/01/2020, (ud. 23/10/2019, dep. 21/01/2020), n.1167

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15196/2018 proposto da:

P. SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore

M.C., FRATELLI P. SPA, in persona del procuratore

P.F., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso

studio dell’avvocato SALVATORE TRIFIRO’, che li rappresenta e

difende unitamente all’avvocato PAOLO ZUCCHINALI;

– ricorrente –

contro

TELECOM ITALIA SPA, (OMISSIS), in persona del procuratore FEDERICA

POGGIOLI nella qualità di Presidente esecutivo, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DI VAL GARDENA 3, presso lo studio

dell’avvocato LUCIO DE ANGELIS, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GINO NARDOZZI TONIELLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4716/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 13/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/10/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Le società P. S.p.a. e Fratelli P. S.p.a. ricorrono, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 4716/17, del 13 novembre 2017, della Corte di Appello di Milano, che – respingendo il gravame esperito dalle odierne ricorrenti contro la sentenza n. 213/15, del 9 gennaio 2015, del Tribunale di Milano – ha rigettato la domanda, avanzata dalle stesse società, di condanna della società Telecom Italia S.p.a. al risarcimento del danno da perdita di chance conseguito al mancato adempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto del 4 gennaio 2008, nonchè quello derivato, ex artt. 1337 e/o 1338 c.c., da recesso ingiustificato dalle trattative contrattuali volto alla stipulazione di un acc3rdo di comarketing.

2. Riferiscono, in punto di fatto, le odierne ricorrenti di aver convenuto in giudizio la società Telecom Italia per far valere, innanzitutto, l’inadempimento della stessa rispetto alle obbligazioni alternative nascenti da scrittura privata del 4 gennaio 2008. Deducevano, infatti, che la scrittura privata suddetta aveva previsto, in capo alla predetta società, l’obbligo di assumere ogni opportuna iniziativa finalizzata al subentro della società Fratelli P. nel godimento di alcuni locali commerciali, siti nella (OMISSIS), o mediante concessione diretta fra tale società ed il Comune di Milano, previa rinuncia di Telecom ai propri diritti, oppure attraverso un subcontratto, da stipularsi da parte di Telecom e la società Fratelli P. (ovviamente, previo assenso del Comune), ferma restando, in questo caso, la persistente titolarità della concessione da parte di Telecom. Per parte propria, la società P. si obbligava, entro il termine del 30 settembre 2008, a perfezionare il subentro, subordinatamente all’ottenimento di ogni necessario assenso da parte del Comune, nonchè a versare a Telecom, quale corrispettivo, la somma di Euro 7.000.000,00.

Deducevano, inoltre, le odierne ricorrenti di aver subito anche un ulteriore danno, derivato dalla rottura ingiustificata delle trattative finalizzate alla conclusione di un accordo di comarketing.

Le domande attoree venivano, tuttavia, rigettate dal Tribunale di Milano, con decisione confermata dalla Corte di Appello meneghina, che respingeva il gravame proposto dalle odierne ricorrenti.

3. Avverso la sentenza della Corte milanese ricorrono per cassazione le predette società P. – e Fratelli P., sulla base come detto – di quattro motivi.

3.1. Il primo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1256 c.c..

Si censura la sentenza impugnata laddove ha affermato – non senza previamente rammentare come nelle premesse della scrittura privata del 4 gennaio 2008 le parti avessero dato atto dell’impossibilità, già alla stregua della concessione vigente tra Comune e Telecom fino al 31 dicembre 2007, della cessione a terzi dei diritti ad essa Telecom spettanti – che il Comune di Milano, con due delibere anteriori alla conclusione della scrittura privata suddetta, esattamente risalenti al 16 novembre al 28 dicembre del 2007, avesse previsto la cedibilità, solo in casi eccezionali, di concessioni riguardanti gli esercizi commerciali nella (OMISSIS), su tali basi, pertanto, concludendo che nessun inadempimento risultava addebitabile a Telecom Italia.

In questo modo, tuttavia, secondo le ricorrenti, la Corte milanese avrebbe fatto erronea applicazione dell’art. 1256 c.c., da leggersi in combinato disposto con il precedente art. 1218, poichè non avrebbe tenuto in considerazione che l’impossibilità della prestazione libera l’obbligato solo quando sia assoluta ed oggettiva, ed inoltre non imputabile a fatto colpevole del debitore.

Per contro, nel caso in esame, risulterebbe “per tabulas” la non rispondenza al cd. “id quod plerumque accidit” che le citate delibere del Comune di Milano impedissero “a chiunque e con qualunque mezzo lecito” di ottenere il subentro nella concessione stessa, previa deroga alle linee di principio dettate nelle medesime delibere. Ne costituirebbe conferma il fatto, documentato in corso di causa, che diversi subentri ebbero, invece, a verificarsi nella detenzione di locali siti nella galleria milanese, sicchè il giudice di appello avrebbe errato nel non valutare tale documentazione.

D’altra parte, poi, nel caso di specie, dovrebbe pure escludersi che l’impossibilità della prestazione possa ritenersi non imputabile a Telecom, giacchè essa non si sarebbe dovuta limitare ad eccepire che la prestazione non poteva eseguirsi per fatto del terzo, ma avrebbe dovuto dimostrare la propria assenza di colpa, ovvero di aver spiegato adeguata diligenza per rimuovere l’ostacolo frapposto da altri – il Comune – all’esatto adempimento. Nel caso in esame, per contro, risulterebbe che Telecom non solo non ebbe a fare nulla per ottenere l’assenso del Comune all’adempimento delle obbligazioni su di essa gravanti, ma avrebbe posto in essere, addirittura, comportamenti che ostacolarono l’ottenimento di tale “placet”. In particolare, essa avrebbe dato notizia alla società P. delle nuove condizioni proposte dal Comune, in occasione del rinnovo della concessione, soltanto in data 12 maggio 2008, limitandosi all’invio di un fax contenente la proposta di rinnovo, per poi sottrarsi all’incontro, richiesto dalle odierne ricorrenti, al fine di valutare la possibilità di ottenere il consenso del Comune al loro subentro nella disponibilità dei locali.

3.2. Il secondo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione dell’art. 1288 c.c..

In questo caso, la sentenza impugnata è censurata laddove ha concluso che, sussistendo due prestazioni alternative tra loro, una volta divenuta impossibile una di esse, residuasse una scelta in capo al debitore, e che pertanto non fosse necessario alcun accertamento sulla possibilità per Telecom di adempiere l’obbligazione consistente nella rinuncia alla convenzione.

Per contro, divenuta impossibile la esecuzione di una delle obbligazioni alternative (nella specie, la stipulazione del subcontratto, idoneo a legittimare la società Fratelli P. a subentrare nella disponibilità dell’immobile), il debitore sarebbe stato tenuto, per legge, ad adempiere – sostengono le ricorrenti – l’obbligazione ancora possibile, ovvero la rinuncia alla convenzione con il Comune, donde la necessità di compiere ogni accertamento in ordine al suo mancato adempimento, nella specie, invece, non compiuto.

3.3. Il terzo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1337 c.c..

Le ricorrenti censurano la sentenza impugnata, in questo caso, laddove ha ritenuto non poter “affermarsi in modo ragionevolmente certo” che le trattative fossero giunte, nel momento della loro interruzione, “nell’imminenza di una loro definizione”. Analogamente, la sentenza è censurata laddove avrebbe dato rilievo alla comunicazione del 7 agosto 2009, nella quale Telecom attribuiva lo stallo nelle trattative alla “oggettiva impossibilità di superare le notevoli difficoltà emerse”, e non a “mutamenti di linea commerciale”, al quale Telecom avrebbe fatto per la prima volta riferimento solo nella comunicazione del 15 luglio 2010.

Orbene, la cattiva applicazione delle norme suddette deriverebbe dal fatto che la “culpa in contrahendo” non presuppone affatto alcuna “ragionevole certezza” in ordine alla imminente definizione delle trattative contrattuali, essendo sufficiente che esse siano giunte ad uno stadio tale da ingenerare, nella parte che invoca l’altrui responsabilità, solo un ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto.

D’altra parte, del tutto illogicamente, la sentenza impugnata, nel valutare il motivo della cessazione delle trattative, avrebbe fatto riferimento, non alla comunicazione del luglio 2010 (nella quale si dava atto della irrinunciabilità per Telecom del negozio sito a (OMISSIS)), comunicazione all’esito della quale le stesse furono definitivamente interrotte, bensì ad una comunicazione “intermedia”, quale quella dell’agosto 2009.

3.4. Il quarto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – nullità della sentenza e violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), artt. 24 e 111 Cost., nonchè dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

Si sostiene che alcuni passaggi motivazionali della sentenza impugnata conterrebbero una motivazione apparente – vizio cui attribuisce rilievo anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo – o, quantomeno, connotata da manifesta illogicità.

In particolare, la Corte milanese non avrebbe spiegato in alcun modo il motivo per cui Telecom non potesse rinunciare alla convenzione, ovvero non potesse chiedere al Comune di autorizzare il subentro della società fratelli P. nella detenzione dell’immobile, prima di un rinnovo formale della convenzione, nè tantomeno perchè tale rinnovo dovesse concludersi “in fretta e furia”, da parte di Telecom, prima di interloquire con il Comune e le odierne ricorrenti.

Inoltre, del tutto incomprensibile sarebbe la ragione per cui, nel valutare il carattere giustificato o meno dal recesso delle trattative per la conclusione dell’accordo di comarketing, la sentenza impugnata ha preferito dare rilevanza ad una comunicazione intermedia, piuttosto che a quella pervenuta in occasione della rottura delle trattative.

Si censura, infine, come meramente tautologico il rilievo secondo cui, svolgendosi ogni trattativa tramite lo scambio di proposte e controproposte, il solo alternarsi delle stesse, nel caso di specie, abbia fatto sì che non potesse ingenerarsi alcun ragionevole affidamento, in capo agli odierni ricorrenti, in ordine alla conclusione dell’accordo di comarketing.

4. Ha proposto controricorso la società Telecom Italia, per resistere all’avversaria impugnazione.

Viene dedotta, in primo luogo, l’inammissibilità del ricorso, sia perchè recante censure di merito, sia per violazione dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1), per essersi la Corte territoriale attenuta ai principi enunciati, in materia, dalla giurisprudenza di legittimità.

In ogni caso, si assume la non fondatezza del primo motivo di ricorso, avendo entrambi i giudici di merito chiaramente evidenziato secondo la controricorrente – le ragioni per cui l’impossibilità di entrambe le prestazioni fosse assoluta ed oggettiva, oltre che non imputabile ad essa Telecom Italia. Non si manca, inoltre, di rilevare come nella sentenza del Tribunale di Milano si fosse dato atto della circostanza che le parti, nella bozza dell’accordo di comarketing scambiata il 23 novembre 2008, avessero dichiarato di avere risolto consensualmente gli accordi intervenuti con la scrittura in data 4 gennaio 2008. Quanto, poi, al fatto che soggetti diversi dalle odierne parti in causa risultino subentrati nella disponibilità di altri locali siti nella (OMISSIS), ciò sembrerebbe dipeso – osserva al riguardo la controricorrente – dalla circostanza che il Comune ha adottato una nuova deliberazione, nell’anno 2012, con la quale ha approvato “nuove linee di indirizzo per regolamentare il fenomeno della cessione dei rami di azienda in Galleria”.

Nega, infine, la controricorrente che sussista, nella specie, l’ipotesi del recesso ingiustificato dalle trattive, contestando che quella della Corte milanese possa considerarsi una motivazione apparente o illogica.

5. Le ricorrenti hanno depositato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni e replicando ai rilievi avversari.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. Il primo motivo di ricorso non è fondato.

6.1.1. Se è certamente vero che la “liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della prestazione può verificarsi, secondo la previsione degli artt. 1218 e 1256 c.c., solo se ed in quanto concorrano l’elemento obiettivo della impossibilità di eseguire la prestazione medesima, in sè considerata, e quello soggettivo dell’assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell’evento che ha reso impossibile la prestazione” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 8 giugno 2018, n. 14915, Rv. 64905401), deve rilevarsi che, nel caso di specie, la sentenza impugnata ha escluso che a Telecom potesse ritenersi “addebitabile” – vale a dire, imputabile – il mancato adempimento delle obbligazioni assunte, alternativamente, con la scrittura del 4 gennaio 2008, o di far subentrare Fratelli P. nella convenzione con il Comune di Milano (rinunciando ai propri diritti), ovvero di stipulare, ma sempre previo assenso del Comune, un subcontratto, con cui metterle a disposizione i locali siti nella (OMISSIS).

Ciò detto, e nel rammentare che “l’apprezzamento del giudice di merito sull’imputabilità dell’inadempimento contrattuale costituisce un accertamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente e correttamente motivato” (Cass. Sez. Lav., sent. 10 gennaio 2000, n. 170, Rv. 532758-01), deve rilevarsi che la motivazione della Corte territoriale – tema oggetto, specificamente, anche del quarto motivo di ricorso – è da ritenere senz’altro esente da critiche, alla luce della possibilità, ormai, di sindacarla solo per violazione del “minimo costituzionale” (si ritornerà, più avanti, sul punto).

Il giudice di appello, infatti, ha osservato come “il Comune di Milano, ancor prima della stipula del succitato negozio”, ovvero la scrittura dell’8 gennaio 2008 (le cui premesse, peraltro, davano atto sottolinea sempre la Corte milanese – “dell’impossibilità già alla stregua della concessione vigente sino al 31 dicembre 2007 di cedere a terzi i diritti che da essa derivassero”), avesse “adottato due delibere, in particolare il 16 novembre 2007 e il 28 dicembre 2007, concernenti le concessioni riguardanti gli esercizi commerciali” siti in Galleria, “delibere nel complesso caratterizzate (…) da un ancor più stringente e rigorosa disciplina concernente la cedibilità a terzi dei diritti nascenti dalle concessioni in argomento, con la previsione di detta cedibilità solo in casi eccezionali”. Su tali basi, pertanto, la Corte meneghina ha ritenuto che ricorresse, addirittura, una situazione suscettibile di apprezzamento sul piano della “nullità di tale contratto per impossibilità dell’oggetto”. Di conseguenza, in presenza proprio di tale ultima affermazione (a prescindere da ogni valutazione sulla sua correttezza, ai fini ed agli effetti di cui all’art. 1418 c.c., comma 2 e art. 1346 c.c.), non può certo sostenersi – come ipotizzano, invece, le ricorrenti – che la sentenza impugnata abbia inteso prescindere dal carattere “assoluto ed oggettivo” dell’impossibilità di adempiere, che ha, invece, inteso rimarcare.

Quanto, poi, alla non “imputabilità” di tale impossibilità di adempiere le proprie obbligazioni (entrambe, sul punto si ritornerà nell’illustrazione del secondo motivo di ricorso), adeguata, nel senso di priva di profili di “irriducibile contraddittorietà” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01) appare l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui Telecom non “dovesse, a titolo di adempimento di detto negozio giuridico, intercedere, a quel punto in modo particolarmente determinato visto l’indirizzo amministrativo venutosi a creare, presso il Comune di Milano, al fine di provocare un mutamento di tale indirizzo”, nè individuare, in quella in cui versava la società Fratelli P., “una delle situazioni eccezionali che avrebbero legittimato una delle altrettanto eccezionali deroghe all’indirizzo stesso”. Affermazione, questa, priva di aporie logiche, sol che si consideri che – come riconoscono le stesse ricorrenti – nelle premesse della scrittura privata del 4 gennaio 2008, Telecom Italia si impegnava “a fare quanto in suo ragionevole potere” (e nulla di più) “per addivenire al subentro della società”, ovvero Fratelli P., nella disponibilità dei locali.

Nè, d’altra parte, può assumersi, quale “metro” di valutazione di tale “ragionevole potere”, quanto sarebbe accaduto in relazione ad analoghe convenzioni che hanno riguardato altri locali della Galleria milanese.

Difatti, ed a prescindere dal rilievo – avanzato dalla controricorrente – che tali vicende ricadrebbero sotto l’applicazione di una nuova (e più permissiva) deliberazione assunta, nel 2012, dall’amministrazione municipale, deve osservarsi come un simile apprezzamento risulti del tutto estraneo al dedotto vizio ex art. 360 c.p.c., comma 3. Infatti, “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto si lamenta nel caso di specie, dal momento che ci si duole del mancato apprezzamento del “fatto notorio” costituito dalle vicende che hanno (avrebbero) riguardato tali diversi locali della (OMISSIS) – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonchè Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).

6.2. Il secondo motivo è, invece, inammissibile.

6.2.1. La censura non si correla alla “ratio decidendi”, giacchè come detto – la sentenza impugnata ha ritenuto che il mancato adempimento di entrambe le obbligazioni (per le ragioni illustrate) non fosse “addebitabile” a Telecom.

Di conseguenza, la questione della (sopravvenuta) perdita “ex lege” della facoltà di scelta delle obbligazioni alternative resta estranea al “perimetro” della pronuncia della Corte milanese, sicchè deve farsi applicazione del principio secondo cui la “proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4), con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio” (Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, Rv. 645744-01).

6.3. Il terzo motivo non è fondato, sebbene la motivazione della sentenza impugnata, sul punto, vada corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

6.3.1. Al riguardo, occorre muovere dal rilievo che “per ritenere integrata la responsabilità precontrattuale occorre che tra le parti siano in corso trattative; che queste siano giunte ad uno stadio idoneo ad ingenerare, nella parte che invoca l’altrui responsabilità, il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto; che esse siano state interrotte, senza un giustificato motivo, dalla parte cui si addebita detta responsabilità; che, infine, pur nell’ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto”, restando, inoltre, inteso che la “verifica della ricorrenza di tutti tali elementi si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivato” (da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 15 aprile 2016, n. 7545, Rv. 639456-01).

Da quanto precede, dunque, emerge che, se l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nella formazione del contratto è certamente diretto a salvaguardare la mera “libertà negoziale” (Cass. Sez. 3, sent. 17 settembre 2013, n. 21255, Rv. 628701-01), tanto che “il pregiudizio risarcibile è circoscritto al solo interesse negativo” (tra le tante, Cass. Sez. 3, sent. 3 dicembre 2015, n. 24625, Rv. 637951-01), ciò che esclude che occorra una ragionevole certezza in ordine alla futura conclusione del contratto, bastando il solo “ragionevole affidamento”, resta, nondimeno, inteso che il giudice “in tale valutazione non può prescindere dal comportamento tenuto dalla stessa parte adempiente”, o più esattamente – come nella specie – non inadempiente (Cass. Sez. 3, ord. 12 luglio 2019, n. 18748, Rv. 654454-01).

Nel caso che occupa, sono le stesse ricorrenti a riferire che i termini della programmata operazione negoziale – come da bozza intercorsa tra i paciscenti ed inviata il 19 novembre 2008 prevedevano “documento di accordo Co-Mkt (ovvero, comarketing) per esposizione prodotti brandizzati P. nel (OMISSIS)”, ma pur sempre “previa autorizzazione del Comune”, contemplando, altresì, uno “specifico impegno di entrambe le parti a promuovere nei tempi previsti il subentro di P. (fra 3 anni) disciplinando – l’opzione di subentro prevista per il pdv (punto di vendita) di Milano”. Orbene, in presenza di queste condizioni, essendo note le rigide determinazioni del Comune di Milano in ordine alla possibilità di subentro nella disponibilità dei locali siti nella (OMISSIS), è da escludere – come, in definitiva, ha ritenuto la Corte milanese, al di là dell’improprio riferimento all’assenza di una “ragionevole certezza” nella conclusione dell’affare – l’esistenza di “un ragionevole affidamento”, in capo alle odierne ricorrenti, in ordine ad un aspetto così cruciale della programmata operazione negoziale (tanto che nell’agosto del 2009 Telecom evidenziava una “oggettiva difficoltà di superare le notevoli difficoltà emerse”), e ciò ben prima che nel luglio dell’anno successivo la medesima Telecom dichiarasse la “irrinunciabilità”, per essa, “del negozio sito a (OMISSIS)”.

In altri termini, la sentenza impugnata finisce – nella sostanza col dare atto che l’insistenza delle odierne ricorrenti in merito alla (pressochè impossibile) acquisizione del locale in Galleria costituisce riprova che nessun ragionevole affidamento le odierne ricorrenti potessero nutrire in relazione alla conclusione di un accordo di comarketing che, dal loro punto di vista, vedeva in quella disponibilità un elemento essenziale.

6.4. Il quarto motivo, infine, non è fondato.

6.4.1. Sul punto, infatti, va ribadito che, a i sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).

Lo scrutinio di questa Corte è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-0), o perchè affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

Ma nello scrutinare il primo e terzo motivo di ricorso si è visto come il minimo costituzionale possa ritenersi soddisfatto.

7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

8. A carico delle ricorrenti sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, condannando le società P. S.p.a. e Fratelli P. S.p.a. a rifondere alla società Telecom Italia S.p.a. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 30.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di Adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 23 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2020

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