Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11603 del 13/05/2010

Cassazione civile sez. III, 13/05/2010, (ud. 16/04/2010, dep. 13/05/2010), n.11603

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Presidente –

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere –

Dott. MASSERA Maurizio – rel. Consigliere –

Dott. URBAN Giancarlo – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

PECHI S.N.C. (OMISSIS) in persona del legale rappresentante pro

tempore L.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A.

CATALANI 4, presso lo studio dell’avvocato SANTAMARIA ALBERTO,

rappresentata e difesa dall’avvocato CAIMI ANTONIO giusta delega a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.F. (OMISSIS);

– intimato –

e sul ricorso n. 22832/2006 proposto da:

P.F., considerato domiciliato “ex lege” in ROMA, presso

la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dagli avvocati DE FRANCESCO SALVATORE, RADICE ANDREA giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

PECHI S.N.C.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 169/2005 della CORTE D’APPELLO di TRENTO,

SEZIONE PRIMA CIVILE, emessa il 3/5/2005, depositata il 11/05/2005,

R.G.N. 412/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/04/2010 dal Consigliere Dott. MASSERA Maurizio;

udito il P. M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MARINELLI Vincenzo per il rigetto dei ricorsi.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 2 luglio 2003 il Tribunale di Trento dichiarava risolto per grave inadempimento di P.F. il contratto preliminare da costui stipulato con la Pechi S.n.c. avente ad oggetto la locazione di un immobile destinato ad esercizio commerciale, condannava il P. a restituire Euro 4.105,83 e al risarcimento del danno determinato in Euro 16.580,51, rigettava le domande riconvenzionali del P., che, eccepita la legittimazione attiva della controparte, aveva chiesto la risoluzione del contratto per inadempienza della medesima o dello stipulante C.M. e il risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale.

Con sentenza in data 3 – 11 maggio 2005 la Corte d’Appello di Trento dichiarava risolto il contratto per l’inadempimento di entrambe le parti e condannava il P. a restituire alla Pechi la somma di Euro 4.105,83.

La Corte territoriale osservava per quanto interessa: il preliminare del contratto di locazione era stato stipulato dal P. con C.M.; come ritenuto dal Tribunale, nel contratto era subentrata la Pechi con il tacito consenso del P.; entrambe le parti erano risultate inadempienti poichè la Pechi non aveva corrisposto il canone mensile dovuto indipendentemente dalla consegna dei locali adattati alle sue finalità commerciali, mentre il P. non aveva completato i lavori pattuiti; le risultanze processuali non consentivano di stabilire l’incidenza dei reciproci inadempimenti; la risoluzione del contratto per inadempienza reciproca comportava l’obbligo per il P. di restituire la cauzione.

Avverso la suddetta sentenza la società Pechi ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi.

Il P. ha proposto ricorso incidentale articolato in sette motivi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente i due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza, vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia fa nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 sostanzialmente lamentando omessa pronuncia in ordine alla illegittima e improvvisa richiesta della controparte di subordinare la prosecuzione del rapporto contrattuale all’inserimento di una clausola concernente l’orario di chiusura del locale anticipato alle ore 21,00. Spiega che è stata questa richiesta avversaria una delle ragioni che l’hanno determinata ad agire in giudizio ma che di essa, pienamente accolta dal Tribunale, non vi era traccia nella sentenza d’appello la quale, nell’esaminare il secondo motivo di gravame (del P.), aveva valutato gli adempimenti reciproci senza considerare gli ulteriori elementi emersi nel corso del giudizio. Aggiungeva che il Tribunale aveva ritenuto la clausola dell’orario di chiusura motivo assorbente della risoluzione del contratto.

La censura in esame non rispetta il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, in quanto non riproduce le pertinenti parti degli atti della ricorrente da cui poter desumere la formulazione della questione e i termini con cui essa era stata proposta.

Inoltre essa viene ricollegata ad un motivo di appello della controparte e, infine, la rilevanza della questione implica apprezzamenti di fatto non consentiti in sede di legittimità.

Con il secondo motivo la Pechi lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione. Assume che la Corte territoriale ha svolto un esame dei fatti incomprensibile tanto da pervenire a conclusioni erronee non valutando nè le risultanze istruttorie, nè la volontà delle parti.

Le argomentazioni a sostegno si risolvono in ampie citazioni delle risultanze processuali e, piuttosto che dimostrare errori motivazionali della sentenza impugnata, prospettano una diversa interpretazione dei fatti.

Ma (Cass. Sez. 3^ n. 9368 del 2006) la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Pertanto anche questa cesura si rivela infondata.

Con il terzo motivo la ricorrente principale adduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto che, in palese violazione del dettato dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non specifica. Il tema trattato è la buona fede contrattuale, ma le generiche argomentazioni addotte prescindono dalla motivazione della sentenza impugnata e implicano apprezzamenti di merito.

Conseguentemente il ricorso principale va rigettato.

Il P., con il primo motivo di ricorso incidentale, denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1406 c.c. Lamenta che, per fondare la legittimazione attiva della Pechi, entrambi i giudici di merito abbiano richiamato l’istituto della cessione del contratto e assume che le condizioni trattate con il L. (per la Pechi) erano assolutamente diverse da quelle concordate con il C. nel preliminare.

La censura ripropone la tesi già prospettata avanti alla Corte territoriale prescindendo totalmente dalla motivazione con cui questa l’ha rigettata e si rivela incongrua. Inoltre la verifica delle asserite diversità implica necessariamente esame degli atti e apprezzamenti di fatto.

Con il secondo motivo il P. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1325, 1406 e 1408 c.c. e comunque difetto di motivazione. Lamenta che controparte non ha provato l’esistenza del consenso del cessionario C., ma anche questa censura risulta incongrua e non adduce argomentazioni specifiche per contrastare il diverso apprezzamento della Corte territoriale e i suoi riferimenti alle risultanze processuali.

Con il terzo motivo il P. lamenta vizi di motivazione su aspetti decisivi della controversia. Anche questa censura viene basata sull’asserito apprezzamento da parte della Corte d’Appello delle risultanze processuali, quindi su una diversa lettura delle medesime. Si tratta – all’evidenza – di questioni di merito il cui esame non è consentito in questa sede.

Con il quarto motivo il ricorrente incidentale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. e difetto di motivazione. Oggetto della censura è l’interpretazione del contratto. Assume che esso prevedeva l’inizio della locazione al 15 ottobre 1997 indipendentemente dallo stato di avanzamento dei lavori e ne inferisce che il promissorio conduttore avrebbe dovuto iniziare il pagamento da quella data prescindendo dallo stato di avanzamento dei lavori, per i quali non era previsto alcun termine.

Con il quinto motivo il P. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1183 e 1219 c.c. e difetto di motivazione. Il tema è l’assenza di qualsiasi atto di messa in mora da parte della Pechi.

Le due censure hanno oggetto comune e si prestano a trattazione congiunta. Esse risultano disarticolate dal thema decidendum. La Corte d’Appello ha esplicitamente affermato che la Pechi era obbligata a pagare il canone indipendentemente dalla consegna dei locali. Però ha ritenuto che il riconosciuto ritardo nel completamento dei lavori configurasse inadempimento.

Giova ribadire che le parti di un contratto sono tenute ad eseguire le rispettive prestazioni secondo diligenza e buona fede e che un contratto trova la sua causa nelle prestazioni reciprocamente previste, per cui una parte non può essere obbligata ad eseguire la propria quando l’altra è inadempiente.

Nel verificare le reciproche domande di inadempimento il giudice deve tenere conto dei comportamenti di entrambi i contraenti, la valutazione dei quali è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito. La Corte territoriale ha dato razionale spiegazione del proprio convincimento al riguardo.

Con il sesto motivo il P. ipotizza violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1455, 1460 c.c. e dell’art. 1587 c.c., n. 2. Assume che il giudice d’appello ha errato nell’escludere la rilevanza del mancato pagamento dei canoni e, per converso, nell’attribuire la qualifica di inadempiente ad esso P..

Dalla sintesi effettuata dallo stesso ricorrente incidentale si evince inoppugnabilmente che la censura, formalmente prospettata con riferimento a norme di diritto, in realtà riguarda gli accertamenti e le valutazioni di merito contenute nella sentenza impugnata, cioè prospetta un tema non consentito nel giudizio di legittimità. Lo conferma, ad esempio, il riferimento all’elemento cronologico, chiaramente afferente al “fatto” e non certo al “diritto” che ha indotto la Corte territoriale ad assumere la decisione contestata.

Analoga considerazione impone il riferimento alle ragioni che hanno ostacolato la conclusione dei lavori. In tale quadro, il ricorrente incidentale attribuisce alla Corte territoriale l’errore di non avere considerato il ritardo con cui gli furono forniti i necessari calcoli statici, mentre la circostanza risulta riferita e valutata a pag. 13 della sentenza impugnata.

Con il settimo motivo il P. denuncia violazione e falsa applicazione (anche in questo caso non specificate come se si trattasse di sinonimi) degli artt. 1175, 1218 e 1453 c.c., nonchè vizi di motivazione. Per questa censura – valgono le stesse considerazioni esposte riguardo alla precedente.

Il ricorrente incidentale lamenta che il giudice di merito non ha considerato le risultanze istruttorie da cui emergerebbe l’inadempimento della controparte. La censura si sviluppa con argomentazioni che contengono ampi riferimenti alle risultanze processuali, ma che non danno ragione nè della violazione, nè della falsa applicazione delle norme di diritto poste a fondamento della medesima.

Pertanto il ricorso incidentale risulta inammissibile. L’esito del giudizio comporta la compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale, inammissibile l’incidentale. Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 16 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2010

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