Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11613 del 04/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 04/05/2021, (ud. 28/01/2021, dep. 04/05/2021), n.11613

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4314/2015 R.G. proposto da:

B.E. e B.G., rappresentati e difesi, giusta

procura in calce al ricorso, dall’Avv. Luigi Castaldi e dall’Avv.

Patrizia Marino, ed elettivamente domiciliati presso lo studio della

seconda in Roma, Via M. Prestinari, n. 15;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio,

n. 4611/29/2014, depositata il 9 luglio 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 gennaio

2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale del Lazio rigettava gli appelli riuniti proposti da B.E. e da B.G. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Roma (n. 89/35/2013), che aveva respinto i ricorsi presentati dai contribuenti contro l’avviso di accertamento emesso nei loro confronti, per l’anno 2006, con cui era stata accertata una plusvalenza, a seguito della cessione di un terreno edificabile di mq 5960, venduto il 4 maggio 2006 al prezzo di Euro 182.734,00, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. b, e art. 17, comma 1, lett. g, con conseguente maggiore imposta a carico di ciascuno dei contribuenti per Euro 60.020,00. In particolare, secondo il giudice di appello vi era in atti la delega del direttore provinciale Z.L., come da ordine di servizio n. (OMISSIS) del (OMISSIS), gà prodotto in primo grado; inoltre, l’avviso di accertamento era correttamente motivato, in quanto fondato sulla mancata dichiarazione della plusvalenza derivante dall’atto pubblico del 4 maggio 2006, ove, in qualità di cedenti, unitamente alla madre Bo.Ma., avevano ceduto il terreno per la quota parte pari a 1/3 alla società A.F. Costruzioni, con l’espressa indicazione delle norme di diritto violate; peraltro, l’Agenzia delle entrate non aveva fatto alcun riferimento all’art. 67, comma 1, lett. a), ma alla cessione a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatorie, secondo gli strumenti urbanistici in vigore al momento della cessione, con relativa plusvalenza patrimoniale, assoggettata poi ad imposta Irpef a tassazione separata del 24,91%. Per il giudice d’appello, ciò che rileva ai fini dell’applicazione della normativa in tema di plusvalenza è che la qualificazione edificatoria sia attribuita dal piano regolatore generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione dello stesso da parte della Regione, come pure dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi.

2. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione i contribuenti, depositando anche memoria scritta.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

4. Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione i contribuenti deducono la “violazione o falsa applicazione di legge: ossia la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 e 42, della (L. n. 241 del 1990), artt. 21 septies e 21 octies, dell’art. 2697 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto il giudice di appello ha erroneamente ritenuto che gli avvisi di accertamento erano legittimi perchè risultavano firmati da F.F. su regolare delega delle direttore provinciale Z.L., come da ordine di servizio n. (OMISSIS) del (OMISSIS). In realtà, secondo i ricorrenti, da un lato non è possibile la successiva ratifica ad opera dell’ufficio, e dall’altro il documento intitolato “disposizione di servizio n. 51” non può costituire valida delega ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, in assenza di una specifica delega nominativa, riferita ad un atto individuato.

1. Tale motivo è infondato.

1.1. Invero, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, stabilisce che “gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”.

1.3. Con una recente pronuncia questa Corte (Cass., sez. 5, 30 ottobre 2019, n. 27827; Cass., 29 marzo 2019, n. 8814; Cass., 19 aprile 2019, n. 11013), pur modificando il proprio orientamento (Cass., 22803/2015) in tema di delega di firma (non delega di funzioni), ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, ritenendo irrilevante la mancata indicazione del nominativo del soggetto delegato, nè della durata della delega (essendo sufficiente l’indicazione della qualifica rivestita), ha Però ribadito che, in caso di contestazione specifica da parte del contribuente in ordine ai requisiti di legittimazione del sottoscritto dell’avviso, incombe sulla amministrazione fornire la prova della sussistenza di tali requisiti in capo al sottoscrittore (cfr. paragrafo 9 della motivazione). L’Amministrazione finanziaria, in caso di contestazione, è tenuta, quindi, con onere della prova a F’ lo carico (anche per il principio di vicinanza alla prova ex Cass., 2 dicembre 2015, n. 24492), a dimostrare la sussistenza della delega, potendo produrla anche nel secondo grado di giudizio, in quanto la presenza o meno della sottoscrizione dell’avviso di accertamento non attiene alla legittimazione processuale (Cass., n. 14626 del 2000; Cass., n. 14195 del 2000; Cass., n. 17044 del 2013; Cass., n. 12781 del 2016; Cass., n. 14942 del 2013; cass. n. 18758 del 2014; Cass., n. 19742 del 2012; Cass., n. 332 del 2016; Cass., n. 12781 del 2016; Cass., n. 14877 del 2016; Cass., n. 15781 del 2017; Cass., 5200/2018). Si è anche affermato che in ipotesi specifiche, per la cartella esattoriale, il diniego di condono, l’avviso di mora e l’attribuzione di rendita, in mancanza di una sanzione espressa, opera la generale presunzione di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato (Cass., 31 ottobre 2018, n. 27871).

1.4. Quanto alla applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 4 comma 2, in base al quale solo ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, deve rilevarsi che per questa Corte, la delega alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento non è una delega di funzioni, da attribuire solo ad un dirigente, ma solo una delega di firma (Cass., n. 8814 del 2019). In caso di delega di “firma” l’atto firmato dal delegato, pur essendo certamente frutto dell’attività decisionale di quest’ultimo, resta formalmente imputato all’organo delegante, senza nessuna alterazione dell’ordine delle competenze (Cass., n. 6113 del 2005).11 delegato alla firma agisce semplicemente come longa manus del delegante e, quindi, in qualità di mero sostituto materiale del soggetto persona fisica titolare dell’organo cui è attribuita la competenza. L’atto di delegazione della competenza, invece, ha al contrario rilevanza esterna, essendo suscettibile di alterare il regime della imputazione dell’atto.

1.5. Nella specie, si rileva che l’Agenzia delle entrate ha prodotto in giudizio l’atto di delega a firma del Direttore provinciale Z.L. (ordine di servizio n. (OMISSIS) del (OMISSIS)).

Trattandosi, poi, di delega di firma e non di funzioni, non era necessario che F.F. ricoprisse il ruolo di dirigente, essendo, comunque, l’atto delegato, quindi l’avviso di accertamento, riconducibile al delegante (Cass., sez. 5, 30 ottobre 2019, n. 27827).

Infatti, per questa Corte, in tema d’imposte sui redditi e sul valore aggiunto, l’avviso di accertamento, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56 (che, nel rinviare alla disciplina sulle imposte dei redditi, richiama implicitamente il cit. art. 42), deve essere sottoscritto, a pena di nullità, dal capo dell’Ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato e, cioè, secondo la classificazione prevista dal c.c.n.l., art. 17, comparto “agenzie fiscali” per il quadriennio 2002-2005 (applicabile “ratione temporis”), da un funzionario di terza area, di cui non è richiesta la qualifica di dirigente (Cass., sez. 5, 26 febbraio 2020, n. 5177; Cass., sez. 6-5, 10 dicembre 2019, n. 32172).

Trattandosi di mera “delega di firma” e non “di funzioni”, ne deriva che il relativo provvedimento non richiede l’indicazione nè del nominativo del soggetto delegato, nè della durata della delega, che pertanto può avvenire mediante ordini di servizio che individui l’impiegato legittimato alla firma mediante l’indicazione della qualifica rivestita, idonea a consentire, “ex post”, la verifica del potere in capo al soggetto che ha materialmente sottoscritto l’atto (Cass., sez. 5, 29 marzo 2019, n. 8814; Cass., sez. 5, 30 settembre 2019, n. 24271). 2. Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti lamentano la “nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione del principio che impone al giudice di pronunciare solo sulle domande ed eccezioni sollevate dalle parti, ex art. 112 c.p.c.”, in quanto il giudice di appello laddove ha affermato che in ogni caso l’Agenzia delle entrate ha ratificato il proprio atto, sarebbe censurabile sotto il profilo del vizio di ultrapetizione sancito dall’art. 112 c.p.c..

2.1. Tale motivo è inammissibile.

Invero, vi è il vizio di ultrapetizione solo nel caso in cui il giudice abbia accolto un motivo di impugnazione, mai formulato dal ricorrente.

Infatti, il potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del “petitum” e della “causa petendi”, sostanziandosi nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicchè il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (“petitum” o “causa petendi”), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (“petitum” immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (“petitum” mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Cass., sez. 2, 21 marzo 2019, n. 8048).

Il vizio di “ultra” ed “extra” petizione ricorre solo quando il giudice, interferendo indebitamente nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi di identificazione dell’azione o dell’eccezione, pervenendo ad una pronunzia non richiesta o eccedente i limiti della richiesta o eccezione, dovendosi escludere la violazione dell’art. 112 c.p.c., tutte le volte in cui la pronunzia vi corrisponda nel suo risultato finale, sebbene fondata su “argomentazioni giuridiche diverse” da quelle prospettate (Cass., sez. 2, 12 luglio 2005, n. 14552).

Nella specie, invece, il giudice di appello ha rigettato il motivo di impugnazione proposto dai ricorrenti, relativo all’asserito difetto di sottoscrizione dell’avviso di accertamento da parte di soggetto a ciò legittimato, facendo riferimento espresso alla esistenza di una delega di firma, come da ordine di servizio n. 50 del 4 ottobre 2011.

Il riferimento alla ratifica dell’operato del funzionario da parte dei dirigente dell’ufficio, desumibile per facta condudentia anche dalla costituzione in giudizio dell’ufficio, costituisce solo una mera argomentazione, del tutto marginale, in aggiunta alla vera e propria ratio decidendi costituita, appunto, dalla esistenza della regolare delega di firma da parte del direttore provinciale.

3. Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti si dolgono della “violazione o falsa applicazione di legge: ossia la violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. b, ex art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto il giudice di appello si è limitato ad affermare che l’edificabilità dell’area trasferita va desunta dalla qualificazione ad essa attribuita nel piano regolatore generale, adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione dello stesso da parte della Regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi, senza tenere conto che l’art. 67 Tuir, esclude, senza alcuna eccezione, la tassabilità delle plusvalenze realizzate tramite cessioni a titolo oneroso di immobili (fabbricati e non) pervenuti al cedente a seguito di successione. Nella specie, il terreno è stato acquisito proprio per successione, sicchè non poteva dare luogo ad alcuna plusvalenza.

3.1. Tale motivo è infondato.

3.2. Invero, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67 comma 1 lett. b, prevede che “sono redditi diversi…le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso c.p. beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni, esclusi quelli acquisiti per successione…”. Inoltre, si chiarisce che “sono redditi diversi…nonchè, in ogni caso, le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione”.

3.3. Il D.L. 4 luglio 2006, art. 36, comma 2, convertito in L. 4 agosto 2006, n. 248, poi, prevede, come norma di interpretazione autentica, che “…un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall’approvazione della regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo”. Per questa Corte la norma citata ha accolto la tesi sostanzialistica propugnata dall’amministrazione finanziaria, in quanto l’adozione dello strumento urbanistico, anche prima della approvazione definitiva della Regione, con inserimento di un terreno con destinazione edificatoria, imprime al terreno una qualità che è recepita dalla generalità dei consociati come qualcosa di “già esistente e di difficile reversibilità e, quindi, è sufficiente a far venire meno la presunzione del rapporto proporzionale tra reddito dominicale risultante in catasto e valore del terreno, posto a base della valutazione automatica”.

Sono, infatti, diverse le finalità della legislazione urbanistica rispetto alla legislazione fiscale. La prima, infatti, tende a garantire il corretto uso del territorio urbano e, quindi, lo ius aedificandi non può essere esercitato se non quando gli strumenti urbanistici siano perfezionati (garantendo la compatibilità degli interessi individuali con quelli collettivi); mentre la seconda mira ad adeguare il prelievo fiscale alle variazioni dei valori economici dei suoli, con distinzione tra ius aedificandi e ius valutandi.

Lo ius valutandi poggia, non sul perfezionamento della procedura di adozione della variante al PRG, ma sull’avvio di tale procedura. La legislazione fiscale, dunque, valuta la mera aspettativa dello ius aedificandi fino al perfezionamento dello stesso.

Tale interpretazione ha ricevuto recenti conferme giurisprudenziali (Cass., sez. 3 novembre 2019, n. 29387; Cass., 21 maggio 2014, n. 11182; 20 febbraio 2014, n. 4116; Cass., 10 agosto 2016, n. 16936).

Il citato art. 36, comma 2, poi, dispone che l’interpretazione imposta vale anche oer l’applicazione delle disposizioni relative all’iva, al Tuir, all’Ici ed all’imposta di registro.

3.4.Tuttavia, nel caso di cessione di terreni edificabili non conta che gli stessi siano giunti al venditore da successione mortis causa, che invece impedisce la tassazione per la cessione di terreni non edificabili. Infatti, per l’art. 67 tuir “in ogni caso” sono redditi diversi, soggetti a tassazione, le plusvalenze realizzate a seguito di cessione a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria (Cass., sez. 5, 13 novembre 2019, n. 29387).

Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. b, seconda parte, stabilisce che sono ricomprese tra i redditi diversi anche le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione. Non assumono a tal fine rilievo le modalità di acquisto, il tempo intercorso tra quest’ultimo e la successiva cessione e l’utilizzo avvenuto nel periodo intermedio.

Nelle cessioni di terreni edificabili, dunque, si presume un incremento di valore dell’immobile per il solo motivo che lo stesso è divenuto edificabile, ed ai fini di tale ipotesi, a differenza della precedente, è irrilevante che la cessione sia infraquinquennale o che il terreno sia pervenuto per successione. La ricchezza prodotta non deriva qui da un intento speculativo, ma da una caratteristica intrinseca del bene.

4. Con il quarto motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la “violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3: ossia la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, in relazione alla L. n. 241 del 1990, art. 3 “, in quanto i contribuenti nel ricorso di primo grado hanno affermato che l’avviso di accertamento era privo di motivazione, mentre il giudice di appello ha ritenuto che l’atto impositivo si fonda sulla mancata dichiarazione della plusvalenza derivante dall’atto pubblico del 4 maggio 2006, in qualità di cedenti il terreno alla società A.F. Costruzioni s.r.l., con l’espressa indicazione delle norme di diritto violate. Secondo i ricorrenti, però, l’Agenzia delle entrate non ha dato atto di quali siano state le modalità di calcolo della asserita plusvalenza, non ha provveduto alla rivalutazione dell’immobile, che doveva avvenire di anno in anno e non di certo per semplice differenza degli importi (dell’anno di acquisto rispetto all’anno di vendita) e soprattutto non ha manifestato, nella motivazione, perchè gli altri comproprietari non hanno ricevuto alcun avviso di accertamento da presunta plusvalenza. Inoltre, l’Agenzia ha indicato le fonti di prova poste a base dell’avviso, ossia la segnalazione dell’anagrafe tributaria relativa alle liste selettive “Criterio V” e la documentazione prodotta in seguito ad invito n. 01951/2011, ma non ha allegato all’atto impugnato tali fonti di prova.

4.1. Tale motivo è infondato.

4.2. Invero, per questa Corte il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, comma 2, richiede l’indicazione nell’avviso di accertamento non soltanto degli estremi del titolo e della pretesa impositiva, ma anche dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, al fine di porre il contribuente in condizione di valutare l’opportunità di esperire l’impugnazione giudiziale e, in caso positivo, di contestare efficacemente l'”an” ed il “quantum debeatur”. Tali elementi conoscitivi devono essere forniti non solo tempestivamente (“ab origine” nel provvedimento) ma anche con quel grado di determinatezza ed intelligibilità che permetta all’interessato un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa (Cass., sez. 5, 24 luglio 2014, n. 16836).

Infatti, la motivazione dell’avviso di accertamento assolve ad una pluralità di funzioni atteso che garantisce il diritto di difesa del contribuente, delimitando l’ambito delle ragioni deducibili dall’ufficio nella successiva fase processuale contenziosa, consente una corretta dialettica processuale, presupponendo l’onere di enunciare i motivi di ricorso, a pena di inammissibilità, e la presenze di leggibili argomentazioni dell’atto amministrativo, contrapposte a quelle fondanti l’impugnazione, e, infine, assicura, in ossequio al principio costituzionale di buona amministrazione, un’azione amministrativa efficiente e congrua alle finalità della legge, permettendo di comprendere la “ratio” della decisione adottata (Cass., sez. 5, 17 ottobre 2014, n. 22003). Si è chiarito che la motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica, presidiata dalla L. 27 luglio 2002, n. 212, art. 7, ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l'”an” ed il “quantum” della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa, sicchè il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze, mentre le questioni attinenti all’idoneità del criterio applicato in concreto attengono al diverso piano della prova della pretesa tributaria (Cass., sez. 5, 7 maggio 2014, n. 9810).

4.3. Nella specie, dal tenore dell’avviso di accertamento, riportato nei suoi tratti essenziali, emerge che l’Agenzia delle entrate ha indicato con precisione gli elementi da cui ha dedotto l’esistenza di una plusvalenza non dichiarata dalle parti del contratto di vendita.

Come correttamente rilevato dal giudice di appello, infatti, l’avviso di accertamento si fonda proprio sulla mancata dichiarazione della plusvalenza derivante dall’atto pubblico del 4 maggio 2006, rep. 26734, racc. n. 9761, quali cedenti, unitamente alla madre Bo.Ma., del terreno sito nel Comune di Campagnano per la quota pari a 1/3 alla società A.F. Costruzioni s.r.l., con l’espressa indicazione delle norme di diritto violate dei contribuenti.

L’avviso, dunque, contiene tutti gli elementi idonei a consentire ai contribuenti la piena comprensione degli elementi di fatto posti a base della ripresa fiscale. Nè rileva, ai fini della comprensione della contestazione tributaria, che l’Agenzia delle entrate non abbia emesso analogo avviso di accertamento anche nei confronti di altra parte cedente il terreno edificabile.

Peraltro, neppure l’omessa segnalazione da parte dell’Anagrafe tributaria relativa alle liste selettive ha inciso sulla possibilità per i contribuenti di essere pienamente edotti dei presupposti dell’imposta, in quanto la ripresa fiscale attiene esclusivamente alla mancata dichiarazione della plusvalenza derivante da un atto di vendita di terreno edificabile posto in essere proprio dai contribuenti.

Quanto alla documentazione prodotta in seguito all’invito, è evidente che la stessa è stata prodotta proprio dei contribuenti che, dunque, ne erano perfettamente a conoscenza.

il valore della plusvalenza, poi, neppure contestato specificamente dai contribuenti, si desume proprio dalla differenza tra il valore di acquisto del cespite ed il valore dello stesso al momento della vendita.

5. Con il quinto motivo di impugnazione i ricorrenti lamentano “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., n. 5, ossia la circostanza relativa alla mancata specificazione, da parte della Agenzia delle entrate, dei criteri seguiti per la determinazione dei valori che hanno prodotto la plusvalenza”, in quanto l’Agenzia delle entrate non ha dato atto di quali siano state le modalità di calcolo della presunta plusvalenza (procedendo solo ad un elementare calcolo di valori), non ha provveduto alla rivalutazione dell’immobile, da effettuare di anno in anno, e non di certo per semplice differenza degli importi (dell’anno di acquisto rispetto all’anno di vendita) e soprattutto non ha manifestato, nella motivazione, perchè gli altri comproprietari non hanno ricevuto alcun avviso di accertamento da presunta plusvalenza a differenza della parte ricorrente. Vi sarebbe, dunque, una totale assenza, negli atti impugnati, dei criteri di calcolo seguiti per l’accertamento delle pretese plusvalenze, anche in considerazione della circostanza di fatto che il terreno oggetto di compravendita in parte era a destinazione verde pubblico e solo in parte edificabile. Tale circostanza, che ha formato oggetto di specifica contestazione e discussione tra le parti, essendo stata sollevata sia in primo grado che in sede di appello, non è stata esaminata dal giudice di appello.

5.1. Tale motivo è infondato.

5.2. Invero, quanto alla determinazione del valore della plusvalenza si rileva che correttamente l’Agenzia delle entrate l’ha individuato come differenza tra il valore del terreno al momento dell’acquisto ed il valore dello stesso al momento della vendita successiva.

5.3.Per quanto riguarda, invece, la circostanza che il terreno oggetto di compravendita in parte era a destinazione verde pubblico e solo in parte era edificabile, si rileva che tale circostanza non è decisiva.

5.4. Invero, costituisce principio consolidato di questa Corte quello per cui l’edificabilità di un terreno sussiste anche se la possibilità edificatoria è soltanto illimitata, ma non annullata del tutto. Ciò si ricava anche dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. b, ove si fa riferimento “utilizzazione edificatoria”, ma non alla “utilizzazione edificatoria residenziale”, sicchè anche la possibilità di edificare solo in parte comporta l’applicazione della disciplina della tassazione delle plusvalenze in caso di cessione di terreni anche solo parzialmente edificabili Pertanto, si è affermato che, in tema di Irpef, la ricorrenza di vincolo ambientale ai sensi del D.Lgs. n. 490 del 1999, non esclude, in senso assoluto, l’edificabilità di un terreno, consentendo, sia pure entro determinati limiti, di realizzare nuove costruzioni, con conseguente imponibilità, nell’ipotesi della sua cessione, della plusvalenza D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 67, comma 1, lett. b), atteso che tale disposizione assoggetta a tassazione la plusvalenza derivante dalla cessione di terreno su cui lo strumento urbanistico vigente permetta, a qualunque titolo e per qualunque scopo, di edificare, non rilevando cosa ed a qual fine si costruisca (Cass., 23 novembre 2016, n. 23845; Cass., 23316/2013 che consente la tassabilità della plusvalenza per i terreni edificabili e con destinazione agricola; Cass., 15 luglio 2016, n. 14503, che ha ritenuto edificabile un’area inclusa in zona destinata dal piano regolatore generale a servizi pubblici o di interesse pubblico, quali parcheggi, strade e verde pubblico attrezzato; Cass., 16 ottobre 2015, n. 20950, in cui si è ritenuta edificabile un’area inserita in zona (OMISSIS) destinata a attrezzature ed impianti di interesse generale, assoggettabile solo ad opere di manutenzione ordinaria e straordinaria; Cass., 15 aprile 2016, n. 7513, con edificabilità dell’area classificata come agricola o di rispetto, ma con la concreta possibilità di chiedere la variazione in modo da poter destinare parte di essa alla costruzione di immobili necessari a tale attività; Cass., 29183/2017, per la quale rientra nella piena discrezionalità del legislatore non tassare la plusvalenza solo quando la stessa ha ad oggetto terreni agricoli e non suscettibili in alcun modo di utilizzazione edificatoria; Cass., 30 ottobre 2018, n. 27604, ove si è ritenuta imponibile la plusvalenza, in quanto il terreno, pur se inserito nello strumento urbanistico in una zona vincolata a fini pubblicistici, al momento della cessione faceva parte di un progetto che in base al nuovo regolamento urbanistico, consentiva la realizzazione di un complesso sportivo).

5.5. Nella specie, sono gli stessi ricorrenti ad ammettere che il terreno era in parte a destinazione verde pubblico, ma in parte era edificabile.

6. Con il sesto motivo di impugnazione i ricorrenti si dolgono della “violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 35, ex art. 360 c.p.c., n. 3, e segnatamente la violazione della L. n. 212 dei 2000, art. 7, comma 2, lett. “, in quanto il giudice di primo grado non si è pronunciato sulla mancata indicazione del responsabile del procedimento, mentre dall’avviso di accertamento impugnato si legge soltanto che “il funzionario responsabile del procedimento al quale rivolgersi per informazioni è S.S.”. Per i ricorrenti la sottoscrizione del responsabile del procedimento e l’unico elemento che attribuisce paternità all’atto.

6.1. Il motivo è infondato.

6.2.Invero, per questa Corte l’indicazione del responsabile del procedimento negli atti dell’Amministrazione finanziaria non è richiesta, dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7 (c.d. Statuto del contribuente), a pena di nullità, in quanto tale sanzione è stata introdotta per le sole cartelle di pagamento dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 4-ter, convertito, con modificazioni, nella L. 28 febbraio 2008, n. 31, applicabile soltanto alle cartelle riferite ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1 giugno 2008 (Cass., sez. un., 14 maggio 2010, n. 11722; Cass., sez. 5, 12 maggio 2017, n. 11856; Cass., sez. 5, 19 gennaio 2018, n. 1297; Cass., sez. 5, 31 ottobre 2018, n. 27856).

Infatti, è vero che l’art. 7 dello Statuto del contribuente prevede fino al 2000 l’indicazione del responsabile del procedimento, ma non ne commina la nullità in caso di mancata attuazione. La sanzione della nullità per tale omissione stata prevista solo da 2008 e non ha applicazione retroattiva (Cass., sez. 5, 19 gennaio 2018, n. 1297 cit.).

La stessa sentenza n. 58 del 2009 della Corte costituzionale non autorizza la conclusione per la nullità delle cartelle inviate prima del 2008, laddove statuisce in maniera chiara che, prima dell’emanazione del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, convertito dalla L. n. 31 del 2008, in caso di mancata indicazione del responsabile del procedimento deve escludersi come conseguenza la nullità della cartella di pagamento.

Si è anche sostenuto, con riferimento agli avvisi di accertamento, che sono irrilevanti le violazioni formali che non abbiano recato un’effettiva lesione della sfera giuridica del contribuente, come nel caso di mancata indicazione nell’avviso del responsabile del procedimento (Cass., sez. 5, 9 maggio 2018, n. 11052).

Si è anche chiarito che, in tema di cartelle di pagamento, l’indicazione del responsabile del procedimento prevista a pena di nullità per quelle riferite ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1 giugno 2008 dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, conv., con modif., in L. n. 31 del 2008, deve intendersi riferita alla persona responsabile del procedimento a prescindere dalla funzione apicale o meno dalla stessa effettivamente esercitata, essendo tale indicazione sufficiente ad assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino nonchè la garanzia del diritto di difesa (Cass., sez. 5, 14 novembre 2019, n. 29652; Cass., sez. 6-5, 13 maggio 2019, n. 12687).

Tra l’altro, nella specie, gli stessi ricorrenti hanno ammesso che nell’avviso di accertamento era indicato il responsabile del procedimento (“il funzionario responsabile del procedimento al quale rivolgersi per informazioni è S.S.”). Secondo i ricorrenti, tuttavia, mancherebbe la sottoscrizione dell’avviso di accertamento da parte del responsabile del procedimento, ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 5.

Si osserva, però, che la L. n. 212 del 2000, art. 7, prevede esclusivamente l’indicazione del responsabile del procedimento, ma non la sottoscrizione da parte di questi dell’avviso di accertamento.

7. Con il settimo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono la “omessa pronuncia su un punto decisivo per la controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 4, ossia: la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 2, lett. a,”, in quanto il giudice di appello ha omesso di pronunciarsi su un fatto decisivo della controversia, costituito dalla censura in ordine alla mancata indicazione nell’avviso di accertamento del responsabile del procedimento

7.1. Il motivo è infondato.

7.2. Invero, il giudice di appello, dopo aver premesso nella parte espositiva i motivi di appello, tra i quali vi era proprio la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 2, lett. a, per omessa sottoscrizione del responsabile del procedimento, ha rigettato “gli appelli riuniti”, sicchè vi è stata una Pronuncia implicita di rigetto di tutti i motivi di impugnazione sollevati dai contribuenti.

8. Le spese del giudizio di legittimità, per il principio della soccombenza vanno poste a carico dei contribuenti e si liquidano come da dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 4.100,00, Oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 28 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2021

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