Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1162 del 18/01/2017

Cassazione civile, sez. I, 18/01/2017, (ud. 17/11/2016, dep.18/01/2017),  n. 1162

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10481-2014 proposto da:

C.C., (C.F. (OMISSIS)) elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA G. CARINI 58, presso l’avvocato MARIA PIA SABATINI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FERDINANDO TOTA,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

V.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASPERIA 39,

presso il proprio STUDIO, rappresentata e difesa da se medesima

unitamente all’avvocato GIUSEPPE LEFONS, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 185/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 13/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/11/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato FERDINANDO TOTA che per quanto

riguarda la richiesta di rinvio da parte dell’avv. LEFONS si

rimette; comunque chiede l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per il rigetto dell’istanza di

rinvio e rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In data 27 maggio 2010 il Tribunale di Roma pronunciava la separazione personale dei coniugi C.C. e V.L., respingendo le domande di addebito della responsabilità proposte da ciascuna delle parti nei confronti dell’altra e rigettando sia la domanda di assegnazione della casa coniugale proposta dal marito che quella di attribuzione dell’assegno di mantenimento avanzata dalla moglie.

La sentenza era impugnata da V.L., la quale ne domandava la riforma con riferimento ai profili attinenti all’addebito della separazione, al riconoscimento dell’assegno di mantenimento (richiesto in misura non inferiore alla somma di Euro 3.000,00) e alla restituzione del mobilio e degli effetti personali ancora detenuti da C..

Nella resistenza di quest’ultimo, che concludeva per la declaratoria di inammissibilità del gravame a norma dell’art. 342 bis c.p.c. e per il rigetto dello stesso, la Corte di appello di Roma, con sentenza pubblicata il 13 gennaio 2014, in parziale riforma della pronuncia impugnata, poneva a carico dell’appellato l’obbligo di corrispondere all’appellante l’assegno mensile di Euro 1.000,00, con decorrenza dalla domanda e con rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT; confermava nel resto la sentenza impugnata. Per quanto qui interessa, e in buona sintesi, il giudice distrettuale procedeva, sulla scorta delle risultanze di causa ad una ricognizione del patrimonio e dei redditi dei coniugi e concludeva nel senso che, nel mentre V.L. si trovava, al momento della cessazione della vita matrimoniale, e nel periodo successivo, in condizioni di debolezza economica, C.C. aveva goduto negli anni della convivenza coniugale, e tuttora godeva, dell’agiatezza assicuratagli oltre che dal reddito dichiarato al fisco, anche dei frutti di ingenti investimenti finanziari e di un cospicuo patrimonio immobiliare, personale e familiare. Di contro, secondo la Corte di Roma, l’appellante aveva non solo perduto la sicurezza economica e l’agiatezza che le condizioni economiche del marito le avrebbero assicurato ove non fosse intervenuta la separazione, ma aveva anche dovuto affrontare gli effetti della stasi della sua attività professionale durante la breve parentesi matrimoniale, essendo avvocato del libero foro: effetti non facilmente nè rapidamente recuperabili.

La sentenza della Corte di appello di Roma è impugnata per cassazione da C.C. con un ricorso che si basa su tre motivi. Resiste con controricorso V.L..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va osservato, preliminarmente, che il controricorso risulta essere tempestivo, essendo stato avviato per la notifica entro il termine prorogato ex art. 155 c.p.c., comma 4, risultando festivo l’ultimo giorno utile per procedere all’incombente processuale (1 giugno 2014). Tale controricorso reca, poi, in calce, la procura speciale ed è noto che il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione, è, per sua natura, speciale e non richiede alcuno specifico riferimento al processo in corso (per tutte: Cass. 1 settembre 2014, n. 18468).

Il primo motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 101, 345 e 348 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Rileva il ricorrente che con ordinanza del 12 aprile 2012 la Corte di appello aveva rinviato la causa all’udienza del 17 gennaio 2013, concedendo alle parti termine fino al 17 dicembre 2012 per il deposito di note conclusionali e documenti; la stessa Corte di merito aveva inoltre concesso alle parti termine fino al 2 gennaio 2013 per il deposito di repliche. L’appellante aveva omesso di rispettare i termini fissati e, senza aver depositato alcunchè entro il primo dei termini assegnati, aveva versato in atti, in data 28 dicembre 2012, una memoria di replica avente il contenuto sostanziale di una comparsa conclusionale e una serie di documenti nuovi di natura fiscale e bancaria. Ricorda il ricorrente di aver tempestivamente denunciato la condotta processuale della controparte alla Corte di appello, lamentando, nella circostanza, di non aver potuto compiutamente controdedurre in merito alle evidenze documentali suddette ed eccependo come lo scritto conclusionale dell’appellante fosse inammissibile, non avendo il contenuto di una memoria di replica.

La censura risulta carente di specificità, ed è perciò inammissibile.

La doglianza del ricorrente è incentrata sulla tardiva produzione di documenti (rispetto al termine assegnato dal collegio a tal fine) e sulla articolazione, nella memoria di replica, di deduzioni difensive che avrebbero dovuto essere svolte in comparsa conclusionale (atto, questo, che la controparte non aveva provveduto a depositare). L’istante non chiarisce, però, quale fosse il preciso contenuto dei documenti, nè espone l’oggetto delle argomentazioni sviluppate nella memoria di replica. In tal modo egli manca di fornire alla Corte gli elementi utili per vagliare la decisività dei vizi prospettati: va rammentato, infatti, che la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione (Cass. 18 dicembre 2014, n. 26831; Cass. 19 marzo 2014, n. 6330).

In tal senso, assumeva rilievo dirimente la specificazione dei contenuti relativi alla documentazione e allo scritto conclusionale: ciò al fine di apprezzare se la sentenza impugnata ne avesse tenuto conto, causando, in tal modo, un qualche effettivo pregiudizio all’odierno istante. Nè, al riguardo, rileva che la censura concerna vizi del procedimento. Come è stato osservato da questa Corte, anche quando nel ricorso per cassazione siano denunciati errores in procedendo è necessario, per il principio di autosufficienza del ricorso, e quindi per non incorrere nel vizio di genericità della doglianza, che siano indicati con precisione gli elementi di fatto che consentano di controllare la decisività dei vizi dedotti (Cass. 31 gennaio 2006, n. 2140; Cass. 18 ottobre 2005, n. 20139; Cass. 3 aprile 2003, n. 5148).

Vero è, infatti, che in relazione a tali vizi la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito; ma è altrettanto vero che la questione circa ammissibilità del motivo, in relazione ai termini in cui è stato esposto, si prospetta preliminare rispetto ad ogni altra: con la conseguenza che solo allorquando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (Cass. 28 marzo 2012, n. 5036).

Con il secondo mezzo l’istante propone una censura di violazione falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., oltre che dell’art. 156 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Evidenzia che il Tribunale, con la sentenza di primo grado, aveva correttamente osservato che la ridottissima durata del matrimonio e l’età dei coniugi, già ultraquarantenni, ognuno con una propria attività lavorativa da tempo incardinata, non consentiva nemmeno ipoteticamente l’accoglimento della richiesta dell’assegno di mantenimento, posto che tale attribuzione patrimoniale si sarebbe tradotta in una ingiusta rendita vitalizia per la moglie. D’altro canto aggiunge il ricorrente – V.L. non aveva provato la propria mancanza di reddito e il tenore di vita mantenuto dalla coppia in costanza del matrimonio (tenore di vita asseritamente contrassegnato da lusso, agiatezza e numerosi viaggi di piacere). Sul punto, ricorda il ricorrente che il giudice, nello stabilire l’assegno di mantenimento, deve prendere in considerazione la capacità lavorativa di chi lo richiede e solo ove il giudizio circa tale capacità lavorativa sia negativo può pervenirsi al riconoscimento del diritto. Evidenzia l’istante che la breve durata del matrimonio precludeva, del resto, il riconoscimento dell’assegno di mantenimento. Il motivo si sofferma poi su aspetti specifici della controversia: la prova, in atti, dell’infondatezza delle affermazioni della controricorrente, secondo cui ella aveva ridotto drasticamente la propria attività professionale ed era stata costretta dal marito a dedicarsi alla famiglia e alle questioni legali inerenti le attività economiche societarie dei C.; il mancato apprezzamento di deduzioni svolte nel corso di un’udienza di appello, quanto alla ripresa dell’attività lavorativa da parte di V.L.; il fatto che le dichiarazioni dei redditi e bancarie di quest’ultima risultassero mendaci.

Il motivo non è fondato.

Esso è rubricato come violazione di legge; nondimeno, a fronte della molteplicità delle argomentazioni che svolge, pone una sola questione di diritto: se, cioè, la ridotta durata del matrimonio sia ostativa al riconoscimento dell’assegno di mantenimento. Premesso che, come si legge nella sentenza impugnata (pag. 7), la convivenza dei coniugi si è protratta dal 2004 al 2006, all’indicato quesito questa Corte ha già dato responso di segno negativo, rilevando che in tema di separazione personale dei coniugi, alla breve durata del matrimonio non può essere riconosciuta efficacia preclusiva del diritto all’assegno di mantenimento, ove di questo sussistano gli elementi costitutivi, rappresentati dalla non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente, dalla non titolarità, da parte del medesimo, di adeguati redditi propri, ossia di redditi che consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, e dalla sussistenza di una disparità economica tra le parti con riferimento all’art. 156 c.c.; alla durata del matrimonio può semmai attribuirsi rilievo ai fini della concreta quantificazione dell’assegno di mantenimento (Cass. 16 dicembre 2004, n. 23378; in termini analoghi, Cass. 22 ottobre 2004, n. 20638; nel senso che tale durata va apprezzata nello stabilire l’importo dell’assegno cfr. pure Cass. 7 dicembre 2007, n. 25618).

Per il resto, ciò di cui si duole il ricorrente è che le evidenze probatorie della causa non dessero ragione del fatto che l’odierna controricorrente fosse mancante di adeguati redditi e di capacità lavorativa, tali da consentirgli di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio (pag. 12 del ricorso).

Il motivo censura allora la sentenza sul versante motivazionale, dal momento che non imputa alla stessa una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalla norma di legge, quanto, piuttosto, l’erronea ricostruzione della fattispecie concreta sulla scorta delle risultanze di causa (sulla differenziazione dei due vizi, ex plurimis: Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110). La stessa censura avente ad oggetto la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è, in tal senso, indicativa della natura del vizio, siccome riferito alla motivazione della sentenza (cfr. al riguardo Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707).

Ora, nella nuova formulazione del cit. n. 5, risultante dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito in L. n. 134 del 2012, scompare ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata; è stato osservato, sul punto dalle Sezioni Unite di questa Corte, che volontà del legislatore e scopo della legge convergono senza equivoci nella esplicita scelta di ridurre al “minimo costituzionale” il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Al contempo, la fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per come riformulata, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, il ricorrente debba indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. 7 aprile 2014, n. 8053).

Tanto detto, il ricorrente indirizza le proprie censure verso lo scorretto apprezzamento delle prove. Ma il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non è inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’odierna versione (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892).

Il terzo motivo contiene una censura di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., oltre che dell’art. 156 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Osserva il ricorrente che le certificazioni prodotte per dar conto del mancato svolgimento dell’attività professionale da parte dell’appellante si riferivano alla sola attività giudiziale civile, sicchè – essendo pacifico che la stessa V. esercitasse la professione, avendolo espressamente riconosciuto all’udienza presidenziale – doveva ritenersi che ella svolgesse attività di natura stragiudiziale o penale. Il motivo, poi, prende in considerazione il passaggio della sentenza in cui è esposto che i coniugi si sarebbero accordati perchè la moglie non lavorasse: il ricorrente sottolinea quindi l’illogicità della successiva affermazione, contenuta nella pronuncia, per cui l’appellante aveva continuato a svolgere la propria attività, occupandosi delle questioni legali delle aziende della famiglia C..

Anche tale motivo è infondato, dovendosi richiamare, al riguardo, quanto sopra osservato in ordine al limite che oggi colpisce il sindacato sulla motivazione della sentenza.

Va solo aggiunto che nel corpo della complessa censura inserita una doglianza riferita alla statuizione adottata dalla Corte di merito in punto di spese. Ma è di tutta evidenza che essa sia inammissibile, in quanto articolata in modo del tutto generico, senza nemmeno indicare i profili della supposta illegittimità della statuizione in discorso.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Si dà atto dell’obbligo della parte ricorrente di procedere, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 3.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali e oneri di legge; dà atto che ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, parte ricorrente è tenuta al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 17 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2017

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