Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1164 del 21/01/2020

Cassazione civile sez. III, 21/01/2020, (ud. 15/10/2019, dep. 21/01/2020), n.1164

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11746/2018 proposto da:

B.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 23,

presso lo studio dell’avvocato CINZIA DE MICHELI, che lo rappresenta

e difende unitamente agli avvocati ALESSANDRO MONTEVERDE, ALFREDO

MONTEVERDE;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO L.V. SPA, in persona del co-curatore Dott.

B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI

20, presso lo studio dell’avvocato MARIO ANTONINI, rappresentata e

difesa dall’avvocato GIULIANO GIUGGIOLI;

– controricorrente –

e contro

MONTIPO’ TRADING SRL;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2192/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 09/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/10/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento dei motivi 1-6

del ricorso;

udito l’Avvocato ALESSANDRO MONTEVERDE;

udito l’Avvocato MARIO ANTONINI per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. B.C. ricorre, sulla base di sette motivi, per la cassazione della sentenza n. 2192/17, del 9 ottobre 2017, della Corte di Appello di Torino, che – respingendo il gravame da esso esperito contro la sentenza n. 214/15, del 24 febbraio 2015, del Tribunale di Novara – ha confermato, per quanto qui ancora di interesse, la declaratoria di responsabilità dell’odierno ricorrente e della società Montipò Trading S.r.l. (d’ora in poi, “Montipò”), in relazione all’evizione limitativa subita dalla società L.V. S.p.a. (peraltro, dichiarata fallita in corso di causa) su beni oggetto del contratto di compravendita del 19 maggio 2000, condannando, in solido, il B. e la società Montipò a pagare alla società L.V. l’importo di Euro 145.000,00 e stabilendo, infine, che l’odierno ricorrente tenga indenne e manlevi la società Montipò da tale obbligo di pagamento.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di aver provveduto a redigere, nella sua qualità di notaio, il contratto di compravendita del 9 aprile 1996, con il quale Ba.Gi. ed Ed. alienarono, alla società M.G. Attività Immobiliari S.r.l. (poi incorporata per fusione nella società Montipò), la proprietà di taluni appezzamenti di terreno, siti in (OMISSIS).

Di seguito, con ulteriore rogito de 9 maggio 2000, nuovamente predisposto dal medesimo notaio B., la predetta società M.G. Attività Immobiliari ebbe a rivendere i terreni “de quibus” alla società L.V..

Riferisce, altresì, l’odierno ricorrente che i beni in questione formarono oggetto, successivamente, di ulteriori atti dispositivi, tutti predisposti, peraltro, da altri professionisti.

In particolare, dopo che la società L.V. ebbe a trasferire i terreni alla società Centri Commerciali S.p.a., la proprietà degli stessi perveniva, per effetto di fusione societaria, alla società Immobiliare Bennet S.p.a., che contestualmente divenne società Gallerie Commerciali Bennet S.p.a. (d’ora in poi, “Gallerie”). Quest’ultima, a propria volta, ebbe poi a costituire, in veste di unico socio fondatore, la società Villanova Retail Park S.r.l. (d’ora in poi, “Villanova”), conferendole il ramo d’azienda comprendente, fra gli altri, i terreni in questione. Infine, sempre la predetta società Gallerie ebbe a cedere alla società Redilco Real Estate S.p.a. (d’ora in poi, “Redilco”) la partecipazione al capitale di Villanova, alla quale – come detto – i terreni in questione risultavano intestati.

Ciò premesso, il ricorrente riferisce che la società Redilco, nella sua veste di unico socio di Villanova, venuta a conoscenza dell’esistenza, sui terreni, di due gravami ipotecari risalenti agli anni 1973 e 1976 e successivamente rinnovati (gravami non dichiarati nell’atto mediante il quale Villanova era pervenuta nella disponibilità degli stessi), fornì a Villanova la provvista con cui essa estinse il debito garantito dalle ipoteche.

Orbene, avendo Redilco intrapreso un giudizio arbitrale contro Gallerie, definito in via transattiva con il pagamento, da parte di quest’ultima alla prima, di Euro 170.000,00, Gallerie aveva insistito presso la società L.V. (propria dante causa) affinchè quest’ultima le corrispondesse l’importo pagato a Redilco, in forza della intervenuta transazione. Per parte propria, la società L.V., ancora una volta in via transattiva (e senza coinvolgimento alcuno, neppure in questo caso, del notaio B.), aveva provveduto a versare alla società Gallerie la somma di Euro 140.000,00.

Su tali basi, pertanto, la medesima società L.V. convenne in giudizio sia la propria dante causa, incorporata nel frattempo in Montipò, sia il notaio B., chiedendone la condanna, in via solidale, al risarcimento del danno (identificato nel pagamento della somma suddetta, a titolo transattivo), in ragione dei rispettivi inadempimenti contrattuali, segnatamente, per la società venditrice, dell’obbligazione ex art. 1476 c.c., comma 1, n. 3), nascente dal contratto di compravendita, per il professionista, invece, di quella derivante dal contratto d’opera intellettuale.

L’adito Tribunale di Novara, in accoglimento della domanda attorea, riconosceva, come detto, la responsabilità del notaio B. e della società Montipò, in relazione all’evizione limitativa subita dalla società L.V. su beni oggetto del contratto di compravendita del 19 maggio 2000, condannando, in solido, i convenuti a pagarle l’importo di Euro 145.000,00, stabilendo, infine, che il B. tenesse indenne e manlevasse la società Montipò da tale obbligo di pagamento.

Esperito gravame dall’odierno ricorrente, lo stesso veniva rigettato dalla Corte di Appello di Torino.

3. Avverso la sentenza della Corte torinese ricorre per cassazione il B., sulla base – come detto – di sette motivi.

3.1. Il primo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione degli artt. 2642,2479,2481-bis e 2497 c.c., per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto che la società Villanova necessitasse di un finanziamento per estinguere i debiti ipotecari, e che fosse doveroso, a propria volta, per la società Redilco, finanziare la società Villanova.

Si evidenzia come il giudice d’appello, dopo aver riconosciuto essere “indubbiamente vero che il “solvens” del credito bancario originante dalle iscrizioni ipotecarie era stata la Villanova”, abbia, nondimeno, ritenuto che la società Redilco avesse titolo per agire

contro la società Gallerie (affermazione, questa, oggetto come si vedrà – del secondo motivo di ricorso), pervenendo a tale conclusione sul presupposto, censurato con il motivo qui in esame, che Redilco fosse tenuta a finanziare, allo scopo di estinguere il debito assistito da ipoteca, la propria “partecipata”, giacchè, altrimenti, avrebbe potuto subire la pretesa all’aumento del capitale sociale della Villanova, oppure avrebbe esposto la stessa a rischio dell’insolvenza.

Nel premettere che le norme disciplinanti il sistema delle società di capitali si fondano sul principio della responsabilità limitata dei soci (in particolare, per la società a responsabilità limitata, l’art. 2642 c.c., comma 1), il ricorrente reputa entrambe le affermazioni di cui sopra “gravemente errate”. La prima, perchè un socio (e tantomeno l’unico socio) non può mai subire un aumento di capitale della partecipata, giacchè la determinazione di aumentare, o meno, il capitale costituisce – in un sistema, come detto, che è retto dal principio della responsabilità limitata – una scelta della proprietà che è, per sua natura, del tutto discrezionale.

Del pari sarebbe erronea, poi, anche la seconda affermazione, in quanto nulla impone al socio unico di pagare i debiti della partecipata, neppure se tale inerzia determini l’insolvenza di quest’ultima (evenienza, oltretutto, rimasta del tutto indimostrata nel caso di specie). E ciò perchè i presupposti e i limiti della responsabilità peraltro risarcitoria, e quindi di diversa natura – della società controllante, la quale eserciti poteri di direzione e di coordinamento, sono quelli fissati dall’art. 2497 c.c., nel caso di specie non solo insussistenti, ma neppure allegati.

3.2. Il secondo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione dell’art. 1203 c.c., per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto che la società Redilco, per il sol fatto di aver finanziato Villanova, avesse titolo per pretendere che, di quanto da quest’ultima pagato al creditore ipotecario, rispondesse la propria dante causa, ovvero la società Gallerie.

Si censura l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui Redilco, per il fatto di aver finanziato la propria partecipata Villanova, “avesse titolo per agire contro la società Gallerie Commerciali Bennet S.p.a.”.

Il ricorrente, invero, evidenzia come Redilco non avesse alcun debito verso il creditore ipotecario soddisfatto da Villanova, nè che fosse gravata, per le ragioni già illustrate, da alcun obbligo di finanziare la propria partecipata, perchè questa “purgasse” i terreni dalle ipoteche. Di conseguenza, Redilco non poteva vantare alcunchè nei confronti della società Gallerie, come confermerebbe anche il contenuto dell’accordo transattivo con essa raggiunto in sede arbitrale.

Nello stesso, infatti, si legge che il pagamento di Euro 170.000,00, effettuato da Gallerie in favore di Redilco, aveva come corrispettivo “il diritto di regresso e tutti gli altri diritti in generale a Redilco spettanti per effetto del pagamento da essa effettuato” al creditore ipotecario. Tuttavia, come riconosciuto dalla stessa sentenza impugnata, nei confronti del creditore ipotecario l’unico “solvens” fu Villanova, non Redilco, sicchè essa non divenne mai titolare di alcun diritto di regresso, ma soltanto di un credito verso la controllata per la restituzione del finanziamento effettuato in suo favore. Pertanto, nessun diritto di credito verso la società L.V. fu acquisito da Gallerie, per effetto del già menzionato accordo transattivo da essa concluso con Redilco, considerato che – come già detto – fu Villanova a pagare il creditore ipotecario, mancando, così, qualsiasi surrogazione connessa al pagamento, sia per insussistenza dei presupposti di cui all’art. 1203 c.c. (e, in particolare, di quello di cui al n. 3, non potendo Redilco ritenersi soggetto obbligato “con altri o per altri al pagamento”), sia per l’assenza di qualsiasi altro credito di Redilco verso Gallerie, in forza di rapporti anteriori al (e diversi dal) già menzionato accordo transattivo.

3.3. Il terzo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – violazione o falsa applicazione degli artt. 101 e 112 c.p.c., per avere la Corte territoriale “inammissibilmente giudicato in ordine alla responsabilità dei Notaio B. quale conseguenza di un asserito vizio del consenso o di una responsabilità precontrattuale riferiti al contratto di cessione di quote”, intervenuto tra le società Gallerie e Redilco, e per essersi il giudice di appello pronunciato in relazione ad un danno consistente nel “minor valore della quota negoziata”, laddove, in causa, “sempre e solo si trattò di parziale evizione in compravendite immobiliari”.

In particolare, viene censurato quel passaggio della sentenza impugnata secondo cui la cessione alla società Redilco, da parte di Gallerie, “della quota partecipativa totalitaria” della società Villanova “era evidentemente viziata dalla presenza delle due ipoteche”, le quali “riducevano in maniera sensibile il valore del patrimonio sociale”, sicchè Redilco “avrebbe potuto certamente agire contro la cedente a titolo, da un lato, di annullabilità del contratto di cessione della quota partecipativa (quantomeno per errore essenziale) e, dall’altro, di responsabilità precontrattuale”.

Si duole l’odierno ricorrente che, in corso di causa, si discusse unicamente di “responsabilità contrattuale concernente la negoziazione di beni immobili” (del notaio, per avere utilizzato errate visure ipotecarie, di Montipò, per aver venduto beni immobili gravati da ipoteche non considerate), e non di quote societarie, donde l’ipotizzata violazione dei principi della domanda e del contraddittorio.

3.4. Il quarto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione degli artt. 1429,1337 e 1338 c.c., per avere la Corte territoriale “erroneamente ritenuto” che il contratto di cessione di quote societarie, intervenuto tra Redilco e Gallerie, “fosse annullabile o comunque interessato da responsabilità precontrattuale”.

Fermo quanto dedotto con il precedente motivo di ricorso, il ricorrente rileva come, nella specie, difettino completamente i presupposti per l’annullamento del contratto, in particolare in relazione all’errore essenziale in cui sarebbe incorsa Redilco. E ciò, innanzitutto, per non essere stato compiuto alcun accertamento in ordine all’incidenza proporzionale delle ipoteche sul valore degli immobili, e, comunque, perchè – trattandosi di negoziazione di quote societarie – non potrebbe ritenersi integrato il presupposto di cui dell’art. 1429 c.c., n. 2); il tutto, peraltro, senza tacere dell’assenza del requisito della riconoscibilità dell’errore, essendo stata la società Gallerie certamente all’oscuro delle ipoteche al momento della cessione.

D’altra parte, anche ad ipotizzare l’annullabilità del contratto (e, ancor prima, che ciò fosse stato dedotto in causa), non potrebbe affermarsi, automaticamente, alcuna responsabilità dell’odierno ricorrente, o di qualsiasi altro notaio rogante ciascuno degli atti dispositivi precedenti la cessione societaria, non avendo nessuno di essi interessato le quote societarie.

Analogamente, neppure potrebbe ipotizzarsi alcuna responsabilità precontrattuale, non solo perchè non vi è stata prova (anzi, nemmeno allegazione) di comportamenti della società Gallerie suscettibili di integrare i presupposti di cui agli artt. 13371338 c.c., ma soprattutto perchè, “a fortiori”, quand’anche detta società avesse agito in malafede, di ciò non potrebbe essere chiamato a rispondere nessuno dei notai roganti gli atti che, nella catena cui appartiene il trasferimento delle quote societarie di Villanova, hanno preceduto la cessione della partecipazione societaria.

3.5. Il quinto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione degli artt. 1173,1218 e 2043 c.c., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto, senza alcun riferimento a norme di legge o principi di diritto che legittimassero tanto, che la società Gallerie, per solo il fatto di essersi spontaneamente determinata a definire in via transattiva la controversia con Redilco, avesse titolo per pretendere che di quanto da essa pagato rispondesse la società L.V..

Infatti, dal momento che Redilco non aveva alcun titolo per agire contro Gallerie, e che quest’ultima si determinò a soddisfare tale pretesa senza esservi obbligata, di riflesso, anche la stessa Gallerie non aveva alcun titolo per rivalersi nei confronti della società L.V., sicchè quest’ultima – nell’acconsentire a corrisponderle delle somme – lo fece in assenza di qualsivoglia obbligazione risarcitoria.

Orbene, nell’ignorare tali circostanze, la Corte torinese avrebbe fatto cattiva applicazione dei principi desumibili dalle norme summenzionate, in tema di fonti di obbligazioni, non considerando che la società L.V. non era obbligata, nè “ex contractu”, nè “ex delicto”, nei confronti della società Gallerie.

Inoltre, affermando che la scelta transattiva compiuta dalla società L.V. permise di contenere l’importo che essa “avrebbe dovuto corrispondere alla controparte ove la domanda di evizione fosse stata accolta”, la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare che nessuna azione di evizione fu, in realtà, mai esercitata da Gallerie. Invero, la società L.V. ha sempre e solo chiesto il risarcimento del danno per aver dovuto soddisfare la pretesa risarcitoria avanzata da Gallerie, non in relazione al minor valore degli immobili compravenduti, ma per avere Gallerie dovuto risarcire, a sua, volta Redilco.

3.6. Il sesto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione dell’art. 1218 c.c., per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto che la società L.V., per il sol fatto di essersi spontaneamente determinata a definire in via transattiva la controversia con Gallerie, avesse titolo per pretendere che il notaio B. rispondesse di quanto da essa pagato in forza dell’intervenuta transazione, e ciò in difetto di prova del danno e del nesso causale relativamente all’azione di responsabilità professionale esperita nei confronti del notaio.

In particolare, si censura la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che la società L.V. potesse stipulare, quale “espressione di una volontà assolutamente insindacabile”, il contratto di transazione che concluse con la società Galleria e che da tale discrezionalità fosse derivata, senza necessità di verifica alcuna, un diritto di regresso verso terzi. In questo modo, tuttavia, si sarebbe sovvertito il principio secondo cui la responsabilità da inadempimento contrattuale presuppone necessariamente la sussistenza di una obbligazione in capo al debitore.

Se è vero, infatti, che il notaio, “responsabile “ex contractu” per omissione di visure ipotecarie prima della stipula di un contratto di compravendita, non può essere condannato al risarcimento superiore a quello imposto dalla causalità giuridica inerente al pregiudizio patito a cagione del proprio comportamento negoziale” (è citata Cass. Sez. 3, sent. 26 agosto 2014, n. 18244, Rv. 632307-01), l’applicazione di siffatto principio comporta che, nel caso di specie, dal comportamento del notaio B. non derivò alcun danno alla società L.V.. Se un pregiudizio patrimoniale scaturì in capo ad essa, ciò avvenne perchè la società decise liberamente di corrispondere una somma non dovuta alla società Gallerie; diverso, invece, sarebbe stato il discorso se ad agire verso il notaio fosse stata la società Villanova, la quale effettivamente subì l’evizione parziale ed estinse (essa, e non la sua controllante Redilco) il debito ipotecario gravante ancora sugli immobili.

3.7. Il settimo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la sentenza impugnata omesso di pronunciarsi in ordine alla doglianza relativa alla ingiustificata ed errata quantificazione del danno risarcibile.

Il ricorrente assume di avere censurato, con il terzo motivo di appello, la decisione con cui il giudice di prime cure aveva ritenuto che il danno, asseritamente ascrivibile al comportamento negligente del notaio, dovesse essere quantificato nella misura “decisa” dalla società L.V., all’atto di sottoscrivere la transazione con la società Gallerie.

L’allora appellante lamentava che la pretesa risarcitoria dovesse essere, quantomeno, ridimensionata alle sole spese per la consulenza legale affrontate dalla società L.V., dal momento che dell’effettiva esistenza del credito ipotecario (e della sua esatta entità) nessuna prova era stata offerta in causa e nessuna possibilità di verifica aveva mai avuto il medesimo notaio B..

Omettendo di pronunciarsi sul punto, la Corte territoriale sarebbe incorsa, pertanto, nel denunciato “error in procedendo”.

4. Ha proposto controricorso la curatela fallimentare della società L.V., per resistere all’avversaria impugnazione.

Il controricorrente assume la non fondatezza del primo motivo di ricorso, sul rilievo che la sentenza impugnata, con motivazione logica, coerente e giuridicamente corretta, ha affermato che la società Redilco aveva diritto di agire verso la cedente, e ciò a prescindere dalla obbligatorietà, o meno, del finanziamento effettuato a favore della propria “partecipata”. A fondare la sua legittimazione sarebbe sufficiente la circostanza che essa ha acquistato da Gallerie l’intera quota di partecipazione nella società Villanova, nel cui patrimonio erano stati precedentemente conferiti gli immobili risultati gravati da ipoteca.

Del pari non fondato sarebbe anche il secondo motivo di ricorso, dal momento che la cessione delle quote della società Villanova è risultata viziata dalle ipoteche iscritte sugli immobili, che riducevano il valore del patrimonio a cui era proporzionalmente parametrato il valore nominale ed effettivo delle quote di partecipazione. Inoltre, poichè il trasferimento della quota di partecipazione è stato strumentale al trasferimento del compendio immobiliare, ciò ha determinato l’operatività delle relative garanzie legali e contrattuali. Viene richiamato al riguardo, l’arresto di questa Corte secondo cui, sebbene la “cessione delle azioni di una società di capitali o di persone fisiche ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta”, resta, nondimeno, inteso che “le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale – e, di riverbero, alla consistenza economica della partecipazione – possono giustificare l’annullamento del contratto per errore o, sensi dell’art. 1497 c.c., la risoluzione per difetto di “qualità” della cosa venduta (necessariamente attinente ai diritti e obblighi che, in concreto, la partecipazione sociale sia idonea ad attribuire e non al suo valore economico), solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie contrattuali, ovvero nel caso di dolo di un contraente, quando il mendacio o le omissioni sulla situazione patrimoniale della società siano accompagnate da malizie ed astuzie volte a realizzare l’inganno ed idonee, in concreto, a sorprendere una persona di normale diligenza” (Cass. Sez. 3, sent. 19 luglio 2007, n. 16031, Rv. 598889-01). Ciò detto, la controricorrente sottolinea come la buona fede contrattuale, immanente ai negozi di trasferimento di partecipazioni sociali, imponga alle parti di fornire dati, e quindi garanzie, sulla consistenza del patrimonio delle società, le cui partecipazioni sono oggetto di cessione, garanzie che devono derivare, anche implicitamente dal contratto stesso.

La non fondatezza del terzo, quarto e quinto motivo di ricorso viene motivata dalla controricorrente rilevando come la Corte territoriale abbia confermato la sentenza del giudice di prime cure, laddove ha affermato il principio secondo cui la catena delle rivalse trova esatta corrispondenza in quella degli atti di acquisto e di conferimento, catena che vede la società L.V. destinataria, in ultima analisi, della richiesta di pagamento avente ad oggetto le somme necessarie alla liberazione dei beni dalle ipoteche.

Infine, in relazione ai motivi sesto e settimo, la controricorrente, premessa l’inammissibilità del primo di essi, giacche destinato di investire questioni di merito già poste con l’atto d’appello, sottolinea come la loro infondatezza derivi dal fatto che se il ricorrente avesse adempiuto diligentemente la propria prestazione, rilevando le iscrizioni ipotecarie gravanti sui beni compravenduti, la società L.V. non avrebbe subito alcuna rivendicazione dal proprio dante causa. Di conseguenza, come affermato concordemente dai giudici di merito, deve ritenersi pienamente giustificata la transazione conclusa dalla società L.V. e la società Gallerie, sia sotto il profilo della catena degli acquisti, che sotto il profilo del “quantum”, considerando, in particolare, che il legislatore, nel quadro della sanzione risarcitoria, non ha inteso dare rilievo al “danno potenzialmente coessenziale all’inadempimento”, bensì alle “conseguenze pregiudizievoli che questo certamente e concretamente provochi nella sfera giuridico-patrimoniale del creditore”. Pertanto, è indispensabile verificare se il danno possa essere imputato esclusivamente all’azione omissione del soggetto stesso che lo subisce, ovvero se il medesimo abbia avuto ciò che è stato escluso nel caso di specie – la concreta e pratica impossibilità di impedirlo.

5. Il ricorrente ha depositato memoria, ex art. 378 c.p.c., insistendo nelle proprie argomentazioni e replicando ai rilievi avversari.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. I primi sei motivi – suscettibili di disamina congiunta, data la loro connessione – sono inammissibili, per le ragioni di seguito indicate.

6.1.1. Invero, il tema che il ricorrente ha inteso porre con motivi qui in esame è quello relativo alla (im)possibilità di ravvisare un nesso causale tra l’inadempimento del notaio – innegabile, alla stregua della giurisprudenza costante secondo cui “rientra tra gli obblighi del notaio richiesto della stipulazione di un contratto di compravendita immobiliare e, in particolare, nell’obbligo di buona fede oggettiva, lo svolgimento delle attività accessorie e successive necessarie per il conseguimento del risultato voluto dalle parti ed, in particolare, il compimento delle cosiddette “visure” catastali e ipotecarie allo scopo di individuare esattamente il bene e verificarne la libertà, salvo espresso esonero del notaio da tale attività per concorde volontà delle parti, dettata da motivi di urgenza o da altre ragioni” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 agosto 2019, n. 21775, Rv. 654929-01; nello stesso senso, tra e altre, già.1 Cass. Sez. 2, sent. 18 gennaio 2002, n. 547, Rv. 551670-01; Cass. Sez. 1, sent. 24 settembre 1999, n. 10493, Rv. 530226-01) – ed il danno lamentato dalla società L.V. (consistito nel pagamento effettuato in esecuzione di una transazione stipulata con la società Gallerie), nesso che il ricorrente, viceversa, nega, o meglio, ha sempre negato, lungo l’intero corso del giudizio e sulla base sempre delle stesse argomentazioni. E ciò, in particolare, sul presupposto che la stipulazione di quell’accordo transattivo non fosse affatto “necessitata”, giacchè Gallerie non avrebbe avuto nessun titolo per far valere la responsabilità per evizione limitativa nei confronti della L.V., in quanto nessun diritto di regresso poteva aver acquistato anch’essa, attraverso un contratto di transazione – dalla società Redilco, giacchè neppure quest’ultima era legittimata a far valere l’evizione limitativa, per la ragione che a provvedere al pagamento del creditore ipotecario era stata una sua partecipata, Villanova (sebbene con denaro messole a disposizione da Redilco), senza, però, che la “controllante” fosse in alcun modo tenuta a finanziarla, alla luce delle regole proprie del diritto societario.

A tali considerazioni – che formano oggetto, in particolare, dei motivi primo, secondo, quinto e sesto dell’atto di impugnazione – il ricorrente aggiunge, in ogni caso, la doglianza (oggetto dei motivi terzo e quarto) che il danno riconosciuto alla società L.V. è stato, per un verso, rapportato al “minor valore della quota (societaria) negoziata” tra Gallerie e Redilco, laddove, in causa, “sempre e solo si trattò di parziale evizione in compravendite immobiliari”, nonchè, per altro verso, ricollegato ad una fattispecie di lesione della libertà negoziale – ritenuta integrata, indifferentemente, “sub specie” di conclusione di contratto annullabile per errore essenziale, ovvero di “culpa i contrahendo” – rispetto alla quale, esso Notaio B., deve ritenersi estraneo.

6.1.2. Tanto premesso, nell’esaminare tali doglianze, occorre muovere da quanto affermato da questa Corte con specifico riferimento al tema del nesso causale tra inadempimento contrattuale e danno.

In particolare, essa muove dalla premessa che, “a fronte dell’assoluta carenza di una definizione normativa del rapporto di causalità, nel codice civile” – laddove “il codice penale, agli artt. 40 e 41, dedica un’apposita disciplina per l’identificazione del soggetto responsabile che ha cagionato il fatto previsto dalla legge come reato” – nel “macrosistema civilistico l’unico profilo dedicato al nesso eziologico, è previsto dall’art. 2043 c.c., dove l’imputazione del “fatto doloso o colposo” è addebitata a chi cagiona ad altri un danno ingiusto, o, come afferma l’art. 1382 Code Napoleon, a “quì cause à autrui un dommage”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 15 ottobre 1999, n. 11629, Rv. 530665-01). Per contro, una “analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di responsabilità cd. contrattuale o da inadempimento, perchè in tal caso il soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta” (così, nuovamente, Cass. Sez. 1, sent. 11629 del 1999, cit.). Ciò detto, questa Corte ha anche precisato che il “sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall’art. 2056 c.c., è composto dagli artt. 1223,1226 e 1227 c.c. e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell’art. 1225 c.c.”, norme a cui “aggiungere il principio ricavabile dall’art. 1221 c.c., che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta”. Invero, “tutte queste norme hanno in comune la funzione di adeguare il risarcimento al danno effettivamente subito dal danneggiato e di accollare, quindi, al responsabile la neutralizzazione delle ripercussioni patrimoniali sfavorevoli che il danneggiato non può dover subire”, fermo, però, restando che “i piani di operatività delle norme stesse non sono identici”. Infatti, “la disposizione dell’art. 1223 c.c., si distacca da tutte le altre, poichè con essa l’ordinamento vuole delimitare, in via generale, per tutti i casi ipotizzabili, il risarcimento alla perdita subita ed al mancato guadagno, che conseguono tipicamente, in base all'”id quod plerumque accidit”, al fatto dannoso del tipo di quello verificatosi”, con il che “il legislatore ha voluto accollare al responsabile il risarcimento del danno, consistente nella perdita subita dal creditore e nel guadagno di cui è stato privato, in quanto conseguenze immediate e dirette dell’inadempimento o di altro fatto dannoso, cioè ha voluto attribuire al danneggiante non una qualsiasi ripercussione patrimoniale, ma quelle che costituiscono il danno vero e proprio, o, come oggi si dice, il “danno ingiusto””. Orbene, le “delimitazioni della dannosità di un fatto, e cioè l’ammontare delle sue ripercussioni patrimoniali, vanno rilevate con il vecchio, ma ancora valido, giudizio ipotetico di differenza tra la situazione dannosa così com’è e la situazione ideale, quale sarebbe stata nell’ipotesi in cui il fatto dannoso non si fosse verificato. Tutte le conseguenze così evidenziate, proprio perchè collegate a quel fatto, sono le ripercussioni immediate e dirette del fatto stesso, e rappresentano, in via generale, il limite massimo del risarcimento da prestarsi, ove non intervengano altri fattori di riduzione di cui agli artt. 1221,1225 c.c., art. 1227 c.c., comma 2” (cfr. ancora una volta, Cass. Sez. 1, sent. 11629 de 1999, cit.; più di recente, nello stesso senso, anche Cass. sez. 2, sent. 26 settembre 2016, n. 18832, Rv. 641340-01).

Sotto questo profilo, dunque, “occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perchè possa configurarsi, a monte, una responsabilità (Haftungsbegrundende Kausalitat) e, dall’altro, il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’imputazione delle singole conseguenze dannose ed ha, quindi, la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità (Haftungersfullende Kausalitat)” (così, nuovamente, Cass. Sez. 1, sent. 11629 del 1999, cit.; più di recente, sebbene con riferimento all’illecito aquiliano, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 19 febbraio 2013, n. 4043, Rv. 625453-01).

Ciò detto, un “paradigma normativo della distinzione è ravvisabile nei due commi dell’art. 1227 c.c.”, se è vero che, mentre, “con il comma 1 dell’articolo in esame, il legislatore ha inteso regolare l’ipotesi in cui il fatto del danneggiato-creditore interviene a spezzare il legame, a monte, tra comportamento del soggetto agente ed evento, escludendo così la totale imputabilità del fatto all’agente, e dunque limitando la responsabilità di quest’ultimo”, con “il secondo comma, al contrario, chiarisce in che modo il fatto dei creditore possa influire, a valle, sul diverso rapporto evento-danno, con ciò rendendo non più risarcibili talune delle conseguenze immediate e dirette dell’evento, nonostante sia già stata accertata la piena responsabilità del danneggiante, e sia determinato il risarcimento attraverso il filtro dell’art. 1223 c.c.” (così, del pari, Cass. Sez. 1, sent. 11629 del 1999, cit.). In altri termini, dell’art. 1227 c.c., comma 1, “attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell’evento dannoso”, mentre il comma 2 “attiene al rapporto evento-danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni” (Cass. Sez. 3, sent. n. 4043 del 2013, cit.), solo a prima delle due disposizioni – e con essa gli artt. 40 e 41 c.p. – venendo, dunque, in rilievo allorchè, nella selezione causale degli antecedenti, ci si ponga alla ricerca, in relazione all’operare di più concause, quella cd. “prossima di rilievo”, ovvero di per sè sola sufficiente a produrre l’evento (cfr., da ultimo, con riferimento all’illecito aquiliano – ma con ragionamento valido anche per l’inadempimento contrattuale, per le ragioni già illustrate – Cass. Sez. 6-3, ord. 24 maggio 2017, n. 13096, Rv. 644388-01).

6.1.3. Orbene, tali affermazioni vanno, a questo punto, calate nel presente caso.

6.1.3.1. In tale prospettiva, che “l’evento” costituito dall’avvenuto “pagamento” della società L.V. alla società Gallerie, in forza della conclusa transazione, trovi un antecedente causale nella violazione dell’obbligo contrattuale facente capo a Notaio B. (di verificare l’esistenza di quelle iscrizioni ipotecarie pregiudizievoli) è innegabile, inserendosi entrambi tali accadimenti nella stessa catena causale che ha trovato il suo “fulcro” nell’avvenuta tacitazione del creditore ipotecario, da parte della società Villanova, sulla base di denaro messole a disposizione da Redalco; donde, allora, l’esistenza di un legame certo tra inadempimento ed evento dannoso.

Se, poi, quei pagamento (o meglio, l’impegno a compierlo assunto in via di transazione) fosse – per le ragioni illustrate dal ricorrente, in particolare, con i motivi primo, secondo, quinto e sesto del proprio atto di impugnazione – “non necessitato”, o meglio non dovuto, sicchè da ascrivere ad un fatto dello stesso danneggiato/creditore, idoneo a “a spezzare, a monte, quel legame”, è questione rilevante, come visto, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1.

6.1.3.2. Tuttavia, con il presente ricorso il B. non ha lamentato alcuna falsa applicazione della norma suddetta, anzi neppure ha dato atto che, alla deduzione di circostanze potenzialmente idonee ad escludere il nesso causale (quali quelle illustrate), sia stata accompagnata la formulazione, ad ambo i giudici di merito, di una “quaestio iuris” sull’operatività dell’art. 1227 c.c., comma 1; ciò che impedisce a questa Corte di effettuare una simile indagine.

Vero è, infatti, che nell’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso “il giudice deve procedere d’ufficio all’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto” come sicuramente avvenuto nel caso che occupa – “dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, dello stesso” (da

Cass. Sez. 3, ord. 19 luglio 2018, n. 19218, Rv. 649740-01; in senso conforme, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 25 maggio 2010, n. 12714, Rv. 613017-01; Cass. Sez. 3, sent. 23 gennaio 2006, n. 1213, Rv. 587997-01). Nondimeno, resta inteso che “ove il giudice di primo grado non abbia rilevato d’ufficio se le dedotte circostanze potessero integrare una colpa concorrente del danneggiato” (e la deduzione di tali circostanze, si ribadisce, è certamente avvenuta nel caso che occupa), “la parte ha l’onere di proporre appello per tale omissione, dato che la rilevabilità d’ufficio non comporta, altresì, che essa possa farsi valere in ogni stato e grado del processo, e se non abbia proposto appello, non può dedurre per la prima volta in Cassazione la questione del concorso di colpa del danneggiato” (così già Cass. Sez. 1, sent. 17 maggio 1969, n. 1687, Rv. 340666-01; in senso analogo Cass. Sez. 3, sent. 9 novembre 1973, n. 2947, Rv. 366594-01; Cass. Sez. 3, sent. 1 marzo 1976, n. 672, Rv. 37932201), determinandosi, così, sulla responsabilità esclusiva del danneggiante, “un giudicato interno” (Cass. Sez. Lav., sent. 15 ottobre 2013, n. 23372, Rv. 629190-01).

Quest’ultima circostanza – ovvero, l’esistenza di una preclusione a mettere in discussione la responsabilità esclusiva del danno in capo all’odierno ricorrente – determina l’inammissibilità non solo di quei dei motivi (primo, secondo, quinto e sesto) che ipotizzavano, all’opposto, la colpa dello stesso danneggiato, ma anche di quelli (terzo e quarto) che pretendono di mettere in discussione la qualificazione che di quel danno è stata data.

6.2. Infine, il settimo motivo – che denuncia omessa pronuncia sul motivo di gravame con il quale era stata censurata la quantificazione del danno risarcibile – è anch’esso inammissibile, quantunque per una diversa ragione rispetto a quella appena indicata.

6.2.1. Il ricorrente, infatti, non ha provveduto a riprodurre, nel presente ricorso, il suddetto motivo di appello, nella misura necessaria a garantire il rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), donde l’inammissibilità della censura di violazione dell’art. 112 c.p.c..

Non osta, difatti, a tale esito la constatazione che l’odierno motivo si sostanzia nella deduzione di un vizio processuale (rispetto ai quali la Corte è anche giudice del “fatto processuale”, con possibilità di accesso diretto agli atti del giudizio; da ultimo, Cass. Sez. 6-5, ord. 12 marzo 2018, n. 5971, Rv. 647366-01; ma nello stesso senso già Cass. Sez. Un., sent. 22 maggio 2012, n. 8077, Rv. 622361-01).

Se è vero, infatti, che – nel caso in cui il ricorso per cassazione denunci una nullità del procedimento o della sentenza – “il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda”, resta, nondimeno, inteso che anche in questi casi l’ammissibilità del sindacato demandato a questa Corte è comunque subordinata alla condizione che “la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4” (Cass. Sez. Un., sent. 22 maggio 2012, n. 8077, Rv. 622361-01; in senso conforme, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6014, Rv. 648411-01).

Su tali basi, quindi, si è ritenuto “inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte” (Cass. Sez. 2, sent. 20 agosto 2015, n. 17049, Rv. 636133-01).

E’, peraltro, quella dell’autosufficienza un’esigenza – come è stato icasticamente osservato – che “non è giustificata da finalità sanzionatorie nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d’esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge”, ma che “risulta, piuttosto, ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell’atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nell’individuazione di quali atti o parti di essi siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 82, Rv. 621100-01).

7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

8. A carico del ricorrente sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso condannando B.D. a rifondere alla curatela fallimentare della società L.V. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 7.200,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di udienza pubblica della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2020

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