Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11593 del 26/05/2011

Cassazione civile sez. III, 26/05/2011, (ud. 08/03/2011, dep. 26/05/2011), n.11593

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. LEVI Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6751/2009 proposto da:

M.D. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DELLA GIULIANA 80, presso lo studio dell’avvocato STADERINI

CLAUDIO, rappresentato e difeso dall’avvocato DE PAOLA Amalia giusta

delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

PRESIDENZA CONSIGLIO MINISTRI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso gli Uffici dell’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, da cui è difeso per legge;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, Sezione Prima

Civile, emessa il 29/01/2009, depositata il 02/02/2009; R.G.N.

1115/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

08/03/2011 dal Consigliere Dott. GIOVANNI CARLEO;

udito l’Avvocato DE PAOLA (per delega STADERINI CLAUDIO);

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SCARDACCIONE Eduardo Vittorio, che ha concluso per l’accoglimento 4^,

assorbiti gli altri motivi del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso L. n. 117 del 1988, ex art. 5, comma 4, M. D., premesso di essere funzionario del Ministero dell’Interno dal 1972, di essere stato nel 1987 nominato Commissario prefettizio presso l’Unità sanitaria locale n. (OMISSIS) di Locri, di essere stato rinviato a giudizio presso il Tribunale di Locri per il reato di cui all’art. 323 c.p., commi 1 e 2, di essere stato quindi prosciolto per insussistenza del fatto; ciò premesso, proponeva domanda di risarcimento danni nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Con decreto depositato l’11.1.2007 il Tribunale di Catanzaro dichiarava l’inammissibilità del ricorso. Avverso tale decreto proponeva reclamo il M.. La Corte di Appello di Catanzaro con decreto depositato in data 2 febbraio 2009 rigettava il reclamo e compensava tra le parti le spese. Avverso il detto provvedimento il M. ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi. Resiste con controricorso la Presidenza del Consiglio.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Giova evidenziare in via preliminare che il ricorso de quo, dopo la notificazione, come risulta dalla prescritta attestazione, risulta depositato presso la cancelleria della Corte di Appello di Catanzaro in data 5 febbraio 2009. Il rilievo torna utile alla luce del consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui “in tema di azione per la responsabilità civile del magistrato, il ricorso per cassazione proposto, ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 5, avverso il provvedimento con cui la corte d’appello dichiara inammissibile la domanda, dopo la notificazione deve essere depositato nei termini stabiliti dalla norma stessa nella cancelleria della stessa corte d’appello, la quale, una volta avvenuta la costituzione delle parti e comunque dopo la scadenza del termine per il deposito, dispone la trasmissione degli atti senza indugio alla Corte di Cassazione. Ancorchè la suddetta norma non indichi espressamente la sanzione per l’omissione o la tardività del deposito, essa si individua nella improcedibilità del ricorso, sulla base della regola generale di cui all’art. 369 cod. proc. civ. e tale sanzione è applicabile anche allorquando il ricorso, dopo la notificazione, sia stato depositato direttamente presso la cancelleria della Corte di cassazione. (Cass. n. 1104/06, n. 6255/94, n. 460/97, n. 11294/05 in tema di ricorso per cassazione;

sostanzialmente conforme Cass. n. 8260/99, in tema di omesso deposito del controricorso).

Passando all’esame del ricorso, va rilevato che, con la prima doglianza, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciare e/o di motivare in ordine ad un motivo di reclamo relativamente al rigetto, da parte del Tribunale, della richiesta di risarcimento danni morali L. n. 117 del 1988, ex art. 2, comma 1, artt. 2 e 111 Cost. ed art. 2059 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Con la seconda doglianza, articolata sotto il duplice profilo della violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 1 e art. 3, lett. a), art. 110 disp. att. c.p.p., art. 124 c.p.p. e art. 417 c.p.p., lett. a), in relazione all’art. 369 c.p.p.) ed insufficiente e/o motivazione contraddittoria in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il ricorrente lamenta che la Corte di merito avrebbe violato o falsamente applicato le norme citate, non ritenendo tutelata dall’ordinamento l’aspettativa dell’indagato a conoscere tempestivamente la pendenza di un procedimento penale e non ritenendo, all’epoca dei fatti di causa, disciplinato il diritto dell’indagato a conoscere gli atti del procedimento in esito alla chiusura delle indagini preliminari nè la necessità della presenza del M. al fine di procedere ad atti di indagine.

Con la terza doglianza, articolata sotto il duplice profilo della violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 1 e art. 3, lett. b), artt. 50, 408 e 411 c.p.p., art. 323 c.p., commi 1 e 2) ed omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il ricorrente lamenta che la Corte di merito avrebbe violato o falsamente applicato le norme citate, ritenendo l’attività del PM di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove.

Con la quarta doglianza, articolata sotto il duplice profilo della violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 1 e art. 3, lett. a), artt. 124, 418 e 419 c.p.p.) ed omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il ricorrente lamenta che la Corte di merito avrebbe violato o falsamente applicato le norme citate, relativamente alla considerazione in ordine alla rilevanza del carattere ordinatorio del termine ex art. 418 c.p.p., a fronte dell’enorme dilatazione dei tempi tra quelli previsti e quelli poi effettivamente trascorsi nella fissazione dell’udienza preliminare e comunque alla ricorrenza della fattispecie di diniego di giustizia.

Con l’ultima doglianza, infine, anch’essa articolata sotto il duplice profilo della violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 1, artt. 2697 e 2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., art. 129 disp. att. C.p.p.) ed insufficiente e/o contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il ricorrente lamenta che la Corte di merito avrebbe violato o falsamente applicato le norme citate, avendo considerato irrilevanti le allegazioni documentali al ricorso originario ed all’atto di reclamo nonchè gli indicati e documentati fatti ai fini presuntivi e l’ammissibilità e rilevanza dei mezzi istruttori, ed in particolare, la prova testimoniale.

In ordine a tutte le doglianze proposte, sopra riportate nella loro essenzialità, deve rilevarsi che il ricorrente non ha accompagnato i motivi di impugnazione con il prescritto momento di sintesi, ma solo con i quesiti di diritto, onde l’inammissibilità del profilo, attinente al vizio motivazionale, alla luce dell’orientamento di questa Corte secondo cui “in caso di proposizione di motivi di ricorso per cassazione formalmente unici, ma in effetti articolati in profili autonomi e differenziati di violazioni di legge diverse, sostanziandosi tale prospettazione nella proposizione cumulativa di più motivi, affinchè non risulti elusa la “ratio” dell’art. 366 bis cod. proc. civ., deve ritenersi che tali motivi cumulativi debbano concludersi con la formulazione di tanti quesiti per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati, con la conseguenza che, ove il quesito o i quesiti formulati rispecchino solo parzialmente le censure proposte, devono qualificarsi come ammissibili solo quelle che abbiano trovato idoneo riscontro nel quesito o nei quesiti prospettati, dovendo la decisione della Corte di cassazione essere limitata all’oggetto del quesito o dei quesiti idoneamente formulati, rispetto ai quali il motivo costituisce l’illustrazione (S.U. 5624/09, Cass. 5471/08).

Tutto ciò premesso, passando all’esame del profilo di violazione di legge per omessa pronuncia di cui al primo motivo di impugnazione, a parte ogni considerazione sull’erroneo riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, vertendosi in tema di violazione di una norma sul procedimento deducibile invece ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, deve osservarsi che la mancata espressa pronunzia sul motivo riguardante, in particolare, la richiesta di risarcimento di danni morali deve essere necessariamente letta in relazione con la ritenuta, da parte della Corte territoriale, manifesta infondatezza della domanda risarcitoria, sotto il profilo dell’an debeatur e con il conseguente rigetto del gravame.

Ed invero, il giudizio di infondatezza della domanda, conseguente alla ritenuta insussistenza del diritto risarcitorio azionato dal M., costituendo sia sul piano logico che giuridico un prius rispetto alla richiesta di risarcimento dei danni morali, afferente il quantum, ne rendeva superfluo l’esame e comportava l’implicito l’assorbimento del motivo di impugnazione, essendo ovviamente incompatibile un suo eventuale accoglimento con la statuizione di rigetto del reclamo. Ne deriva che nella specie si deve escludere il vizio di omessa pronunzia dedotto dal ricorrente.

Passando all’esame del profilo di violazione di legge di cui al secondo motivo di impugnazione, mette conto di sottolineare che, nel fissare i limiti della responsabilità del Magistrato, il legislatore del 1988 si è ispirato al principio della tassatività delle condotte a tal fine rilevanti, tipizzando, al di fuori dell’ipotesi del dolo, gli specifici comportamenti integranti la colpa grave, tutti riconducibili al comune fattore della negligenza inescusabile (cfr. anche Cass. n. 15227/07, 25133/06). Ed invero, secondo l’espresso dettato legislativo, costituiscono colpa grave: a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

L’elencazione è con tutta evidenza tassativa con la conseguenza che ogni comportamento, che non può essere ricondotto ad una delle ipotesi normativamente previste, non integra il titolo di responsabilità necessario.

Resta il temperamento dell’ipotesi costituita dalla grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile. Ma quest’ultima, come ha già avuto modo di affermare questa Corte, deve consistere in una totale mancanza di attenzione nell’uso degli strumenti normativi ed in una trascuratezza così marcata ed ingiustificabile da apparire espressione di vera e propria mancanza di professionalità (concretizzantesi in una violazione grossolana e macroscopica della norma ovvero in una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico, l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore, la manipolazione arbitraria del testo normativo (Cass. n. 7272/08). In effetti, la negligenza inescusabile implica la necessità della configurazione di un “quid pluris” rispetto alla colpa grave delineata dall’art. 2236 cod. civ., nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come “non spiegabile”, e cioè priva di agganci con le particolarità della vicenda, che potrebbero rendere comprensibile, anche se non giustificato, l’errore del magistrato (Cass. n. 15227/07, 25133/06).

Ne deriva l’infondatezza della doglianza in esame in quanto nessuno dei fatti prospettati dal ricorrente nel motivo di impugnazione in esame rientra affatto nelle fattispecie previste dalla norma indicata.

Quanto alla quarta doglianza, la cui trattazione viene anticipata per comodità di esposizione, con cui il ricorrente ha lamentato che la Corte di merito avrebbe violato la L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 1 e art. 3, lett. a), artt. 124, 418 e 419 c.p.p., relativamente alla considerazione in ordine alla rilevanza del carattere ordinatorio del termine ex art. 418 c.p.p., a fronte dell’enorme dilatazione dei tempi tra quelli previsti e quelli poi effettivamente trascorsi nella fissazione dell’udienza preliminare, vale la pena di precisare quanto segue.

La Corte di merito ha fondato la sua decisione sul punto su un duplice ordine di considerazioni, evidenziando dapprima che il mancato rispetto di un termine meramente ordinatorio non può mai integrare una violazione di legge che assuma il carattere della gravità richiesto dalla normativa in esame ed aggiungendo successivamente che nel caso di specie non sono emersi elementi certi per ritenere che la pendenza del procedimento penale abbia costituito la ragione ovvero una delle ragioni della tardiva nomina del reclamante quale Prefetto, non potendosi escludere invece che la pendenza del procedimento penale non sia stata affatto valutata in danno del M. e che altre diverse ragioni abbiano comportato il ritardo di tale nomina.

Ciò premesso, si deve sottolineare come questa seconda ratio decidendi non sia stata oggetto di censura alcuna da parte del ricorrente, con la conseguenza di intuitiva evidenza che la doglianza in esame, non essendo idonea a contrapporsi ad entrambe le ragioni poste a base della decisione della Corte territoriale sul punto, non possa essere presa in considerazione.

Quanto alle altre due doglianze, va osservato che le stesse, sostanzialmente connesse nella misura in cui si fondano sul comune presupposto di un’erronea valutazione, da parte della Corte territoriale, sia dell’attività del P.M. sia del rilievo attribuito alle documentazioni allegate al ricorso originario ed al reclamo, sono inammissibili.

Ed invero, torna utile premettere, con riferimento all’attività del P.M., che la c.d. clausola di salvaguardia della L. n. 117 del 1988, art. 2, (a norma del quale “non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto nè quella di valutazione del fatto e delle prove”) non tollera riduttive letture perchè giustificata dal carattere fortemente valutativo della attività giudiziaria e, come precisato dalla Corte Costituzionale (nella sentenza 19 gennaio 1989 n. 18), attuativa della garanzia costituzionale della indipendenza del giudice (e del giudizio), (Cass. n. 25123/06). Infatti, deve essere ritenuta la completa esenzione da responsabilità – alla stregua del carattere fondamentalmente valutativo dell’attività giurisdizionale, caratterizzata da opzioni tra più interpretazioni possibili – della lettura della norma secondo uno dei significati possibili, sia pure il meno probabile e convincente, sempre che dell’opzione interpretativa accolta si fosse dato conto in motivazione e comunque l’applicazione della norma non fosse priva di supporti tali da rendere l’errore commesso comprensibile anche se non giustificato (Cass. n. 7272/08). Ciò posto, giova aggiungere, quanto alle censure mosse alla Corte territoriale, che l’apprezzamento dei fatti e la loro valutazione attengono al libero convincimento del giudice di merito, per cui deve ritenersi preclusa ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso un’autonoma rivalutazione degli stessi. Con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile la doglianza mediante la quale la parte ricorrente, deducendo formalmente un preteso vizio ex art. 360, comma 1, n. 3, avanza, nella sostanza delle cose, un’ulteriore istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure formulate, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2011

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