Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11664 del 16/06/2020

Cassazione civile sez. I, 16/06/2020, (ud. 04/07/2019, dep. 16/06/2020), n.11664

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27090/2018 proposto da:

A.S., elettivamente domiciliato in ROMA presso Corte

Cassazione e difeso dall’avvocato BASSAN MARIA;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, (OMISSIS), Procuratore Generale Repubblica

Corte Suprema Cassazione;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1954/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 06/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/07/2019 da Dott. SAN GIORGIO MARIA ROSARIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.- Il Tribunale di Venezia ha rigettato il ricorso di A.S., cittadino del (OMISSIS), nei confronti del provvedimento della competente Commissione Territoriale di diniego della sua istanza di riconoscimento dello status di rifugiato, e, in subordine, della protezione sussidiaria o umanitaria.

Il richiedente aveva allegato di essere vissuto nella provincia del Punjab, di essere sostenitore del partito politico (OMISSIS); di aver preso parte nell’agosto del 2014 alla protesta pubblica organizzata dal leader K.I. per denunciare i brogli nelle elezioni dell’anno precedente e chiedere le dimissioni del primo ministro dell’epoca, e di essere rimasto coinvolto negli scontri verificatisi ad (OMISSIS) di fronte al Parlamento venendo ferito. Nell’ospedale in cui era stato ricoverato erano sopraggiunte le Forze dell’ordine per arrestare i manifestanti. Era quindi fuggito ma non era rientrato nella propria abitazione essendo stato avvertito dalla madre che la polizia lo stava cercando. Si era trasferito per qualche giorno a (OMISSIS), ed aveva poi lasciato il Pakistan, recandosi in Libia, da dove, a causa dei frequenti attentati terroristici compiuti dall’ISIS, si era imbarcato per l’Italia.

Il Tribunale ha ritenuto inverosimili, contraddittorie ed illogiche le allegazioni del ricorrente, ed ha rilevato che la vicenda narrata non poteva essere ricondotta ad una persecuzione proveniente dallo Stato o comunque da forze governative, rimanendo, pertanto, esclusi i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato.

2.- A.S. ha proposto gravame innanzi alla Corte d’appello di Venezia, chiedendo il riconoscimento della protezione umanitaria e, in subordine, l’accertamento del suo diritto di asilo. La Corte di merito, preso atto che nel corso del giudizio di secondo grado l’appellante aveva precisato che l’episodio che lo aveva spinto a lasciare il Paese d’origine non era quello organizzato dal PTI ma lo scontro ad (OMISSIS) tra i manifestanti e le Forze dell’ordine, ha ritenuto tale precisazione inidonea a superare i rilievi di implausibilità e contraddittorietà delle sue dichiarazioni. Ed ha chiarito che il rischio collegato al rientro nel Paese di origine, adombrato dal richiedente nell’avere lo stesso partecipato ad una manifestazione conclusa con degli scontri, non era in realtà ravvisabile, considerato anche che egli non aveva dato conto di nessuna identificazione subita.

Il giudice di secondo grado ha, quindi, escluso la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria, mancando qualsiasi allegazione di gravi motivi di carattere umanitario, al di là della prospettazione di una condizione di vulnerabilità dipendente dalla vicenda personale narrata, ritenuta priva di credibilità, e non potendosi a tal fine valorizzare eventuali condizioni di instabilità politica, il sottosviluppo del Paese di origine o carenze che configurano evenienze socio-economiche diffuse sul piano generale che impegnano attivamente le Organizzazioni Internazionali, ma non costituiscono peculiari condizioni personali legittimanti la richiesta della protezione umanitaria.

3.- Per la cassazione di tale sentenza ricorre A.S. sulla base di due motivi. Il Ministero intimato non si è costituito nel giudizio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “errata motivazione sulla credibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente”. Si contesta la motivazione posta dalla Corte di merito alla base del proprio convincimento in ordine alla non credibilità delle dichiarazioni del ricorrente sulla sua vicenda, motivazione che avrebbe ignorato i rilievi del ricorrente alle affermazioni del giudice di primo grado. In particolare, la doglianza attiene alla ravvisata contraddittorietà tra l’avere il richiedente negato innanzi alla Commissione Territoriale di avere la tessera di partiti politici salvo poi a fare presupposto delle sue domande proprio l’appartenenza al partito (OMISSIS), ed al rilievo attribuito alla circostanza che lo stesso non avesse saputo riferire nulla sugli obiettivi del suo partito. Secondo il ricorrente, la asserita contraddittorietà sarebbe frutto di un errore, dovuto ad una incomprensione tra lui stesso e la Commissione, tenuto conto che la storia narrata innanzi alla Commissione ed al giudice riguardava proprio la partecipazione ad una manifestazione politica contro il governo. E comunque tale partecipazione in sè costituirebbe motivo di persecuzione e violazione delle libertà fondamentali. Inoltre si lamenta la mancata indagine del giudice sulla sua vicenda, in violazione del principio di collaborazione.

2.- La censura è inammissibile.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive (v., tra le altre, Cass., ord. n. 26305 del 2018).

Più in generale, deve osservarsi che la ricordata riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., SS.UU., sent. n. 8053 del 2014).

Nella specie, il ricorrente lamenta inammissibilmente la erroneità della motivazione alla base del provvedimento impugnato.

Quanto, poi, alla deduzione relativa alla mancata indagine sulla vicenda personale del ricorrente, va ribadito che in tema di giudizio di cassazione, qualora il vizio di omessa pronuncia sia erroneamente denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e non in virtù del n. 4 della medesima disposizione normativa, il motivo proposto è inammissibile ove non prospetti con chiarezza la questione dell’omessa pronuncia quale specifico vizio processuale della sentenza impugnata (v. Cass., ord. n. 16170 del 2018).

Nella specie, al contrario, pur lamentando il ricorrente l’avere la Corte di merito ignorato la doglianza sollevata in merito all’assenza di indagine da parte del giudice di primo grado, dallo sviluppo del motivo emerge l’intenzione di contestare ancora una volta nel merito la valutazione di non credibilità della narrazione resa dal ricorrente medesimo.

3.-Con il secondo mezzo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, per contraddittoria motivazione in merito alla valutazione della situazione del Paese di origine del richiedente e la negazione dei presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il giudice di secondo grado avrebbe violato il dovere di collaborazione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, omettendo di indagare sul pericolo di danno grave che correrebbe il ricorrente nel suo Paese qualora fosse detenuto in carcere, avuto riguardo alla grave situazione del sistema carcerario ed alla corruzione, ed in generale al problema della sicurezza in Pakistan. Ne conseguirebbe una situazione di vulnerabilità del ricorrente, il quale, in caso di rientro nel suo Paese di origine, rischierebbe la vita per la violenza indiscriminata e per i continui soprusi della polizia pakistana. Nè la Corte territoriale avrebbe tenuto conto del percorso di integrazione del ricorrente, che aveva presentato una dichiarazione di disponibilità ad attività di volontariato, la domanda di ammissione nel libro soci dell’Associazione “Qui Padova”, e la tessera di volontario della stessa.

4.- La doglianza è priva di fondamento.

Il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass., SS.UU., sent. n. 29459 del 2019; Cass., sent. n. 4455 del 2018).

Non è ipotizzabile nè un obbligo dello Stato italiano di garantire allo straniero “parametri di benessere”, nè quello di impedire, in caso di ritorno in patria, il sorgere di situazioni di ” estrema difficoltà economica e sociale”, in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico (Cass., ord. n. 3681 del 2019).

Nella specie, la Corte territoriale non ha ravvisato ragioni di carattere umanitario che giustifichino il riconoscimento della protezione umanitaria, in mancanza, per un verso, di una esigenza qualificabile come umanitaria, tenuto anche conto della non credibilità del racconto dell’interessato, che rende vane le considerazioni dello stesso circa la situazione carceraria in Pakistan; per l’altro, in mancanza di violazione di diritti costituzionalmente tutelati nella regione di provenienza del richiedente, alla stregua delle fonti di informazione consultate.

7.- Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Non vi è luogo a provvedimenti sulle spese, non avendo il Ministero intimato svolto attività difensiva.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 4 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2020

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