Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11663 del 16/06/2020

Cassazione civile sez. I, 16/06/2020, (ud. 04/07/2019, dep. 16/06/2020), n.11663

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25379/2018 proposto da:

K.Y., elettivamente domiciliato in Roma, presso Corte

Cassazione e difeso dall’avvocato CAVICCHIOLI MARCO;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 113/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 15/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/07/2019 da Dott. SAN GIORGIO MARIA ROSARIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.- Il Tribunale di Torino ha rigettato il ricorso proposto da K.Y., cittadino (OMISSIS), avverso il provvedimento della Commissione Territoriale competente di rigetto della istanza di riconoscimento in suo favore della protezione internazionale nelle sue diverse forme. Il richiedente aveva dichiarato di aver lavorato in Bangladesh come autista di taxi, guidando un autoveicolo di proprietà di terzi, che gli era stato sottratto. Per tale ragione, minacciato di morte dal proprietario, che sapeva che egli non sarebbe stato in grado di risarcirlo, aveva lasciato il suo Paese raggiungendo dapprima la Libia e quindi, a causa della situazione di instabilità di tale Paese, l’Italia.

Il Tribunale adito sostenne che il racconto del K. faceva presumere che egli avesse lasciato il Bangladesh per motivi economici, non apparendo verosimili le minacce del proprietario del taxi. Quindi, ad avviso del giudice di primo grado, mancavano nella specie i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ed anche della protezione sussidiaria, non sussistendo la prova che in caso di ritorno in Bangladesh il K. potesse incorrere in danno grave alla persona. Nè il Tribunale ha ritenuto di poter riconoscere la protezione umanitaria perchè lo sradicamento dal contesto economico e sociale italiano, la integrazione nel quale aveva raggiunto solo uno stadio iniziale, non potrebbe essere considerato un trattamento disumano.

2.- Su gravame del K. la Corte d’appello di Torino confermò la ordinanza del Tribunale. Essa condivise il giudizio di inattendibilità del giudice di primo grado in ordine alla narrazione che della sua vicenda aveva compiuto il richiedente, ritenendola inverosimile ed incoerente, e considerò il K. migrante economico. Esclusa la sussistenza nella specie dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, ritenne poi la Corte di merito che non fossero ravvisabili neanche le condizioni per il riconoscimento di quella umanitaria. Al riguardo, osservò che, se pure la situazione politica del Bangladesh era instabile e che nel 2015 si era scatenata una campagna antigovernativa guidata nell’imminenza delle elezioni e subito dopo, tale situazione non era diffusa e continuativa, ma del tutto sporadica, ed inoltre essa non costituiva la ragione dell’abbandono del suo Paese da parte dell’appellante, che aveva lasciato il Bangladesh per cause economiche. Peraltro, l’inserimento del K. nel nostro Paese non consentiva di ritenere che egli versasse in una situazione di vulnerabilità, tenuto conto che lo stesso non aveva alcun legame con l’Italia, non avendo qui una famiglia, vivendo i suoi familiari in Bangladesh, ed avendo cessato ogni attività lavorativa in Italia il 12 maggio 2017.

3.-Per la cassazione di tale sentenza ricorre il K. sulla base di un unico, articolato motivo. Il Ministero intimato non si è costituito nel giudizio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con l’unico, articolato motivo di ricorso si deduce la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Avrebbe errato la Corte di merito nel ritenere che nè la provenienza dell’attuale ricorrente dal Bangladesh nè il grado di integrazione dallo stesso raggiunto in Italia assumessero rilevanza ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria. Sotto il primo profilo il giudice di secondo grado si sarebbe limitato a desumere da alcune fonti, senza riportarne il contenuto, che la situazione di instabilità politica e sociale del Bangladesh non sia diffusa ma sporadica. Quanto al secondo aspetto, il ricorrente deduce di trovarsi in una condizione di vulnerabilità legata alla impossibilità di reperire una occupazione lavorativa stabile in Bangladesh, come è riuscito a fare, sia pure in modo discontinuo, in Italia, e, pertanto, di consentire a sè ed alla propria famiglia una esistenza libera e dignitosa e, quindi, l’esplicazione dei diritti fondamentali, quali il diritto alla salute ed all’alimentazione.

2.-La censura, nelle sue varie articolazioni, è priva di fondamento.

In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (cfr. Cass., SS.UU., sent. n. 29459 del 2019; Cass., sent. n. 4455 del 2018).

Al di là delle ipotesi di tale privazione, il diritto di cui si tratta non può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione (v. Cass., ord. n. 17072 del 2018). Nè è ipotizzabile un obbligo dello Stato italiano di garantire allo straniero “parametri di benessere”, o quello di impedire, in caso di ritorno in patria, il sorgere di situazioni di ” estrema difficoltà economica e sociale”, in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico (v. Cass., ord. n. 3681 del 2019).

Posti tali principi di diritto, elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di protezione umanitaria, deve rilevarsi che la Corte di merito si è attenuta agli stessi nel negare al K. il riconoscimento della protezione umanitaria. Essa ha anzitutto ritenuto, alla stregua della istruttoria svolta attraverso la consultazione di fonti internazionali ufficiali, delle quali ha puntualmente dato conto, che la situazione del Bangladesh si caratterizza per una instabilità politica dovuta allo scontro tra i due partiti principali, che ha assunto anche aspetti di violenza, peraltro non diffusa nè continuativa. Non ne emerge un quadro di specifica compromissione dei diritti umani nel Paese.

Così descritta la situazione del Paese di origine del richiedente, il giudice di secondo grado ha sottolineato che, alla stregua della ricostruzione fattuale operata, avuto riguardo alla inattendibilità delle dichiarazioni dello stesso richiedente – le cui ragioni sono state approfondite nella motivazione della decisione – le cause del suo allontanamento dal Bangladesh sono di natura prettamente economica, e che, comparando, come doveroso, la situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, emerge che nel suo Paese si trovano i suoi familiari, tra i quali il padre ed un fratello con cui viveva al momento in cui lasciò il Bangladesh, mentre in Italia non ha nessun legame, ed anche la sua precaria attività lavorativa è cessata. Da qui il rigetto, sulla base della corretta applicazione dei principi di diritto sopra richiamati, della domanda di permesso di soggiorno per motivi umanitari.

3.- Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Non v’è luogo a provvedimenti sulle spese del presente giudizio, non avendo l’intimato Ministero svolto attività difensiva. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 4 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2020

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