Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11621 del 04/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 04/05/2021, (ud. 29/01/2021, dep. 04/05/2021), n.11621

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 12234/14 R.G. proposto da:

M.T.M. CARS DI R.T. & C. S.A.S., in persona del legale

rappresentante, R.T., C.M.,

E.M., tutti rappresentati e difesi, giusta delega a margine del

ricorso per cassazione, dagli avv.ti Teo Tirelli e Roberto Santucci,

con domicilio eletto presso il loro studio, in Roma, via Tacito, n.

10;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Liguria n. 96/8/13 depositata in data 17 ottobre 2013

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29 gennaio

2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle entrate, all’esito di verifica svolta nei confronti della Eurogam s.r.l., notificò alla società MTM Cars di R.T. & C. s.a.s., esercente l’attività di commercio di autoveicoli, distinti avvisi di accertamento, in relazione agli anni d’imposta dal 2004 al 2007, ai fini del recupero di maggior reddito di impresa per indebita deduzione di costi e indebita detrazione di I.V.A. in relazione ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti relative all’importazione intracomunitaria di autoveicoli per il tramite di cd. società cartiere fittiziamente interposte all’effettivo cedente comunitario. Successivamente emise distinti avvisi di accertamento, per i medesimi anni di imposta, nei confronti dei soci R.T., C.M. e E.M., per la ripresa a tassazione del maggior reddito di partecipazione, ai sensi dell’art. 5 T.U.I.R..

2. All’esito di distinti ricorsi proposti dalla società e dai soci, la Commissione tributaria provinciale di Genova, con le sentenze n. 211/5/11, 212/5/11, 213/5/11 e 214/5/11, depositate in pari data, li accolse, annullando gli atti impositivi.

Impugnate le sentenze dall’Agenzia delle entrate, la Commissione tributaria regionale, in parziale accoglimento dell’appello, confermò gli avvisi di accertamento relativamente al recupero dell’I.VA., annullandoli con riguardo ai rilievi afferenti le imposte dirette.

Osservò che dai verbali della Guardia di Finanza risultava che gli acquisti effettuati dalla società contribuente erano avvenuti a prezzi favorevoli, inferiori al prezzo di acquisto estero, e che le cd. società interposte non versavano l’I.V.A. e non erano dotate di strutture idonee ad esercitare l’attività di impresa, con la conseguenza che l’avvenuto pagamento delle fatture non consentiva di ritenere sussistente la buona fede dell’acquirente. Invocando la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, come riformulato dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, riteneva deducibili i costi afferenti alle medesime operazioni, limitatamente alle imposte dirette.

3. Avverso la decisione d’appello hanno proposto ricorso per cassazione la società M.T.M. Cars di R.T. & C. s.a.s. ed i soci, affidandosi a tre motivi. L’Agenzia delle entrate resiste mediante controricorso.

In prossimità dell’adunanza camerale, i contribuenti hanno depositato memoria ex art. 380 bis.1. c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per essersi la C.T.R. limitata ad un generico richiamo ai verbali della Guardia di Finanza, senza citarne i contenuti o riportarne i passaggi fondamentali, in tal modo omettendo di giustificare il proprio convincimento e, quindi, le ragioni per le quali aveva ritenuto che i prezzi fossero “favorevoli” e che le operazioni avessero come unico scopo quello della indebita detrazione dell’I.V.A. nella compravendita delle autovetture.

Lamentano, altresì, che i giudici di appello avrebbero trascurato di considerare gli elementi forniti e la documentazione prodotta, sulla base dei quali i giudici di primo grado avevano riconosciuto che era stata fornita ampia prova sia della buona fede sia della estraneità al meccanismo fraudolento, e mancato di procedere ad una disamina approfondita di tali elementi, rendendo di conseguenza impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento.

2. Con il secondo motivo – rubricato “Violazione e falsa applicazione del principio di buona fede espresso dalla Corte di Giustizia e confermato dalla Suprema Corte in riferimento alla fattispecie della frode fiscale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3” – i ricorrenti censurano la decisione impugnata per avere erroneamente ritenuto legittimi gli accertamenti ai fini I.V.A. sul presupposto della asserita compartecipazione della società alla frode, attribuendo rilievo ad una serie di circostanze, quali il pagamento di un prezzo inferiore a quello di acquisto all’estero, la mancanza da parte dei fornitori di strutture idonee ad esercitare l’attività d’impresa e gli omessi versamenti dell’I.V.A. da parte delle società interposte.

Ribadiscono che la Corte di Giustizia ha introdotto la rilevanza della conoscenza o conoscibilità della frode e che nel giudizio di merito hanno provato non solo l’effettività delle operazioni economiche compiute, producendo documentazione idonea a dimostrare la regolarità delle operazioni poste in essere negli anni oggetto di contestazione, ma anche come le transazioni fossero state effettuate sulla base di condizioni usuali di mercato, a prezzi congrui e in linea con le quotazioni dell’epoca, considerate le specifiche condizioni dei veicoli, che erano stati acquistati a prezzi normalmente inferiori a quelli di mercato e conseguendo un utile a seguito della vendita a prezzi conformi alle quotazioni.

Hanno, altresì, aggiunto che la documentazione prodotta in giudizio, volta a ricostruire le operazioni in esame, dimostra l’inconsapevolezza della società alla frode posta in essere da altri e richiamano, in relazione a ciascuna delle fatture contestate, i singoli documenti comprovanti il pagamento del prezzo, la immatricolazione e il valore di mercato di ogni singolo veicolo.

3. Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, dell’art. 24Cost., dell’art. 118 disp. att. c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, 36, comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamentando la totale mancanza di un percorso motivazionale idoneo a rendere chiare le ragioni su cui si fonda la decisione d’appello. Rilevano, in particolare, che la C.T.R., prendendo le mosse dall’assunto dell’applicazione di prezzi inferiori a quelli di mercato ed affermando che il guadagno deriverebbe solo dall’indebita detrazione dell’I.V.A., richiama giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia per affermare che il concessionario deve non solo essere inconsapevole della frode, ma deve anche avere adottato tutte le misure necessarie per evitare di essere coinvolto, senza tuttavia illustrare l’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla conferma degli atti impositivi.

4. Il terzo motivo, concernente un error in procedendo, va scrutinato preliminarmente ed è infondato.

4.1. Come rilevato dalle Sezioni Unite di questa Corte con le decisioni nn. 22231 e 22232 del 2016, si è in presenza di una “motivazione apparente” allorchè la motivazione, pur essendo graficamente esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perchè consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talchè essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice. Sostanzialmente omogenea alla motivazione apparente è poi quella perplessa e incomprensibile: in entrambi i casi – purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali – l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo e, in quanto tale, comporta la nullità della sentenza impugnata per cassazione (Cass., sez. U, 5/08/2016 n. 16599; Cass., sez. U, 7/04/2014, n. 8053).

4.2. La sanzione di nullità colpisce, dunque, non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione o che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e “una motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile” (Cass., sez. U, 7/04/2014, n. 8053), ma anche quelle che non esternano un “ragionamento che, partendo da determinate premesse, pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass., sez. U, 3/11/2016, n. 22232).

4.3. Ciò non ricorre nel caso in esame, laddove la C.T.R., seppure in maniera sintetica, ha ritenuto di dover confermare gli atti impositivi, considerando sussistenti i presupposti impositivi e provata la fittizietà delle operazioni sottese alle fatture oggetto di contestazione e la consapevolezza, da parte del cessionario, del meccanismo fraudolento.

Esplicitando le ragioni della decisione, la motivazione non può considerarsi meramente apparente ed eventuali profili di contraddittorietà o di insufficienza del ragionamento decisorio, pure censurati con il mezzo in esame, non la viziano in modo così radicale da escluderne l’idoneità ad assolvere alla funzione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36.

5. Il primo ed il secondo motivo possono essere scrutinati congiuntamente, perchè connessi tra loro, e sono parimenti infondati.

Entrambe le doglianze investono la tematica della detraibilità dell’I.V.A. nel caso di fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti, questione che è stata oggetto di numerose decisioni di questa Corte, anche alla luce dei ripetuti interventi da parte della Corte di Giustizia.

5.1. Questa Corte ha, al riguardo, statuito che “In tema di I.V.A., l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” (Cass., sez. 5, 20/04/2018, n. 9851; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27566; Cass., sez. 5, 20/01/2010, n. 867; Cass., sez. 5, 10/06/2011, n. 12802).

5.2. La prova, da parte dell’Amministrazione può ritenersi raggiunta se vengono forniti attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice e, dunque, non occorre la prova “certa” ed incontrovertibile di ogni operazione, per cui l’onere probatorio può essere assolto anche mediante presunzioni, come prevede per l’I.V.A. il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, e, per le imposte dirette, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e mediante elementi indiziari (Cass., sez. 6-5, 7/06/2017, n. 14237; Cass., sez. 5, 24/09/2014, n. 20059; Cass., sez. 5, 5/12/2014, n. 25778; nello stesso senso Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C-439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahagèben e David, C-80/11 e C-142/11).

5.3. In ordine all’elemento soggettivo, se è vero che non è ipotizzabile un automatismo probatorio e che al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sussiste, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali ed operativi anomali dell’operazione commerciale, tali da evidenziare irregolarità o da ingenerare dubbi di una potenziale evasione.

Occorre, sul punto, precisare che, secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia, la circostanza che l’operazione si inserisca in una fattispecie fraudolenta di evasione dell’I.V.A. non comporta ineludibilmente la perdita, per il cessionario, del diritto di detrazione, sussistendo una esigenza di tutela della buona fede del soggetto passivo, il quale non può essere sanzionato, con il diniego del diritto di detrazione, se “non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si collocava nell’ambito di un’evasione commessa dal fornitore o che un’altra operazione facente parte della catena delle cessioni, precedente o successiva a quella da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell’Iva” (Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C-439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahagèben e David, C-80/11 e C142/11; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14).

Pertanto, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a provare, sia pure anche solo in base a presunzioni, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente, con l’emissione della relativa fattura, aveva evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero “a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente” (Corte di Giustizia 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11; Corte di Giustizia, Ppuh, C277/14, par. 50).

In particolare, la Corte di Giustizia (22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14) ha precisato che “le disposizioni della sesta Dir. 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base imponibile uniforme – come modificata dalla Dir. 2002/38/CE del Consiglio del 7 maggio 2002, devono essere interpretate nel senso che esse ostano a una normativa nazionale… che neghi a un soggetto passivo il diritto di detrarre l’imposta del valore aggiunto dovuta o assolta per beni che gli sono stati ceduti sulla base dei rilievi che la fattura è stata emessa da un soggetto che deve essere considerato, con riferimento ai criteri previsti da tale normativa, un soggetto inesistente, e che è impossibile identificare il vero fornitore dei beni, tranne nel caso in cui si dimostri, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal soggetto passivo verifiche che non gli incombono, che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.

In conformità a tale pronuncia, questa Corte ha, quindi, ritenuto che in alcuni casi “l’onere probatorio dell’Amministrazione finisce con l’appesantirsi, in quanto, di norma, non è possibile esigere che il cessionario/committente, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni nella catena delle cessioni, verifichi che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi ne disponesse e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’I.V.A., o che disponga dei relativi documenti” (Cass., sez. 5, 2/12/2015, n. 24490; Cass., sez. 5, 13/07/2017, n. 17290), sottolineando, tuttavia, che continua a prospettarsi un obbligo di verifica in capo al cessionario a fronte di indizi che gli consentano di sospettare l’esistenza di evasione.

5.4. Incombe, quindi, sull’Amministrazione l’onere di dimostrare, in base ad elementi obiettivi e specifici, che il cessionario conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione all’I.V.A. e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle particolari circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare.

Anche se la valutazione deve essere effettuata caso per caso, si è precisato (Cass., sez. 5, 20/04/2018, n. 9851), in via meramente esemplificativa, che possono costituire elementi di rilevanza sintomatica: l’acquisto dei beni ad un prezzo inferiore di mercato; la limitatezza dell’eventuale ricarico, la presenza di una varietà e pluralità di soggetti promiscuamente indicati nella documentazione di trasporto e nella fatturazione, la scelta di operare secondo canali paralleli di mercato, la tempistica dei pagamenti, soprattutto se incrociati od operati su conti esteri a fronte di interlocutori nazionali, la qualità del concreto intermediario con il quale sono state intrattenute le operazioni commerciali, il numero, la qualità e la durata delle transazioni.

Con particolare riguardo all’ipotesi di operazione triangolare “semplice”, si è affermato (Cass., sez. 5, 30/10/2013, n. 24426; Cass., sez. 5, 21/04/2017, n. 10120; Cass., sez. 6-5, 13/02/2018, n. 3474) che “l’onere probatorio dell’Amministrazione ben può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata (è, cioè, una cartiera), costituendo ciò, di per sè, elemento idoneamente sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, poichè coinvolti nella frode induce incolpevole del contribuente”.

6. Nella fattispecie in dell’I.V.A., il giudice a quo si motivazione che, seppure estremamente sintetica, risulta sufficiente e scevra da vizi logici, avendo correttamente verificato l’assolvimento, da parte dell’Amministrazione finanziaria, dell’onere probatorio sia in ordine alla soggettiva fittizietà delle società fornitrici che in ordine alla conoscibilità, da parte della società contribuente, che l’operazione si inseriva in una evasione I.V.A. Quanto alla individuazione degli elementi indiziari della fittizietà della interposizione, i giudici di merito hanno posto in rilievo che le cd. società interposte “non avevano strutture idonee ad esercitare l’attività d’impresa, in quanto prive di capitale, di dotazioni e di autonoma organizzazione e senza scopo di profitto” e che non effettuavano i versamenti dell’I.V.A., circostanze che, complessivamente valutate, sono sicuramente idonee a far ritenere provata, da parte dell’Amministrazione fiscale, la natura di “cartiere” delle società interposte.

Sotto il profilo della conoscenza o conoscibilità da parte della società contribuente, la C.T.R. ha concluso che il cessionario non poteva non sapere del meccanismo fraudolento, in considerazione degli elementi presuntivi obiettivi, quali i rapporti commerciali dallo stesso intrattenuti con una pluralità di soggetti aventi la qualità di “cartiera” e l’acquisto delle autovetture a costi inferiori al prezzo di acquisto estero, giustificabile solo in ragione della indebita detrazione dell’I.V.A. praticata nella compravendita delle autovetture.

Correttamente ha, quindi, considerato assolto, da parte dell’Amministrazione finanziaria, l’onere probatorio – con una valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità – ed ha, quindi, escluso che gli elementi probatori offerti dalla contribuente fossero idonei a superare gli elementi presuntivi esposti dall’Ufficio, considerato che la regolarità della documentazione contabile, la effettiva consegna dei veicoli, il versamento del corrispettivo, che i ricorrenti assumono di avere dimostrato mediante la produzione documentale offerta nel giudizio di merito, non costituiscono circostanze concludenti, trattandosi di dati facilmente falsificabili (Cass., sez. 5, 14/01/2015, n. 428).

Non è, pertanto, configurabile il denunciato vizio di violazione di legge, nè il dedotto vizio di motivazione, che deve essere formulato mediante esposizione chiara del fatto, rilevante e decisivo, che il giudice d’appello avrebbe tralasciato di esaminare, tenuto conto che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo esame, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale, spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass., sez. 5, 4/08/2017, n. 19547).

Infatti, a seguito della modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alla sentenza in questa sede impugnata in quanto pubblicata successivamente alla data dell’11 settembre 2012 di entrata in vigore della norma modificativa, non trova più accesso al sindacato di legittimità della Corte il vizio di mera insufficienza od incompletezza logica dell’impianto motivazionale per inesatta valutazione delle risultanze probatorie. La nuova formulazione del vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ha, infatti, limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6.

Pertanto, laddove non si contesti la inesistenza del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale, il vizio di motivazione può essere dedotto soltanto in caso di omesso esame di un fatto storico ai fini di una diversa decisione, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (Cass., sez. 3, 10/06/2016, n. 11892). Rimane, quindi, estranea al vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. qualsiasi contestazione volta a criticare il convincimento che il giudice si è formato in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, operando il conseguente giudizio di prevalenza.

La censura svolta dalle parti ricorrenti, riproponendo gli elementi fattuali già sottoposti al vaglio dei giudici di merito, tende a una diversa ricostruzione in fatto rispetto a quella operata dalla Commissione tributaria regionale, preclusa in sede di legittimità, e si pone, pertanto, al di fuori dei limiti imposti al sindacato di legittimità.

7. In conclusione, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 13.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2021

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