Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11589 del 04/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 04/05/2021, (ud. 10/11/2020, dep. 04/05/2021), n.11589

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. PERRINO Angelina M – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo M. – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – rel. Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso iscritto al numero 11366 del ruolo generale dell’anno

2014, proposto da:

A.M., rappresentato e difeso, giusta procura speciale in

calce al ricorso, dall’Avv.to Angelo Curciullo, domiciliato presso

la cancelleria della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

Riscossione Sicilia s.p.a. – già Serit Sicilia s.p.a. -, in persona

del Direttore generale, rappresentata e difesa, giusta procura

speciale in calce al controricorso, dall’Avv.to Germano Garao,

domiciliata presso la cancelleria della Corte di cassazione;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania, n. 25/18/2013,

depositata in data 29 gennaio 2013, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10

novembre 2020 dal Relatore Cons. Maria Giulia Putaturo Donati

Viscido di Nocera.

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Umberto

De Augustinis che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per l’Agenzia delle entrate l’Avv.to dello Stato Davide

Giovanni Pintus.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 25/18/2013, depositata in data 29 gennaio 2013, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania, accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, nei confronti di A.M. e della concessionaria Serit Sicilia s.p.a. avverso la sentenza n. 282/1/09 della Commissione tributaria provinciale di Ragusa che, previa riunione, aveva accolto i ricorsi proposti dal suddetto contribuente avverso 1) l’avviso n. (OMISSIS) con il quale l’Ufficio di (OMISSIS) aveva accertato, nei confronti di quest’ultimo, per l’anno 2002, un minore credito Iva pari a Euro 105.210,00 – e irrogato le relative sanzioni – in dipendenza della riscontrata totale inesistenza degli acquisti indicati nel quadro Iva del Modello Unico 2003; 2) la cartella di pagamento n. (OMISSIS) relativa alla provvisoria iscrizione a ruolo dell’imposta dovuta in pendenza di giudizio.

2. In punto di fatto, il giudice di appello ha premesso che: 1) avverso l’avviso con il quale l’Ufficio di (OMISSIS) aveva accertato nei confronti di A.M., per l’anno 2002, un minore credito Iva stante la risultata inesistenza delle sottostanti operazioni di acquisto e avverso la cartella di pagamento emessa a seguito di corrispondente provvisoria iscrizione a ruolo, il contribuente aveva proposto separati ricorsi dinanzi alla CTP di Ragusa deducendo l’inesistenza della notifica dell’atto di accertamento per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, art. 148 c.p.c., la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, per mancata formazione di un p.v.c. di contestazione dal quale fare decorrere il termine di sessanta giorni per le eventuali osservazioni del contribuente prima dell’emissione dell’avviso, la violazione della L. n. 289 del 2002, per essersi quest’ultimo avvalso del condono tombale di detta L., ex art. 9, con conseguente preclusione di ogni attività accertativa; 2) aveva controdedotto l’Agenzia delle entrate rilevando la regolarità della notifica dell’atto di accertamento a mani del domiciliatario- procuratore, il rispetto del cit. art. 12, comma 7, essendo stato effettuato un mero accesso mirato ad acquisire la documentazione contabile e redatto un processo verbale di acquisizione dei documenti, l’inapplicabilità della definizione per condono nell’ipotesi non già di debiti tributari ma di vantati crediti di imposta, la legittimità delle irrogate sanzioni; 3) la CTP di Ragusa, con la sentenza n. 282/1/09, previa riunione, aveva accolto i ricorsi; 4) avverso la sentenza aveva proposto appello l’Ufficio chiedendo la riforma della sentenza di primo grado; 5) era rimasto contumace il contribuente; 6) la concessionaria aveva chiesto dichiararsi il difetto di legittimazione passiva e, in via subordinata, l’accoglimento dell’appello principale dell’Agenzia.

2. In punto di diritto, la CTR ha osservato che: 1) la notifica dell’atto impositivo era avvenuta regolarmente oltre che nelle mani del domiciliatario-procuratore anche a mani della moglie convivente; 2) era da escludere l’applicazione dello Statuto, art. 12, comma 7, non essendo stata espletata, nella specie, alcuna verifica ed essendo stato redatto solo un p.v.c. di constatazione della mancata esibizione delle fatture relative all’importo del vantato credito Iva per l’anno 2002; 3) in ogni caso, il cit. art. 12, comma 7, non sanzionava con la nullità dell’atto impositivo l’emissione dello stesso prima dello scadere del termine dilatorio di sessanta giorni; 4) la eccepita definizione per condono della L. n. 289 del 2002, ex art. 9, non poteva trovare applicazione con riguardo al credito Iva.

3. Avverso la sentenza della CTR, il contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a dieci motivi; hanno resistito, con rispettivi controricorsi, l’Agenzia delle entrate e Riscossione Sicilia s.p.a. – già Serit Sicilia s.p.a..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, la violazione dell’art. 293 c.p.c., per avere la CTR – non consentendo al contribuente di costituirsi, con deposito della relativa memoria, all’udienza di trattazione del 6 dicembre 2012 pronunciato solo su alcune delle eccezioni – relative alla notifica dell’atto impositivo, alla violazione dello Statuto, art. 12, comma 7, alla operatività del condono – sollevate in primo grado e ribadite oralmente dal difensore del contribuente a tale udienza, senza esaminare minimamente le altre.

1.1. In disparte la formulazione della censura evocando, al contempo, l’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, il motivo è infondato.

Premesso che “Nel processo tributario, la violazione del termine previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23 (sessanta giorni dalla notifica del ricorso) per la costituzione in giudizio della parte resistente comporta esclusivamente la decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio e di fare istanza per la chiamata di terzi, sicchè permane il diritto dello stesso resistente di negare i fatti costitutivi dell’avversa pretesa, di contestare l’applicabilità delle norme di diritto invocate e di produrre documenti ai sensi del detto decreto, artt. 24 e 32” (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 2585 del 30/01/2019; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6734 del 02/04/2015), nella specie, la CTR ha correttamente accertato la mancata costituzione (e dunque neanche tardiva) del contribuente in grado di appello, costituendo termine ultimo per produrre documenti e memorie illustrative quello ex art. 32 cit., rispettivamente di venti o di dieci giorni prima dell’udienza di trattazione ed avendo, nella specie, lo stesso ricorrente precisato di avere – una volta respinto il deposito della memoria in cancelleria per decorso del termine ex art. 32 cit., presentato quest’ultima direttamente all’udienza di trattazione (pag. 5-6 del ricorso). Ne consegue che, essendo stato l’accoglimento dei ricorsi da parte della CTP di Ragusa incentrato solo sul rilevato difetto di notifica dell’atto di accertamento e conseguente decadenza del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 57, con assorbimento di tutte le altre censure (v. pag. 4 del ricorso), il contribuente avrebbe dovuto riproporle nel giudizio di appello in ossequio al disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, dovendo in caso contrario, intendersi rinunciate, a nulla rilevando la mancata costituzione dell’appellato in tale giudizio, “giacchè la condizione del contumace non è deteriore rispetto a quella dell’appellato costituito, che non richiami le ragioni svolte in primo grado, e neppure è aggravata dall’interpretazione letterale e rigorosa della norma, ma dalla scelta del legislatore di restringere l’ambito del giudizio di appello in mancanza di espressa sollecitazione di parte” (Cass. n. 30079 del 2018; n. 4400 del 2018; n. 7316 del 2003).

2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, stante il “difetto di motivazione” in ordine all’eccezione di assunta irregolarità della notifica dell’atto impositivo e l’omesso immotivato esame delle altre censure ribadite in secondo grado dal difensore del contribuente oralmente all’udienza di trattazione.

2.1. L’infondatezza del primo motivo di ricorso – stante l’accertata contumacia dell’appellato con conseguente mancata riproposizione da parte di quest’ultimo delle censure rimaste assorbite dalla pronuncia di primo grado in ossequio al disposto dell’art. 56 cit., – rende privo di pregio anche secondo motivo che si fonda sull’erroneo presupposto della possibile riproposizione nella stessa udienza di trattazione delle istanze già proposte in prime cure. Parimenti inammissibile è la censura- peraltro formulata in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, – di “difetto di motivazione” sulla censura concernente l’assunta irregolare notificazione dell’atto impositivo, trattandosi di vizio non più censurabile in virtù della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis nella specie, per essere stata la sentenza di appello depositata in data 29 gennaio 2013.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60,artt. 137,148 e 156 c.p.c., per avere la CTR erroneamente ritenuto regolari le notifiche dell’avviso di accertamento in questione (al domiciliatario – procuratore del contribuente e alla moglie convivente), senza esaminare le altre eccezioni proposte dal contribuente in primo grado e ribadite oralmente in appello di nullità della relata di notifica apposta nel frontespizio dell’atto, di mancata certificazione di conformità degli atti consegnati con quelli notificati, di incompetenza del soggetto che aveva effettuato le notifiche, di insanabilità della notifica ex art. 156 cit., per intervenuta decadenza dell’Amministrazione dal potere accertativo – come già rilevato dal giudice di primo grado e non oggetto di specifico gravame.

3.1. Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.

Invero, premesso che il giudice di appello – a fronte del motivo di appello dell’Ufficio relativo alla assunta regolarità della notifica dell’atto di accertamento – ha accertato – con un apprezzamento in punto di fatto insindacabile in sede di legittimità – la regolarità della notifica dell’atto impositivo effettuata, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, sia nelle mani del domiciliatario -procuratore che della moglie convivente, con esclusione della conseguente decadenza dell’Ufficio dal potere accertativo, quanto alle altre censure asseritamente proposte dal contribuente in primo grado di inesistenza ad origine della notifica dell’atto impositivo (per nullità della relata di notifica apposta nel frontespizio dell’atto, mancata certificazione di conformità degli atti consegnati con quelli notificati, incompetenza del soggetto che aveva effettuato le notifiche) e rimaste assorbite dalla pronuncia di primo grado (fondata sul rilievo della “notifica irrituale” dell’avviso di accertamento e conseguente decadenza del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 57, v. pag. 4 del ricorso), in disparte la mancata riproduzione – in difetto di autosufficienza – in ricorso, nelle parti rilevanti, dell’atto difensivo del primo grado, opera la sopra richiamata preclusione di cui all’art. 56 cit., applicabile anche nei confronti dell’appellato contumace.

Per quanto concerne invece l’eccezione di insanabilità della notifica ex art. 156 c.p.c., dopo l’intervenuta decadenza dal potere accertativo, trattasi di eccezione – per espressa ammissione del ricorrente – accolta dalla CTP e dal giudice di appello implicitamente rigettata nell’accertare – in accoglimento del motivo di appello dell’Ufficio – la regolarità della notifica dell’atto impositivo.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e della L. n. 241 del 1990, artt. 21 septies e 21 octies, per avere la CTR ritenuto erroneamente inapplicabile la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, per mancato espletamento di alcuna verifica, essendo stato redatto solo un p.v.c. di constatazione della mancata esibizione delle fatture, e, in ogni caso, non sanzionata la relativa violazione con la nullità dell’atto impositivo, ancorchè il p.v. di constatazione della mancata esibizione della richiesta documentazione fiscale fosse da considerare un atto di apertura della verifica e fosse mancato, nella specie, un p.v.c. di chiusura della verifica di constatazione delle violazioni, con conseguente violazione del cit. art. 12, comma 7, e nullità dell’atto impositivo emesso, in mancanza di motivata urgenza, prima dello scadere dei sessanta giorni, in quanto lesivo del diritto di difesa e di quello al contraddittorio. (viene richiamata, sul punto, anche l’ordinanza della Corte costituzionale n. 244 del 2009).

4.1. Il motivo è infondato, dovendo procedere questa Corte alla correzione della motivazione della sentenza ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., nei termini di seguito indicati.

Nella specie, la CTR ha fondato il proprio giudizio di mancata violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, sul presupposto della estraneità della vicenda all’applicazione di tale disposizione per non avere l’Amministrazione effettuato alcuna verifica/controllo, essendosi trattato di un “accesso mirato” all’acquisizione di documentazione contabile con redazione di un mero processo verbale di constatazione della mancata esibizione delle fatture in relazione alle quali era stato ammesso il contestato credito Iva 2002. Il giudice di appello ha poi aggiunto che, in ogni caso, a suo avviso, il cit. art. 12, comma 7, in forza del principio di tassatività delle nullità, non sanzionava con l’invalidità l’atto impositivo emesso prima dello scadere del termine dilatorio di sessanta giorni.

La questione prospettata con i motivi in esame ha riguardo alla necessità o meno dell’adozione di un successivo avviso di constatazione a seguito dell’attività di accesso mirato per l’acquisizione della documentazione fiscale e, più in particolare, alle modalità con le quali deve essere assicurato il rispetto del principio del contraddittorio endoprocedimentale in favore del contribuente nei cui confronti è stato eseguito l’accesso mirato.

Va, in primo luogo, evidenziato che questa Suprema Corte ha precisato (Cass. civ. Sez. V, 22 giugno 2018, n. 16546) che l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria non deve necessariamente concludersi con la redazione di un processo verbale di constatazione, essendo sufficiente un verbale attestante le operazioni compiute; si è, altresì, precisato che, in tema di violazione di norme finanziarie (nella specie, in materia di IVA), il processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori in occasione di verifiche presso il contribuente e previsto dalla L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 24, non deve necessariamente contenere le contestazioni, potendo avere una molteplicità di contenuti, valutativi o meramente ricognitivi di fatti o di dichiarazioni, che, per la libera valutazione dell’amministrazione finanziaria prima e dell’autorità giudiziaria poi, possono comunque dare luogo alla emissione di avvisi di accertamento (Cass. civ. Sez. V, 29 dicembre 2017, n. 31120).

Questa Corte ha affermato che “Il termine dilatorio di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, decorre da tutte le possibili tipologie di verbali che concludono le operazioni di accesso, verifica o ispezione, indipendentemente dal loro contenuto e denominazione formale, essendo finalizzato a garantire il contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio e descrittivo” (Cass. 2 luglio 2014, n. 15010). Nella detta pronuncia si è precisato che, l’impiego di una locuzione generica come “verbale di chiusura delle operazioni” contenuta della norma in esame, comma 7, difatti, comprende tutte le possibili tipologie di verbali che concludano le operazioni di accesso, verifica o ispezione nei locali, indipendentemente dal loro contenuto, e ciò consegue dall’impiego nello Statuto dei diritti del contribuente, art. 12, comma 7, pure a fronte di più tipologie di verbali, di una locuzione meramente descrittiva, che ascrive rilievo, di per sè, alla circostanza che il verbale concluda la fase istruttoria di accesso, verifica o ispezione nei locali. Una tale scelta è d’altronde coerente con l’evoluzione del sistema tributario verso moduli partecipativi, in cui le situazioni soggettive dell’erario possono esaurirsi nell’esercizio imparziale di un potere ad imperatività mitigata, che si arresta all’acquisizione delle informazioni utilizzabili ed al mero controllo dell’osservanza degli obblighi strumentali dei contribuenti; si è, inoltre, precisato che riconoscere l’esercizio del diritto al contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio che chiuda le operazioni di accesso, verifica o ispezione significa, appunto, determinare le condizioni affinchè l’amministrazione possa valutare il proprio interesse non soltanto alla luce degli elementi raccolti, ma anche in base alle osservazioni su di essi rese dal contribuente.

Si è peraltro precisato che le garanzie statutarie operano già in fase di accesso, concludendosi anche tale attività con la sottoscrizione e consegna del processo verbale di chiusura delle operazioni svolte, e ciò alla stregua delle prescrizioni del decreto IVA, art. 52, comma 6, ovvero del decreto sull’accertamento, art. 33; siffatte, garanzie si applicano anche agli atti di accesso istantanei finalizzati all’acquisizione di documentazione, sia perchè la citata disposizione non prevede alcuna distinzione in ordine alla durata dell’accesso, ed è comunque necessario, anche in caso di accesso breve, redigere un verbale di chiusura delle operazioni (in senso conf. Cass. 2593/14 e Cass. 15624/14), sia perchè, anche in caso di “accesso breve”, si verifica quella peculiarità che, secondo Cass. sez. unite n. 24823/2015, giustifica, quale controbilanciamento, le garanzie di cui al cit. art. 12, peculiarità consistente nella “autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca di elementi valutati a lui sfavorevoli” (Cass. sent. n. 11471/2017; cfr. anche n. 18110/16; n. 25265/17; n. 1007/17; n. 8246/18); pertanto, si è ritenuto che “in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, impone la redazione del processo verbale di chiusura delle operazioni in ogni caso di accesso o ispezione nei locali dell’impresa, ivi compresi gli atti di accesso finalizzati alla raccolta di documentazione, e solo dal rilascio di copia del predetto verbale decorre il termine di sessanta giorni trascorso il quale può essere emesso l’avviso di accertamento ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7” (Sez. 5, Sentenza n. 7843 del 17 aprile 2015).

Da ultimo questa Corte ha affermato il principio di diritto cui questo Collegio intende dare seguito secondo cui: “In materia di garanzie del soggetto sottoposto a verifiche fiscali, il processo verbale, redatto ai sensi della L. n. 4 del 1929, art. 24, deve attestare le operazioni compiute dall’Amministrazione, sicchè, nel caso di accesso mirato all’acquisizione di documentazione fiscale, è sufficiente l’indicazione, in esso, dei documenti prelevati, ferma restando la decorrenza del termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, dal rilascio di copia del predetto verbale, senza che sia necessaria l’adozione di un’ulteriore verbale di contestazione delle violazioni successivamente riscontrate” (Cass. Sez. 5, Ord. n. 12094 del 08/05/2019).

Ne consegue, quindi, che è erroneo l’assunto del contribuente secondo cui la previsione di cui alla L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 24, imporrebbe sempre l’adozione di un processo verbale con il quale siano contestate le violazioni finanziarie; invero, poichè il contenuto del processo verbale deve avere riguardo alla specifica attività compiuta dall’amministrazione finanziaria, in caso di accesso mirato, come nel caso di specie, correttamente è stato redatto il verbale di accesso nel quale si è dato atto della mancata esibizione delle fatture per le quali era stato ammesso il credito Iva contestato per l’anno 2002.

Posto quanto sopra, nelle ipotesi in cui, a seguito dell’accesso mirato all’acquisizione della documentazione fiscale, venga redatto un processo verbale, è necessario garantire, indipendentemente dal contenuto di quest’ultimo, il rispetto del termine dilatorio di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, prima dell’emissione dell’atto impositivo, il che, nella specie, risulta essere avvenuto essendo stato il p.v. (nel quale si è dato atto della mancata esibizione delle fatture) redatto il 20 giugno 2007 e l’avviso di accertamento in questione emesso il 22 novembre 2007.

5. Con il quinto motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, per non avere la CTR – a fronte della affermata invalidità del condono Iva in forza di pronuncia della Corte di Giustizia – fatto salvo, anche in conformità alle sentenza della Corte di cassazione, l’affidamento del contribuente alla data del 16 aprile 2004 di perfezionamento del condono che, avendo “valenza contrattuale”, non poteva essere unilateralmente sciolto.

6. Con il sesto motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, per non avere la CTR ritenuto invalido il condono Iva con riguardo all’assunto credito Iva, non facendo salvo il principio dell’affidamento del contribuente neanche con riguardo alle sanzioni che erano state dichiarate estinte dalla L. n. 289 del 2002, art. 9.

Il quinto e il sesto motivo – da trattarsi congiuntamente – sono infondati.

L’incompatibilità del condono previsto dalla L. n. 289 del 2002, art. 9, con l’ordinamento Eurounitario in materia di tributi armonizzati (nella specie, di IVA), per contrasto con della Sesta Dir. in materia di IVA, artt. 2 e 22, (Dir. 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE), nonchè con il Trattato della Comunità Europea, art. 10, espressamente affermata dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella sentenza del 17 luglio 2008, resa in causa C-132/06, è stata più volte ribadita da questa Corte, a principiare dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 20068 del 2009, poi seguita da numerosissime pronunce conformi di questa Sezione (cfr. Cass. n. 19546 del 2011; n. 8110 e n. 13505 del 2012; n. 2915 del 2013; n. 20435 del 2014; n. 420, n. 1003. n. 5953, n. 6667, n. 7852, n. 19436 e n. 20064 del 2015; fino alle recentissime sentenze n. 406. n. 409, n. 410, n. 411, n. 416 e n. 961 del 2016); l’incompatibilità delle misure con cui lo Stato membro rinuncia ad una corretta applicazione e/o riscossione di quanto dovuto per IVA – che è il tributo oggetto dell’avviso di accertamento e del condono cui ha aderito il contribuente – comporta la disapplicazione della citata disposizione, anche a prescindere da specifiche deduzioni di parte (cfr., tra le altre. Cass. n. 961 del 2016, nonchè Cass. S.U. sent. n. 26948 del 2006, e, per la giurisprudenza Eurounitaria CGUE del 14 dicembre 1995, in causa C-312/93. Peterbroeck; del 14 dicembre 1995, in causa C-430-431/93, Vari Schijndel; del 27 febbraio 2003, in causa C-327/00, Santex), con la riespansione dei poteri di accertamento dell’Ufficio.

Va, altresì, precisato che quanto attiene all’imposta si riferisce anche alle sanzioni, come indicato punto 42 della citata sentenza in causa C-132/06, pur non essendo la materia delle sanzioni regolata dalla sesta Direttiva (Cass. n. 20068 e n. 25701 del 2009; n. 19546 del 2011; n. 13505 del 2012; n. 23750 del 2015).

E’ orientamento assolutamente consolidato di questa Corte (Cass. n. 6982 del 2015, n. 20433 del 2014, n. 1967 del 2012, n. 375 del 2009, n. 22559 del 2008, n. 3682 del 2007) che l’Erario non è tenuto, per automatico effetto del condono, a procedere al rimborso nè gli è inibito l’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza del diritto al rimborso, in quanto il condono fiscale elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, i quali restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’ufficio; è questo l’esito dell’interpretazione che è stata fatta dalla giurisprudenza di questa Corte della disposizione contenuta nel citato art. 9, comma 9, terzo periodo, secondo cui “La definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini (…) dell’imposta sul valore aggiunto”, che va, appunto, intesa nel senso che nessuna modifica di tali importi può essere determinata dalla definizione automatica ma non nel senso che questa sottragga all’Ufficio il potere di contestare il credito, ad es., per accertata inesistenza dell’operazione commerciale da cui esso deriverebbe (Cass. n. 375/2009 citata); interpretazione, questa, avallata dalla Corte costituzionale che nell’ordinanza n. 340 del 2005 ha affermato che quella norma “va intesa nel senso che il condono non influisce di per sè sull’ammontare delle somme chieste a rimborso, non impone al contribuente la rinuncia al credito e non impedisce all’erario di accogliere tali richieste, allorchè la pretesa di rimborso sia riscontrata fondata” e di rigettarla, ove sia invece infondata. Ed ha, altresì, precisato il Giudice delle leggi che la disposizione contenuta nel successivo art. 9, comma 10, lett. a), secondo cui “il perfezionamento della procedura prevista dal presente articolo comporta la preclusione, nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati, di ogni accertamento tributario”, va intesa nel senso che quel perfezionamento “preclude bensì l’accertamento dei debiti tributari dei contribuenti che hanno ottenuto il condono, ma non impedisce l’accertamento dell’inesistenza dei crediti posti a base delle richieste di rimborso, data la natura propria del condono, che incide sui debiti tributari dei contribuenti e non sui loro crediti”.

Nella specie, in cui, alla luce di quanto sopra, non può trovare applicazione il principio dell’affidamento dello Statuto, ex art. 10, il giudice di appello ha correttamente fatto applicazione dei suddetti principi, nel ritenere, in relazione ad anno di imposta oggetto di condono tombale, legittimo l’accertamento dell’Ufficio della inesistenza del credito vantato dal contribuente in dichiarazione, per inesistenza delle operazioni commerciali da cui sarebbe derivato.

7. Con il settimo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la falsa e contraddittoria motivazione su un punto controverso e decisivo del giudizio e la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 9, e art. 54, comma 2, della L. n. 289 del 2002, art. 9, comma 12, per avere la CTR fondato la motivazione della sentenza sul presupposto erroneo della mancata esibizione delle fatture in sede di accesso ancorchè l’Ufficio, senza interpellare il contribuente, si fosse rivolto direttamente al depositario delle scritture contabili, privo di poteri di rappresentanza, con conseguente mancata valenza della dichiarazione resa da quest’ultimo, peraltro, in ogni caso, conforme al cit. art. 9, comma 12, stante l’intervenuto condono.

7.1. Il motivo – che involge due sub censure – si profila complessivamente inammissibile.

In particolare, quanto alla denunciata “falsa e contraddittoria motivazione su un punto controverso e decisivo del giudizio” trattasi di vizio non più censurabile in virtù della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile nel caso di specie.

Quanto alla prospettata violazione di legge, la censura è inammissibile per novità della questione, non avendo, peraltro, il contribuente rimasto contumace in appello – riproposto in sede di gravame, del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 56, eventuali eccezioni proposte in primo grado e rimaste assorbite, così da intendersi rinunciate.

8. Con l’ottavo motivo, il ricorrente denuncia la falsa e contraddittoria motivazione su un punto controverso e decisivo del giudizio avendo la CTR fondato la decisione sul presupposto che l’Ufficio non avesse effettuato alcuna verifica, essendo il p.v.c. del (OMISSIS) di mera constatazione della mancata esibizione delle fatture per le quali era stato ammesso il credito Iva 2002, senza che l’Ufficio avesse in alcun modo dimostrato l’inesistenza del credito Iva in violazione del criterio distributivo dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c..

8.1. Il motivo è inammissibile, stante la inscindibile commistione dei profili di vizio motivazionale e di violazione con esso dedotti; invero, prospetta congiuntamente mezzi di impugnazione eterogenei, senza che, nell’ambito della formulazione unitaria del motivo, sia agevole delimitare in modo netto i vari profili di censura, con l’effetto di riversare impropriamente su questa Corte il compito di individuare, all’interno dell’unica esposizione, i segmenti riconducibili alle distinte ipotesi di impugnazione disciplinate dal codice di rito. Al riguardo, costituisce ius receptum di questa Corte il principio per cui “il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso”, ciascuno dei quali assume – “anche prima della riforma introdotta con il D.Lgs. n. 40 del 2006,” – “una funzione identificativa condizionata dalla sua formulazione tecnica, con riferimento alle ipotesi tassative di censura formalizzate con una limitata elasticità dal legislatore”, non risultando perciò ammissibile una censura che cumuli, in un unico motivo, “una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati” (ex muitis, Cass. sei. III, n. 18202/08; sez. V, n. 19959/2014; conf., da ultimo, sez. VI-5, orci, nn. 6735/16, 7656/16 e 12926/16; 14257/16). Tanto più che la censura di “falsa e contraddittoria motivazione” è di per sè inammissibile, trattandosi di vizio non più censurabile in virtù della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile nel caso di specie.

9. Con il nono motivo, il ricorrente denuncia “l’erronea e falsa applicazione del D.Lgs. 30 luglio 1999 n. 300, art. 68,” per avere la CTR omesso di esaminare l’eccezione sollevata dal contribuente in primo grado e ribadita oralmente in appello di inesistenza dell’avviso di accertamento per mancata sottoscrizione da parte del pubblico ufficiale competente.

9.1. Il motivo è privo di pregio, in quanto in disparte la formulazione della censura come “erronea e falsa applicazione dell’art. 68 cit.,” pur denunciando, in sostanza, un vizio di omessa pronuncia, e il non avere il ricorrente riprodotto in ricorso – in difetto di autosufficienza – nelle parti rilevanti il ricorso originario, si tratterebbe comunque di una doglianza asseritamente proposta in primo grado, rimasta assorbita nella pronuncia della CTP – per essere la sentenza di prime cure fondata sulla rilevata “irrituale notifica” dell’avviso di accertamento (pag. 4 del ricorso) – e non riproposta in grado di appello dal contribuente, rimasto ivi contumace, per cui da intendersi “rinunciata” ai sensi dell’art. 56 cit..

10. Con il decimo motivo, il ricorrente denuncia l’erronea e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, e art. 93 c.p.c., per avere la CTR erroneamente addebitato d’ufficio nei confronti del contribuente le spese di entrambi i giudizi di merito, determinandone l’importo senza alcun parametro o motivazione, senza tenere conto della complessità della normativa da applicarsi in materia di condono anche ai fini delle spese, e senza considerare che per il secondo grado non c’era stata difesa da parte del contribuente.

10.1 La censura – che sembra involgere sia l’an che il quantum della condanna alle spese – si profila inammissibile in quanto formulata genericamente e priva di specificità; il ricorso per cassazione, in quanto ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera chiara ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione: il rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – comporta, fra l’altro, l’esposizione di argomentazioni chiare ed esaurienti, illustrative delle dedotte inosservanze di norme o principi di diritto, che precisino come abbia avuto luogo la violazione ascritta alla pronuncia di merito (Cass. n. 23675 del 2013), in quanto è solo la esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. n. 25044 del 2013; Cass. n. 17739 del 2011; Cass. n. 7891 del 2007; Cass. n. 7882 del 2006; Cass. n. 3941 del 2002); il ricorso per cassazione deve, quindi, a pena di inammissibilità, essere articolato su specifici motivi dotati dei caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata (Cass. n. 13830 del 2004). In ogni caso, la CTR ha correttamente fatto applicazione del principio della soccombenza nel condannare il contribuente al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di merito.

11. In conclusione, il ricorso va rigettato.

12. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

PQM

la Corte:

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in favore dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, in complessive Euro 7.000,00, oltre spese prenotate a debito e, in favore della concessionaria Riscossione Sicilia s.p.a., in Euro 6.000,00, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge.

Dà inoltre atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 10 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2021

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