Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11637 del 07/06/2016


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Cassazione civile sez. lav., 07/06/2016, (ud. 12/04/2016, dep. 07/06/2016), n.11637

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

T.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA Q. MAIORANA 9 C/O ST. FAZZARI,

rappresentato e difeso dall’avvocato AURORA

NOTARIANNI FRANCESCA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro

pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2139/2013 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 9/01/2014 R.G.N. 335/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/04/2016 dal Consigliere Dott. TRICOMI IRENE;

udito l’Avvocato NOTARIANNI AURORA FRANCESCA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA MARIO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte d’Appello di Messina, con la sentenza n. 2139/13, depositata il 9 gennaio 2014, rigettava l’impugnazione proposta da T.G. nei confronti del Ministero della Giustizia, avverso la sentenza n. 6083/2011, emessa tra le parti dal Tribunale di Messina.

2. T.G. aveva adito il Tribunale chiedendo che fosse dichiarata l’illegittimità del licenziamento in tronco intimatogli il 30 novembre 2009 dal Ministero della Giustizia, alle cui dipendenze prestava la propria attività sin dal 1991, da ultimo, quale autista presso il Tribunale per i minorenni di Messina.

L’Amministrazione, avendo avuto conoscenza della richiesta di rinvio a giudizio del dipendente, aveva iniziato il procedimento disciplinare poi sospeso in attesa della sentenza definitiva. Il giudizio penale aveva accertato che il T. era stato promotore e organizzatore di una associazione criminale volta alla commissione di reati di ricettazione e riciclaggio di veicoli di grossa cilindrata, protratta nel tempo e non occasionale. In ragione di tali fatti era stata irrogata la sanzione espulsiva.

3. Il Tribunale rigettava la domanda.

4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il T. prospettando tre motivi di ricorso.

5. Resiste con controricorso l’Amministrazione.

6. In prossimità dell’udienza pubblica il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è proposta violazione e falsa applicazione di legge sulla giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro ex art. 2119 c.c. e sul divieto di automatismo sanzionatorio della L. n. 190 del 1990, ex art. 9, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ed anche al profilo della motivazione apparente ex art. 360 c.p.c., n. 5.

2. Premette il ricorrente che il giudice di secondo grado, richiamando il disposto dell’art. 653 c.p.p., comma 1-bis, ha affermato che il Ministero ha giustamente tratto dalla condanna penale, tutti gli elementi di giudizio necessari a valutare la gravità del fatto-reato commesso e definitivamente accertato, e ha rivendicato l’effettuazione di una autonoma valutazione della condotta rilevante sotto il profilo disciplinare.

Tale valutazione tuttavia, ad avviso del ricorrente non sarebbe stata correttamente effettuata dalla Corte d’Appello ai sensi dell’art. 2119 c.c., ossia individuando la causa che non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.

Inoltre, osserva il T., i comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata sono normalmente irrilevanti ai fini della lesione del vincolo fiduciario e possono assumere rilievo solo quando, per la loro gravità, siano tali da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto.

In proposito, la Corte d’Appello aveva confuso due concetti giuridici: la gravità del reato e la gravità dell’inadempimento, non tenendo conto da un lato, che nella fattispecie, il Ministero, una volta intervenuta la revoca della custodia cautelare in carcere, non aveva conservato la misura della sospensione dal servizio e aveva riammesso il ricorrente al lavoro, dall’altro che il Presidente del Tribunale per i minorenni aveva dato una valutazione favorevole del comportamento tenuto da esso ricorrente sul posto di lavoro.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 23, 24 e 25 del CCNL comparto Ministeri 1994/1997, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ed anche sotto il profilo della motivazione apparente ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Il ricorrente richiama il CCNL Comparto ministeri (artt. 23, 24 e 25 del CCNL), al quale la Corte d’Appello non fa cenno, e afferma che i requisiti di accesso, secondo le previsioni del contrato collettivo, non devono persistere nel corso del rapporto di lavoro. Erroneamente, quindi la Corte d’Appello ha sancito che il venir meno del possesso di qualità morali e di condotta irreprensibile, che devono sussistere per la costituzione del rapporto di lavoro, travolge il vincolo fiduciario che deve legare l’Amministrazione al dipendente.

il giudice di appello non aveva indicato, altresì, quali tra i doveri del dipendente (art. 23 CCNL) sarebbe stato violato, limitandosi a rilevare che la ricostruzione dei fatti accertati in sede penale ha un intrinseco disvalore sociale. Infine, la fattispecie in esame ricadrebbe nell’art. 25, comma 5, lett. d), che richiede una valutazione discrezionale, che riguarda il fatto-reato accertato dal giudice penale per l’incidenza che detto fatto sulla condotta lavorativa del dipendente nell’adempimento degli obblighi di servizio, nella specie non effettuata. La vicenda, peraltro, non destava allarme sociale e non era assurto agli onori della cronaca, per cui non poteva ritenersi aver dato luogo, come affermato dal giudice di appello, ad una situazione di gravità tale da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario con l’Amministrazione di appartenenza.

2.1. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono inammissibili.

2.2. Questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 4036 del 2011, n. 17125 del 2007, n. 21490 del 2005) che la proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al “decisum” della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4.

Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione, restando estranea al giudizio di cassazione qualsiasi doglianza che riguardi pronunzie diverse da quelle impugnate.

A differenza di quanto esposto dal ricorrente, i giudici di appello non hanno rigettato l’impugnazione ritenendo legittimo il licenziamento irrogato dall’Amministrazione per il mero intervento della sentenza che accertava la responsabilità penale del T. per ricettazione e riciclaggio di autovetture di grossa cilindrata.

La Corte d’Appello ha, invece, espresso nella sentenza in esame una motivazione autonoma, che ha vagliato la sussistenza della giusta causa e della proporzionalità della sanzione espulsiva, così come già fatto dal giudice di primo grado, rigettando l’appello del T. in ragione della sussistenza della responsabilità disciplinare del medesimo, in base ad una specifica valutazione dei fatti che erano già stati accertati nel processo penale.

Il giudice di secondo grado ha affermato che la condotta del T., come emergeva dalla ricostruzione dei fatti accertata in sede penale, aveva un intrinseco disvalore sociale ed era contraria all’etica comune, assumendo un connotato ancora più rilevante in rapporto alla qualifica dello stesso di dipendente del Ministero della Giustizia, organo centrale dello Stato preposto alla direzione di un delicato settore qual è l’apparato giudiziario, anche in funzione di tutela dell’immagine dell’Amministrazione stessa.

La Corte d’Appello chiariva che la valutazione data dell’amministrazione del disvalore da attribuire al comportamento del dipendente (promotore e organizzatore di una associazione criminale volta alla commissione di reati di ricettazione e riciclaggio di veicoli di grossa cilindrata, protratta nel tempo e non occasionale), era congrua. La gravità e la refluenza sul rapporto fiduciario tra l’amministrazione giudiziaria e un proprio dipendente – cui era stato affidato un delicato compito da svolgere, di autista e responsabile degli archivi, a contatto con magistrati e cancellieri e nella disponibilità di documenti riservati, utilizzati nello svolgimento della delicata attività giudiziaria – non poteva essere diversa.

La sanzione disciplinare del licenziamento appariva pertanto proporzionata alla gravità dei fatti commessi, e alla dimostrata mancanza di rettitudine e affidabilità.

Tenendo conto di ogni aspetto dei fatti addebitati, dell’intensità dell’elemento intenzionale e del necessario grado di affidamento da rimettere nei confronti di chi ha la disponibilità di beni aziendali, era indiscusso che la vicenda aveva avuto una incidenza tale da scuotere il rapporto di fiducia del datore di lavoro, e aveva correttamente fatto ritenere la continuazione del rapporto di lavoro pregiudizievole agli scopi dell’Ente.

Statuiva, quindi, la Corte d’Appello che la radicale compromissione del rapporto fiduciario, tra le parti del rapporto di lavoro, era stata accertata nella sua obiettiva sussistenza e le circostanze del caso concreto erano state valutate con il rigore necessario come idonee a menomare la fiducia secondo una attenta valutazione, che aveva consentito sulla base dei criteri di proporzionalità, di ritenere il licenziamento l’unico sistema per tutelare l’Ente dal comportamento del lavoratore.

Tanto rilevato, è, dunque, evidente che la sentenza in esame ha effettuato un’autonoma valutazione della vicenda, nei sensi anzi detti.

Il ricorrente, pertanto, avrebbe dovuto censurare le autonome ragioni espresse a sostegno della decisione impugnata.

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotto omesso esame di un documento/fatto storico rilevante e decisivo, motivazione apparente in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

La Corte non avrebbe esaminato la nota del Presidente del Tribunale per i minorenni di Messina che si esprimeva in termini favorevoli all’attività lavorativa svolta presso detto ufficio dal ricorrente.

3.1. Il motivo è inammissibile, in quanto la censura per come formulata, in relazione alla statuizione assunta dalla Corte d’Appello, esula dalla previsione normativa dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come novellato.

Il testo vigente dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come sostituito, da ultimo, dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, a mente della quale è motivo di ricorso per cassazione un “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, trova applicazione nella fattispecie in esame, secondo quanto previsto dall’art. 54, comma 3, della stessa legge, perchè la sentenza gravata è stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012.

Come affermato da questa Corte a Sezioni Unite, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. n. 8053 del 2014).

Nella specie, la Corte d’Appello ha affermato che nessun valore determinante poteva essere attribuito ai giudizi positivi espressi dai responsabili degli uffici presso i quali il T. aveva prestato la sua attività lavorativa per il comportamento tenuto successivamente alla sua riammissione in servizio, comportamento sicuramente condizionato dalla pendenza del giudizio penale e che non consentiva di sminuire la gravità dei fatti commessi nè ripristinare il vincolo fiduciario.

E’ evidente, quindi, che il ricorrente, attraverso il vizio di omessa pronuncia, formula una inammissibile istanza di riesame della valutazione della documentazione invocata che è stata effettuata dalla Corte d’Appello.

4. Il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro duemilacinquecento per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito; dichiarava la sussistenza delle condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2016

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