Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1163 del 21/01/2020

Cassazione civile sez. III, 21/01/2020, (ud. 15/10/2019, dep. 21/01/2020), n.1163

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. GUIZZI GIAIME Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6161-2017 proposto da:

P.R.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

SISTINA 48, presso lo studio dell’avvocato ANDREA RUSSO,

rappresentato e difeso dall’avvocato UMBERTO OLIVA;

– ricorrente –

contro

AVIVA ITALIA SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore

amministratore delegato Dott. G.V., POGIACO SOC COOP in

persona del Presidente pro tempore del Consiglio di Amministrazione

T.C., T.G., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA FEDERICO CESI 72, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO

BONACCORSI DI PATTI, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato GIANCARLO FALETTI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2122/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 14/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/10/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO ALBERTO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato MARCO BONA per delega;

udito l’Avvocato DOMENICO BONACCORSI DI PATTI;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. P.R.F. ricorre, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza n. 2122/16, del 4 dicembre 2016, della Corte di Appello di Torino, che – respingendo il gravame esperito dall’odierno ricorrente contro la sentenza n. 8024/14, del 15 dicembre 2014, del Tribunale di Torino – ha rigettato, per quanto qui ancora di interesse, la domanda di risarcimento del danno da grave compromissione della capacità lavorativa avanzata dal P. nei confronti della società cooperativa Pogiaco, di T.G., e della società Aviva Italia S.p.a., in relazione al sinistro stradale occorso all’allora attore in data (OMISSIS).

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di essere stato, all’età di venticinque anni, vittima – nelle circostanze di tempo e luogo sopra meglio indicate – di un sinistro stradale, in ragione della collisione tra il motociclo che conduceva ed un autofurgone di proprietà della società Pogiaco, guidato dal T. ed assicurato per la “RCA” dalla società Aviva.

Avendo subito gravi lesioni personali a causa dell’incidente, radicato un primo giudizio innanzi al Giudice del lavoro del Tribunale torinese, il P. otteneva il riconoscimento della invalidità civile, nella misura del 75%, di talchè, su tali basi, conveniva in giudizio le società Pogiaco ed Aviva, oltre che il T., per conseguire il ristoro di tutti i danni conseguiti al sinistro.

L’adito giudicante, tuttavia, accoglieva solo parzialmente la domanda risarcitoria, escludendo, segnatamente, il ristoro del danno patrimoniale futuro da compromissione della capacità lavorativo/reddituale, negando la possibilità di applicare il criterio di liquidazione equitativa costituito dal cd. “triplo della pensione sociale”, sul rilievo che esso non possa operare quanto l’attore come sarebbe avvenuto nel caso di specie – non abbia provveduto ad “allegare dati di fatto concreti su cui innestare il ragionamento di accertamento e liquidazione di tale tipo di danno”, in particolare individuando, nei casi (come quello presente) in cui risulti privo di occupazione, “l’attività lavorativa che (…) avrebbe potuto in futuro espletare”.

Esperito dal P. gravame, la Corte piemontese, sul punto, pur confermando il rigetto della pretesa risarcitoria, motivava tale decisione su basi diverse. Riteneva, infatti, che lo stato di disoccupazione dell’appellante fosse risultato volontario, non avendo costui “dimostrato di aver mai lavorato, nè ricercato un’occupazione, nè di essere stato iscritto alle liste di collocamento prima della loro abrogazione”, nonchè evidenziando come “gli elementi in atti” imponessero di ritenere “che egli non fosse, affatto, intenzionato ad entrare nel mercato del lavoro”, come confermato pure dai fatto che “il certificato di disoccupazione”, dal medesimo prodotto in giudizio, non fosse “corredato dalla dichiarazione di essere disponibile a svolgere attività lavorativa”.

3. Avverso la sentenza della Corte torinese ricorre per cassazione il P., sulla base – come detto – di un unico motivo (ancorchè destinate ad articolarsi in tre diverse censure).

3.1. Esso deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione degli artt. 1,2,4 e 35 Cost., degli artt. 2727 e 2729 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 1223, 1226, 2043 e 2056 c.c. e dell’art. 137 cod. assicurazioni, oltre che della disciplina in materia di dichiarazioni finalizzate allo “stato di disoccupazione”.

Premesso il rilievo che il diritto al lavoro riveste nella nostra Costituzione (artt. 1,2,4 e 35), nonchè la sicura configurabilità e risarcibilità – ex artt. 1223,1226,2043 e 2056 c.c. – del danno patrimoniale futuro da perdita o riduzione della capacità lavorativa, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata non avrebbe fatto corretta applicazione del principio, enunciato da questa Corte, che ne esclude il ristoro in caso di disoccupazione volontaria.

In particolare, essa sarebbe venuta meno al dovere di “accertarsi scrupolosamente” del presupposto, individuato da questa Corte, per il diniego della pretesa risarcitoria, ovvero;1

“consapevole rifiuto dell’attività lavorativa”, vale a dire l’essere, quella compiuta dal soggetto inoccupato, una “scelta cosciente di rifiuto del lavoro”. La Corte torinese, difatti, avrebbe ravvisato la prova dello stato di disoccupazione volontaria, traendola presuntivamente dalla mancata dimostrazione, da parte del P., di non aver lavorato prima del sinistro, nè di aver ricercato di un’occupazione o di essersi iscritto alle liste di collocamento prima della loro abrogazione nel 2003.

In questo modo, tuttavia, la sentenza impugnata avrebbe violato gli artt. 2727 e 2729 c.c., avendo fondato il ragionamento su presunzioni prive dei caratteri della gravità, precisione e concordanza, realizzando, così, una “manifesta imprudenza valutativa” delle risultanze istruttorie, in violazione dell’art. 116 c.p.c.

Agli atti, infatti, vi sarebbe prova documentale che l’odierno ricorrente ebbe a rivolgersi ad un centro per l’impiego, rendendo la dichiarazione di disponibilità di cui al D.Lgs. 19 dicembre 2002, n. 297, art. 3, comma 1. Il tutto, peraltro, senza tacere che il P. avrebbe allegato, nel corso del giudizio di primo grado, di aver svolto piccoli lavori prima della verificazione del sinistro (sia quale operaio che quale addetto al volantinaggio), circostanza confermata anche dalla teste S.S., madre convivente dell’odierno ricorrente. Inoltre, a privare di qualsiasi fondamento, fattuale e giuridico, la presunzione di volontaria disoccupazione raggiunta dalla Corte territoriale, con riferimento al periodo antecedente al sinistro, ricorrerebbe il dato statistico, in tutto e per tutto notorio (art. 115 c.p.c.), della elevata disoccupazione giovanile, come confermato dai dati Istat relativi al periodo dal 1977 al 2012.

A maggior ragione, pertanto, la Corte territoriale non avrebbe potuto spingersi – come invece ha fatto – ad estendere la presunzione di consapevole rifiuto al lavoro per il periodo compreso dall’anno del sinistro, ovvero il 2006, sino al verosimile anno di pensionamento, anno 2046, proiettandolo per un considerevole lasso di tempo di ben quarant’anni.

4. Ha proposto controricorso la società Aviva, per resistere all’avversaria impugnazione.

Evidenzia, in particolare, come la sentenza impugnata abbia fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali, enunciati da questa Corte laddove escludono il risarcimento del danno da menomazione della capacità lavorativa in caso di disoccupazione volontaria, avendo il giudice di appello ritenuto, con valutazione non sindacabile in questa sede, la mancanza di prova, da parte del P., di aver svolto, prima o dopo il sinistro, attività lavorativa.

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ex art. 378 c.p.c., insistendo nelle rispettive argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va accolto, per quanto di ragione.

6.1. L’unitario motivo di impugnazione, come detto, si articola in tre diverse censure, le prime due delle quali non sono fondate, diversamente dalla terza.

6.1.1. Quanto, infatti, alla dedotta violazione degli artt. 1,2,4 e 35 Cost. e degli artt. 1223, 1226, 2043 e 2056 c.c., nonchè dell’art. 137 cod. assicurazioni (ovvero, la prima delle censure formulate), ad escluderne la fondatezza vale la constatazione che la Corte territoriale non ha affatto disatteso i principi in tema di danno patrimoniale – futuro – da menomazione della capacità lavorativa, elaborati de qua Corte con specifico riferimento alla fattispecie concernente un soggetto privo di occupazione.

E’ stato, infatti, ripetutamente affermato che, in “tema di risarcimento del danno alla persona, la mancanza di un reddito al momento dell’infortunio per essere il soggetto leso disoccupato, può escludere il danno da invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato alla invalidità permanente che – proiettandosi per il futuro – verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima, al momento in cui questa inizierà una attività remunerata, salvo l’ipotesi che si tratti di disoccupazione volontaria, ovvero di un consapevole rifiuto dell’attività lavorativa” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 13 luglio 2010, n. 16396, Rv. 614108-01; in senso analogo Cass. Sez. 3, sent. 11 dicembre 2003, n. 18945, Rv. 569304-01).

Ciò detto, la Corte territoriale ha ritenuto integrata proprio l’ipotesi del “consapevole rifiuto dell’attività lavorativa” da parte del P., ciò che esclude la fondatezza delle censure di violazione delle norme suddette, alla luce del principio secondo cui “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto si lamenta nel caso di specie, come è reso evidente dalle altre censure proposte dal ricorrente, che tendono a mettere in discussione proprio l’apprezzamento del giudice di appello circa l’effettiva ricorrenza di un “consapevole rifiuto dell’attività lavorativa” – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonchè Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).

6.1.2. D’altra parte, non fondata è pure la pretesa del ricorrente oggetto della seconda censura dallo stesso articolata – di mettere in dubbio la correttezza della valutazione operata dalla Corte territoriale, circa il carattere “volontario” dello stato di disoccupazione, ipotizzando la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e dunque prospettando un cattivo apprezzamento del materiale probatorio.

Al riguardo, infatti, è sufficiente richiamarsi al principio secondo cui l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dai testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del dell’art. precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4), – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458).

Nè, poi, la violazione dell’art. 115 c.p.c. (dedotta dal ricorrente con riferimento alla lamentata erroneità dell’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, circa la carenza, nel certificato di disoccupazione prodotto in giudizio da esso P., della “dichiarazione di essere disponibile a svolgere attività lavorativa”) risulta prospettata sotto il profilo del “travisamento della prova”, ciò che ne avrebbe reso possibile l’esame da parte di questa Corte.

Difatti, se è vero che “la denuncia di travisamento del fatto – che costituisce motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c. e non di ricorso per cassazione – è incompatibile con il giudizio di legittimità perchè implica la valutazione di un complesso di circostanze che comportano il rischio di una rivalutazione del fatto non consentita al giudice di legittimità”, è, d’altra parte, innegabile che “diversa da quest’ultima emergenza è l’ipotesi del travisamento della prova che implica, non una valutazione dei fatti, ma una constatazione o un accertamento che quella informazione probatoria, utilizzata in sentenza, è contraddetta da uno specifico atto processuale”; evenienza, quest’ultima, che ricorre quando “l’informazione probatoria riportata ed utilizzata dal giudice per fondare la decisione sia diversa ed inconciliabile con quella contenuta nell’atto e rappresentata nel ricorso o addirittura non esista” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 25 maggio 2015, n. 10749, Rv. 635564-01).

Orbene, quantunque il ricorrente si dolga del fatto (documentandolo, e dunque ottemperando al disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) di essersi rivolto ad un centro per l’impiego, il 4 novembre 2004, rendendo la dichiarazione di disponibilità di cui al D.Lgs. 19 dicembre 2002, n. 297, art. 3, comma 1, esso non ha proposto, come detto, la censura di violazione dell’art. 115 c.p.c. sotto il profilo del travisamento della prova.

6.1.3. Fondata è, invece, la terza censura, ovvero quella di violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c.

6.1.3.1. Si contesta, in questo caso, l’affermazione della Corte territoriale secondo cui “il certificato di disoccupazione”, prodotto in giudizio dal P., in quanto non “corredato dalla dichiarazione di essere disponibile a svolgere attività lavorativa”, sarebbe idoneo a fondare la presunzione che costui, fino al raggiungimento dell’età pensionabile, non avrebbe svolto attività lavorativa, nè sarebbe stato intenzionato a svolgerla.

Orbene, che si tratti di censura ammissibile (diversamente da quanto eccepito dalla controricorrente), non è revocabile in dubbio, alla stregua del principio secondo cui, “qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360 c.p.c., e non già alla stregua dello stesso art. 360, n. 5), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta” (Cass. Sez. 3, sent. 4 agosto 2017, n. 19485, Rv. 645496-02; in senso sostanzialmente analogo puro Cass. Sez. 6-5, ord. 5 maggio 2017, n. 10973, Rv. 643968-01; nonchè Cass. Sez. 3, sent. 26 giugno 2008, n. 17535, Rv. 603893-01 e Cass. Sez. 3, sent. 19 agosto 2007, n. 17457, non massimata sul punto).

6.1.3.2. Oltre che ammissibile la censura coglie anche nel segno, per le ragioni di seguito indicate.

Sul punto, occorre muovere dal rilievo che, in relazione ai caratteri della gravità, precisione e concordanza che debbono connotare necessariamente le presunzioni, questa Corte ha chiarito quanto segue. In particolare, che “la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche “lex artis”)”, esprimendo nient’altro che “la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui, dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B”, non essendo, invece, “condivisibile invece l’idea che vorrebbe sotteso alla gravità che l’inferenza presuntiva sia “certa”” (così Cass. sez. 3, n. 19435 del 2017, cit.). Difatti, “per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola della inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'”id quod plerumque accidit” (in virtù della regola dell’inferenza probabilistica)” (così Cass. Sez. 3, sent. n. 17457 del 2007, cit., in senso analogo, più di recente, Cass. Sez. 2, sent. 6 febbraio 2019, n. 3513, n. 652361-01; Cass. Sez. 2, sent. 31 ottobre 2011, n. 22656, Rv. 619955-01). Si ritiene, dunque, che il giudice possa “trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purchè dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza”, dovendosi solo escludere “che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici” (nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 17457 del 2007, cit.).

Orbene, già riguardata sotto questo profilo, è da ritenere integrata – nel caso di specie – la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. Non risponde, infatti, al requisito della “gravità” l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la mancanza della dichiarazione di disponibilità a svolgere attività lavorativa, nella richiesta di iscrizione nelle liste di collocamento (circostanza, peraltro, contestata da P., sebbene non adeguatamente, ovvero – come sarebbe stato necessario – attraverso la deduzione di un “travisamento” dell’informazione probatoria recata da quel documento), sarebbe idonea a far presumere che egli si sarebbe astenuto, addirittura per un quarantennio, dalla ricerca di attività lavorativa. Infatti, si fatica a comprendere su quali basi la sentenza impugnata abbia formulato un giudizio di probabilità, basato sull'”id quod plerumque accidit”, per risalire dal fatto (noto) della mancata dichiarazione di disponibilità, nell’anno 2004, alla dimostrazione della mancata volontà di ricercare un’occupazione lavorativa per tutta l’esistenza futura dell’interessato.

Ma vi è di più.

Difettano, nella specie, anche i requisiti della precisione e concordanza.

Sul punto, va osservato che la precisione “esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso di esso”, mentre “non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti”, la concordanza, invece, individuando un “requisito del ragionamento presuntivo, che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori, volendo esprimere l’idea che, intanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi” (così, nuovamente, Cass. sez. 3, sent. 19485 del 2017, cit.).

Ciò detto, ancora una volta, non è dato minimamente comprendere – dalla sentenza impugnata – in che modo l’assenza, nell’iscrizione delle liste di collocamento nell’anno 2004, della dichiarazione di disponibilità a svolgere attività lavorativa, possa “in via di inferenza probabilistica”, far presumere – “con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso di esso” – il fatto costituito dal persistere di tale intendimento lungo un arco temporale così ampio, corrispondente addirittura all’intera aspettativa di vita di un individuo allora ventitreenne.

Infine, non v’è chi non veda l’assenza – nel ragionamento presuntivo della Corte territoriale – degli “altri elementi probatori”, idonei a consentire che il fatto noto “indirizzi alla conoscenza” del fatto ignoto da provare.

Risalta, dunque, pienamente riscontrata la violazione delle norme (artt. 2727 e 2729 c.c.) in tema di presunzioni.

7. All’accoglimento del ricorso, per quanto di ragione, segue la Corte di Appello di Torino, in diversa composizione, affinchè decida nel merito, alla stregua dei principi testè illustrati nei p.p. 6.1.3.1. e 6.1.3.2.

8. Le spese del presente giudizio saranno liquidate all’esito del giudizio di rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, per quanto di ragione, e cassa, per l’effetto, la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito dell’udienza pubblica della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2020

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