Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11586 del 15/06/2020

Cassazione civile sez. III, 15/06/2020, (ud. 13/12/2019, dep. 15/06/2020), n.11586

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4683-2019 proposto da:

L.A. nella qualità di erede di M.C.,

N.A., Q.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GB

MARTINI 2, presso lo studio dell’avvocato LILIANA BELLECCA, che li

rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

COMUNE NAPOLI in persona del Sindaco p.t., elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA APPENNINI 46, presso lo studio dell’avvocato ASSOCIATO

LEONE STUDIO LEGALE, rappresentato e difeso dall’avvocato FABIO

MARIA FERRARI;

REGIONE CAMPANIA in legale rappresentante Presidente p.t. della

Giunta Regionale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POLI 29,

presso lo studio dell’avvocato ANNA CARBONE, che la rappresenta e

difende;

– controricorrenti –

nonchè contro

ABC ACQUA BENE COMUNE NAPOLI AZIENDA SPECIALE;

– intimata –

Nonchè da:

ABC ACQUA BENE COMUNE NAPOLI AZIENDA SPECIALE in persona del

Direttore e Legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA CALABRIA 56, presso lo studio dell’avvocato ERNESTO

CESARO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente incidentale –

contro

Q.G., N.A., L.A., COMUNE NAPOLI

REGIONE CAMPANIA, S.A., D.C.R.,

D.C.G., S.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 8255/2018 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata

il 26/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/12/2019 dal Consigliere Dott. GIAIME GUIZZI STEFANO;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale CARDINO ALBERTO, che ha chiesto

l’accoglimento del secondo e quinto motivo di ricorso principale.

Assorbito il ricorso incidentale condizionato;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO ALBERTO che ha concluso per l’accoglimento del 2 e 5 motivo

del ricorso principale; assorbimento del ricorso incidentale

condizionato;

udito l’Avvocato LILIANA BELLECCA;

udito l’Avvocato MASSIMO CESARO per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Q.G., N.A. e L.A., ricorrono, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 8255/18, del 26 settembre 2018, del Tribunale di Napoli, che riformando la sentenza n. 27963/13 del Giudice di Pace di Napoli, in parziale accoglimento sia del gravame principale, che di quello incidentale, esperiti rispettivamente dall’Azienda Speciale A.B.C. – Acqua Bene Comune Napoli (d’ora in poi, “ABC”) e dalla Regione Campania – ha rigettato la domanda degli odierni ricorrenti volta a conseguire la restituzione delle somme dagli stessi versate a titolo di corrispettivo per la depurazione acque, in relazione alla fornitura del servizio idrico.

2. Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti che S.A.M. ebbe a convenire in giudizio ABC, unitamente al Comune di Napoli, sul presupposto che la Corte costituzionale, con sentenza n. 335 del 10 ottobre 2008, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, comma 1, nonchè del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 155, comma 1, nella parte in cui prevedevano che tale quota della tariffa del servizio idrico fosse dovuta anche nel caso in cui “manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi”; declaratoria di illegittimità costituzionale motivata sul rilievo che, nell’ipotesi suddetta, l’obbligo di pagamento risultava non correlato ad alcuna controprestazione.

Su tali basi, nonchè deducendo che l’impianto di depurazione sito a Cuma era “obsoleto e non funzionante”, ella agiva per la ripetizione dell’indebito, come detto, nei confronti di ABC e del Comune di Napoli.

Costituitisi in giudizio, entrambi i convenuti si opponevano – sulla base di varie difese ed eccezioni – all’accoglimento della domanda, ABC essendo anche autorizzata a chiamare in causa la Regione Campania, la quale, a propria volta, chiedeva (senza, però, che l’adito Giudice di pace provvedesse in tal senso) l’integrazione del contraddittorio nei confronti della società Hydrogest Campania S.p.a., ovvero l’affidataria del servizio di depurazione.

Spiegavano, inoltre, atto di intervento volontario Q.G., N.A. e L.A. (ovvero, gli odierni ricorrenti), e con essi D.C.R., D.C.G. e S.R., formulando anch’essi domanda di restituzione di quanto versato quale quota per depurazione acque nell’ambito del complessivo corrispettivo erogato per la fruizione del servizio idrico.

Ciò detto, i ricorrenti riferiscono che l’adito giudicante – dichiarato il difetto di legittimazione passiva del Comune di Napoli – accoglieva la domanda, condannando in solido ABC e la Regione Campania, alla restituzione delle somme suddette, con decisione, di seguito, integralmente riformata dal Tribunale partenopeo, che, in funzione di giudice d’appello, accoglieva il gravame principale di ABC e quello incidentale della Regione Campania, rigettando la domanda di restituzione.

3. Avverso la sentenza del Tribunale di Napoli ricorrono per cassazione i già appellati, sulla base – come detto – di cinque motivi.

3.1. Il primo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 1705 e 2033 c.c., “in ordine al preteso e dichiarato difetto di legittimazione passiva” di ABC.

Si censura la sentenza impugnata laddove, come detto, ha escluso la legittimazione passiva di ABC, pervenendo a tale conclusione sul rilievo che essa, sebbene gestore dell’intero servizio idrico, provvede a ripartire il corrispettivo ricevuto in tre quote, rispettivamente, per il consumo dell’acqua potabile, per il servizio di fognatura, e per quello di depurazione, attribuendo, in particolare, quest’ultima quota alla Regione Campania, che si pone, pertanto, come destinataria “ex lege” di tale quota della tariffa. Essa soltanto, quindi, e non ABC, risulta – secondo la sentenza impugnata legittimata passivamente rispetto alla domanda restitutoria avanzata dagli odierni ricorrenti. E ciò alla stregua del principio secondo cui la legittimazione passiva rispetto all’azione di ripetizione dell’indebito compete al soggetto cui è legalmente dovuto il pagamento effettuato, anche se l’incasso della somma sia avvenuto, come nella specie, tramite un incaricato alla riscossione o rappresentante dell’avente diritto (richiama il Tribunale partenopeo, sul punto, Cass. Sez. 3, sent. 6 aprile 2011, n. 7871, Rv. 616839-01).

Deducono, al riguardo, gli odierni ricorrenti l’erroneità del riferimento al citato precedente giurisprudenziale di questa Corte, concernente una fattispecie, in realtà, del tutto diversa dalla presente, ovvero un caso in cui era stato rilasciato un mandato con rappresentanza, in forza del quale era stata riscossa una somma in nome e per conto del mandante. Tuttavia, nel caso oggi in esame, non vi è alcuna prova che ABC abbia agito quale mandataria con rappresentanza della Regione Campania, risultando, dunque, non pertinente il principio richiamato dalla sentenza impugnata.

Per contro, ABC ha preteso il pagamento, da ciascuno degli odierni ricorrenti, in forza del contratto di utenza con gli stessi stipulato, donde l’operatività del principio secondo cui il carattere personale dell’azione di ripetizione rende la stessa esperibile solo nei confronti del destinatario del pagamento che abbia ricevuto la somma (o la cosa) che si assume non dovuta, essendo l’azione restitutoria circoscritta ai rapporti fra “solvens” e “accipiens”.

3.2. Il secondo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), – violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.p.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2729 c.c., oltre che del principio di diritto vivente della distribuzione dell’onere della prova, alla luce del criterio della “vicinanza della prova”; la sentenza è, inoltre, censurata in ordine all’affermata assenza di prova del mancato funzionamento del depuratore delle acque e all’omesso esame di fatti e documenti forniti dai ricorrenti, quali elementi decisivi per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

La sentenza del Tribunale partenopeo è, in questo caso, censurata laddove ha ravvisato, nella decisione del giudice di prime cure, una cattiva applicazione dell’istituto del fatto notorio, non avendo considerato che esso va inteso in senso rigoroso, come fatto acquisito alla conoscenza della collettività, con tale grado di certezza da apparire incontestabile. Nel pervenire a tale conclusione, tuttavia, il giudice d’appello non avrebbe fatto applicazione corretta dei principi in materia di onere della prova, non tenendo conto che, a prescindere dal riferimento al fatto notorio, il giudice di prime cure aveva, comunque, concluso nel senso che parte attrice aveva “provato documentalmente l’omesso e/o insufficiente funzionamento del depuratore di Cuma”.

Invero, gli odierni ricorrenti insistono nel sottolineare l’esistenza di prova documentale in ordine alla inefficienza del depuratore, ciò che a loro dire ha comportato, indubitabilmente, la mancata erogazione del servizio. Verrebbero in rilievo, in tal senso, innanzitutto, gli atti del procedimento penale, avviato dalla Procura della Repubblica di Napoli in relazione allo stato dell’impianto di depurazione di Cuma, ed esattamente la relazione peritale disposta in tale sede, oltre alla sentenza n. 4351, resa dalla sezione distaccata di Pozzuoli del Tribunale partenopeo il 19 marzo 2009. A tali documenti è da aggiungere, poi, la dichiarazione resa alla stampa dal direttore generale dell’Arpac, il 25 aprile 2009, che confermerebbe come tutti i depuratori della Regione Campania, ad eccezione di quello di Sarno, non siano adeguati, non essendo in grado di rispettare l’insieme dei parametri previsti dalla legge. Analogamente, dovrebbe dirsi per le innumerevoli denunce relative al malfunzionamento, o mancato funzionamento, del depuratore di Cuma.

Conseguentemente, il Tribunale avrebbe errato laddove ha totalmente omesso di analizzare la copiosa documentazione versata in atti, violando e facendo falsa applicazione del disposto normativo dell’art. 2697 c.c..

A ciò si aggiunga, sempre secondo i ricorrenti, che controparte non ha mai contestato tale documentazione, sicchè la decisione impugnata, sempre sotto il profilo dell’onere della prova, si pone in patente contrasto con il principio di non contestazione di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c.,

Quand’anche, poi, dette prove non fossero considerate come fonte di convincimento, esse assurgerebbero, in ogni caso, al rango di presunzioni gravi precisi e concordanti, sicchè l’impugnata decisione del Tribunale si porrebbe in contrasto anche con l’art. 2729 c.c.,

Infine, il Tribunale avrebbe errato nel disapplicare il principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, della cosiddetta “vicinanza della prova”. Infatti, nel caso di specie, il cd. “onus probandi”, a carico di chi era tenuto a provare un fatto negativo (ovvero, l’inesistenza della “causa debendi”), andava mitigato con quello di vicinanza della prova, al fine di evitare di esigere dall’attore la prova della inesistenza di qualsiasi titolo giustificativo del pagamento intercorso tra “solvens” e “accipiens”.

In conclusione, il Tribunale partenopeo avrebbe erroneamente ritenuto che il Giudice di pace abbia operato un’inversione dell’onere della prova e chi si sia basato su di un “fatto notorio”, laddove la decisione di primo grado aveva correttamente valutato le risultanze processuali, senza incorrere in alcun errore, essendo stato, per contro, il giudice di appello a realizzare violazione e falsa applicazione dei principi fissati dall’art. 2697 c.c. e dagli artt. 115 e 116 c.p.c., oltre che del principio della “vicinanza della prova” nella distribuzione del relativo onere.

3.3. Il terzo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 11 disp. prel. c.c., , e ciò in ordine alla ritenuta applicazione retroattiva del D.L. 30 dicembre 2008, n. 208, art. 8-sexies, convertito in L. 27 febbraio 2009, n. 13.

Si censura la sentenza impugnata laddove, per un verso, ha ritenuto che essi ricorrenti non avessero contestato che fossero in corso attività di progettazione, realizzazione o completamento necessarie all’attivazione o all’adeguamento del servizio, così da rendere non dovute, anche per tale aspetto, le somme riscosse.

In questo modo il Tribunale avrebbe, erroneamente, ritenuto che l’onere probatorio in merito agli oneri relativi alle attività progettazione, realizzazione o completamento degli impianti di depurazione, previsti dalla norma suddetta come dovuti, in ogni caso, dagli utenti, fosse a carico di costoro. Errata sarebbe, pertanto, l’affermazione che pone a loro carico – sotto forma di rigetto della domanda di ripetizione – le conseguenze della mancata concreta determinazione di tali oneri.

Si assume, infatti, come la norma “de qua” non sia applicabile, “ratione temporis”, alla quasi totalità dei rapporti di utenza oggetto di giudizio, visto che i corrispettivi dei quali è stata chiesta la restituzione risalgono, nella quasi totalità dei casi, a periodi anteriori all’entrata in vigore della legge suddetta.

3.4. Il quarto motivo, strettamente collegato al precedente, deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) e n. 5), – violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e art. 118 disp. att. c.p.c., per totale carenza di motivazione in riferimento alle ragioni (che, difatti, i ricorrenti qualificano come puramente “immaginata”) della retroattività del citato art. 8-sexies, n. 208 del 2008, convertito in L. n. 13 del 2009 e del D.M 30 settembre 2009.

3.5. Il quinto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), – violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., oltre che del principio di diritto vivente della distribuzione dell’onere probatorio alla luce del criterio della “vicinanza della prova”, e ciò quanto all’operata inversione degli oneri relativi all’attività di progettazione, realizzazione, o completamento degli impianti di depurazione; si ipotizza, altresì, omesso esame di fatti e documenti forniti dai ricorrenti quali elementi decisivi per il giudizio.

Secondo i ricorrenti, quand’anche si ritenesse applicabile retroattivamente la norma suddetta, l’onere della prova in merito alle attività di progettazione, realizzazione o completamento dell’impianto di depurazione gravava su ABC, che non lo ha assolto.

Se è vero, infatti, che le posizioni assunte dal convenuto, per contrapporsi alla domanda attorea, possono sostanziarsi – oltre che in mere difese, ovvero nella negazione dei fatti costitutivi del diritto azionato – nella contrapposizione di altri fatti, che privino di efficacia i primi, ovvero li modifichino, la loro prova, come nel caso in esame, incombe pur sempre sulla parte che li eccepisca.

Nel caso che occupa, mentre i ricorrenti avrebbero dimostrato il cattivo funzionamento dell’impianto di depurazione di Cuma, l’esistenza di progetti di rifunzionalizzazione e gli eventuali costi necessari all’attuazione degli stessi doveva essere provato da ABC, ciò che non risulta avvenuto, sussistendo, anzi, nella specie prova che – almeno fino all’anno 2012 – alcun intervento venne eseguito, come ampiamente dimostrato dagli odierni ricorrenti, la cui documentazione sarebbe stata, però, oggetto di superficiale valutazione.

4. Ha proposto controricorso la Regione Campania, per resistere all’avversaria impugnazione, salvo che in relazione al suo primo motivo.

Condivisibile, infatti, è ritenuta la censura volta a riconoscere in capo ad ABC la legittimazione passiva rispetto all’esperita azione di ripetizione dell’indebito, evidenziandosi come il giudice di appello, pur inquadrando l’oggetto della domanda nella fattispecie dell’indebito oggettivo, sia pervenuto ad una decisione contraria alle norme che lo regolano. E ciò, innanzitutto, perchè essa Regione versa nell’impossibilità di restituire ciò che non gli è mai stato corrisposto, avendo il giudice omesso di esaminare, pure a fronte delle contestazioni ed eccezioni da essa controricorrente avanzate, gli elementi probatori che attesterebbero la mancata ricezione della quota tariffaria asseritamente erogatale da ABC. Del resto, la documentazione da quest’ultima versata in atti, ovvero un asserito atto di ricognizione di debito, dimostrerebbe esattamente il contrario di quanto sostenuto da ABC, vale a dire l’esistenza di una sua morosità nel riversamento, alla Regione, di quanto riscosso dagli utenti.

D’altra parte, la violazione dell’art. 2033 c.c., sarebbe, vieppiù, evidente ove si consideri il carattere personale della azione di ripetizione, esperibile solo nei confronti del destinatario del pagamento che abbia ricevuto la somma (o la cosa) che si assume non dovuta. Difatti, come costantemente suole dirsi, l’azione restitutoria è circoscritta ai rapporti fra “solvens” e “accipiens”, non potendo porsi come legittimato passivo chi tragga vantaggio dalla destinazione che il cd. “accipiens” abbia eventualmente dato alla somma ricevuta.

Il tutto, infine, non senza notare come l’azione di ripetizione dell’indebito, quale azione di nullità per difetto di causa, deve essere esclusa nella presente ipotesi, giacchè le somme versate non possono ritenersi indebite, visto che l’esistenza del depuratore non è mai stata messa in discussione, ma si è dedotto solo il suo inefficiente funzionamento, ovvero un fatto non idoneo a giustificare la pretesa restitutoria, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza costituzionale.

Quanto alle restanti censure formulate dai ricorrenti, se ne assume la non fondatezza.

Si contesta, in particolare, la pretesa dei ricorrenti – che integrerebbe una vera e propria inversione dell’onere della prova – di porre a carico della Regione (e di ABC) la dimostrazione dell’avvenuto espletamento del servizio di depurazione. Per contro, si ribadisce come l’azione di ripetizione dell’indebito presupponga la prova non solo dell’avvenuto pagamento, ma pure della inesistenza (o del venir meno) della “causa debendi”, ponendosi entrambi alla stregua di fatti costitutivi della pretesa restitutoria.

Gli attori, dunque, avrebbero dovuto provare il mancato funzionamento del depuratore di Cuma, non potendo neppure fare riferimento al “fatto notorio”, dovendo esso intendersi in senso rigoroso, come fatto acquisito alla conoscenza della collettività, con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile.

Nè, d’altra parte, a dimostrare l’inesistenza o il malfunzionamento del depuratore potrebbero ritenersi utili i documenti acquisiti agli atti del giudizio, ed in particolare la sentenza penale n. 4351, del 19 marzo 2009, pronunciata dal Tribunale di Napoli, sezione di Pozzuoli, nonchè la perizia espletata nell’ambito del giudizio in cui tale decisione venne pronunciata, documenti che, effettivamente, attestano l’inefficacia dell’impianto, ma con riferimento ad un periodo anteriore ai fatti di causa, mancando, pertanto, prova che il funzionamento del depuratore sia stato interrotto o sospeso, vale a dire che esso sia stato “temporaneamente inattivo”, con riferimento all’intero periodo in contestazione.

5. Ha proposto controricorso anche ABC, sia per resistere all’avversaria impugnazione, che per proporre ricorso incidentale condizionato, basato su tre motivi.

5.1. In relazione, in particolare, al primo motivo di impugnazione, si sottolinea come la pretesa degli odierni ricorrenti di ripetere, nei suoi confronti, quanto pagato quale corrispettivo per depurazione acque trovi titolo in un inadempimento contrattuale, e dunque in un fatto ad essa non ascrivibile.

Infatti, ABC, essendosi solo limitata a riscuotere le somme per conto dell’ente erogatore, il Comune di Napoli (e della Regione Campania, quanto alla quota per la depurazione delle acque), assume di non poter essere ritenuta responsabile delle disfunzioni dell’impianto e, dunque, di non dover rispondere delle stesse.

Troverebbe, infatti, applicazione il principio – affermato da questa Corte – secondo cui, “in caso di ripetizione di indebito oggettivo proposto nei confronti del concessionario del servizio di riscossione, legittimato passivo è, in qualità di effettivo “accipiens”, l’ente impositore del credito e non il precedente alla riscossione”, giacchè quest’ultimo ha agito “quale concessionario per la riscossione sulla base di ruoli formati dall’ente impositore che rimane titolare del credito ed al quale la le somme riscosse vanno versate dallo stesso concessionario” (è citata Cass. Sez. 3, sent. 19 luglio 2007, n. 13357).

La controricorrente assume, inoltre, che il secondo motivo di ricorso – oltre che inammissibile, perchè diretto a sollecitare una rinnovata, e non consentita, rivalutazione del materiale probatorio sarebbe, comunque, non fondato. Difatti, occorrerebbe distinguere l’ipotesi della inesistenza dell’impianto di depurazione da quella della temporanea interruzione del servizio, giacchè solo nel primo caso è prospettabile un indebito oggettivo, visto che nel secondo sarebbe, al più, ipotizzabile una responsabilità di natura contrattuale per inadempimento delle prestazioni afferenti la gestione dell’impianto stesso. In altri termini, gli attori, sebbene abbiano fatto riferimento all’art. 2033 c.c., avrebbero, nella sostanza, azionato una responsabilità civile per inadempimento, visto che la ripetizione di indebito è prospettabile solo quando il vincolo contrattuale non sia mai sorto, o sia venuto meno (anche per effetto di caducazione), e non quando, come nella specie, si verta in tema di inesatto adempimento di una prestazione ricompresa nel contratto di somministrazione. Di conseguenza, l’accoglimento della domanda avrebbe richiesto, in uno con la prova del contratto di utenza, l’accertamento dell’inadempimento colpevole del debitore. Corretta, inoltre, sarebbe la decisione del Tribunale di Napoli di non ravvisare un “fatto notorio” nel malfunzionamento dell’impianto di Cuma, giacchè il “notorio” va inteso in senso rigoroso, come fatto acquisito alla conoscenza della collettività, con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile. In difetto di tali presupposti spettava agli attori, odierni ricorrenti, dimostrare, al limite anche richiedendo lo svolgimento di una consulenza tecnica d’ufficio, in quali circostanze e per quanto tempo l’impianto rimase fermo e privo di qualsivoglia funzionalità operativa. Prova, tuttavia, che ben difficilmente si sarebbe potuta raggiungere, visto che la documentazione in atti dimostra, per contro, come l’impianto fosse funzionante.

Quanto ai motivi terzo, quarto e quinto, se il primo appare addirittura inammissibile, giacchè la questione da esso posta sarebbe stata sollevata, per la prima volta, in sede di legittimità (al netto, comunque, della sua infondatezza, per avere questa Corte già affermato che l’applicazione retroattiva del D.L. n. 208 del 2008, art. 8-sexies, convertito in L. n. 13 del 2009, “è implicita nella sua “ratio””), gli altri sarebbero, invece, non fondati. Infatti, il citato art. 8-sexies ha stabilito che gli oneri relativi alle attività di progettazione e di realizzazione e completamento degli impianti di depurazione, nonchè quelli relativi ai connessi investimenti, come espressamente individuati e programmati dai piani d’ambito, costituiscono una componente vincolata delle tariffe del servizio idrico, che concorre alla fissazione del corrispettivo dovuto dall’utente. Su tali basi, pertanto, il Ministero delle Finanze ha chiarito che la tariffa per il servizio di fognatura e depurazione è dovuta da tutti coloro che risultano allacciati alla pubblica fognatura, indipendentemente dall’effettivo utilizzo. Ciò detto, in attesa del compimento di tutte quelle attività, demandate al gestore e all’Autorità d’ambito, il credito restitutorio avanzato da ciascuno degli utenti del servizio idrico che hanno agito nel presente giudizio risulta privo delle caratteristiche della certezza, liquidità ed esigibilità, donde la non fondatezza della loro pretesa.

5.2. Quanto al ricorso incidentale condizionato, esso si articola su tre motivi.

5.2.1. Il primo motivo ipotizza nullità della sentenza o del procedimento per omessa pronuncia sul motivo di gravame relativo alla carenza di titolarità in capo all’attore e ai terzi interventori ex artt. 75,81,100 e 112 c.p.c..

Si censura la sentenza impugnata laddove avrebbe omesso ogni decisione sul motivo di gravame, proposto dall’odierna ricorrente, volto a dimostrare il difetto di legittimazione attiva dell’attrice e degli interventori (o meglio, di titolarità attiva del rapporto controverso), avendo, in particolare, il Tribunale di Napoli affermato che costoro hanno provato l’esistenza del rapporto di utenza producendo le “bollette-fatture periodiche” con le quali era stato “richiesto ed ottenuto il pagamento del corrispettivo per il servizio idrico”.

Orbene, sul rilievo che la legittimazione attiva – o meglio, la titolarità dal lato attivo del rapporto dedotto in giudizio – deve essere provata dall’attore, e che la sua mancanza è rilevabile anche d’ufficio dal giudice (pure in sede di legittimità; Cass. Sez. Un., sent. 16 febbraio 2016, n. 2951), la ricorrente si duole del fatto che in un caso, come quello presente, in cui era stata contestata dal convenuto l’esistenza del rapporto contrattuale, era onere degli attori fornire prova dello stesso, all’uopo non potendosi ritenere sufficienti le fatture prodotte in giudizio, essendo inidonee a tale scopo.

Il tutto, poi, senza tacere del fatto che tale difetto di titolarità attiva del rapporto non è stato rilevato neppure d’ufficio dal giudice, il quale, anzi, avrebbe valutato in modo carente gli elementi probatori acquisiti, visto che agli atti di causa non risultavano depositati nè il contratto, nè le fatture (intestate a soggetti terzi), nè le corrispondenti ricevute di pagamento.

5.2.2. Il secondo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 4), – violazione e falsa applicazione degli artt. 1292,1298,1299 e 2055 c.c., oltre che degli artt. 32,106 e 112 c.p.c., in relazione al mancato accoglimento della domanda di manleva e/o di regresso nei confronti della Regione Campania e della società Hydrogest, della quale Regione aveva richiesto, senza esservi autorizzata, la chiamata in causa.

In particolare, la sentenza impugnata viene censurata laddove, sebbene abbia escluso la responsabilità di essa ABC, nulla ha statuito in ordine all’eccepita responsabilità esclusiva della Regione Campania e della Hydrogest, e alla relativa richiesta di manleva e/o regresso avanzata nei loro confronti, con le quali l’odierna ricorrente incidentale non aveva inteso riversare, su detti soggetti, le conseguenze di un “proprio” inadempimento o/e fatto illecito, bensì individuare altro soggetto “corresponsabile”, come tale, pertanto, effettivamente e direttamente tenuto alla prestazione pretesa dagli attori. La Regione Campania, infatti, è la proprietaria dell’impianto di Cuma, la società Hydrogest è l’affidataria del servizio di depurazione.

5.2.3. Il terzo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e n. 5), – violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 c.c. e art. 2948 c.c., comma 1, n. 4), in merito alla prescrizione del diritto ad ottenere la restituzione delle somme versate, censura proposta anche sotto forma di nullità processuale, oltre che di vizio motivazionale.

Ribadisce la ricorrente incidentale che, nel caso di specie, si controverte non in ordine alla ripetizione di un indebito, ma all’inadempimento di una prestazione afferente ad un contratto di somministrazione, sicchè il termine di prescrizione non può essere quello decennale, bensì quello previsto per i crediti relativi a prestazioni periodiche dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4).

6. Ha proposto controricorso anche il Comune di Napoli, resistendo all’avversaria impugnazione.

Il controricorrente si limita ad evidenziare come la statuizione del Giudice di pace, che aveva escluso la legittimazione passiva di esso Comune, non sia stata oggetto di gravame da parte degli odierni ricorrenti, innanzi al Tribunale partenopeo, neppure nelle forme dell’appello incidentale condizionato, sicchè essa deve ritenersi passata in giudicato.

Dal momento, tuttavia, che nelle conclusioni dell’atto di impugnazione i ricorrenti principali sembrerebbe essere stata richiesta la condanna di tutte le controparti al pagamento delle spese di giudizio, il predetto controricorrente ha ritenuto di dover prendere posizione in ordine a tale richiesta.

7. Sia i ricorrenti principali hanno presentato memoria ex art. 378 c.p.c., insistendo nelle rispettive argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. Il ricorso principale va accolto, sebbene nei limiti di seguito precisati.

8.1. Il primo motivo del ricorso principale è fondato.

8.1.1. Sul punto, occorre muovere dalla constatazione, ancora di recente ribadita da questa Corte, che – mentre fino al 3 ottobre 2000 – il canone o diritto di cui alla L. 10 maggio 1976, n. 319 “doveva essere considerato un tributo, conformemente al costante orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte di legittimità”, a partire da questa data, per effetto del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258, art. 24, che, nel sopprimere il D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 62, commi 5 e 6, ha fatto venire meno, per il futuro, il differimento dell’abrogazione della previgente disciplina, “si è passati all’applicazione della tariffa del servizio idrico integrato di cui alla L. 5 gennaio 1994 n. 36, art. 13 e ss.”. Orbene, in rapporto “alla tariffa di fognatura e di depurazione soggetta alla innovata disciplina”, questa Corte di legittimità ha affermato “che i Comuni non possono chiedere il pagamento dell’apposita tariffa ove non diano prova di esser forniti di impianti di depurazione delle acque reflue”. Invero, “la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è divenuta, appunto, una componente della complessiva tariffa del servizio idrico integrato, configurato come corrispettivo di una prestazione commerciale complessa che, per quanto determinata nel suo ammontare in base alla legge, trova fonte non in un atto autoritativo direttamente incidente sul patrimonio dell’utente, bensì nel contratto di utenza. Sicchè, tenuto conto della declaratoria di incostituzionalità della L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, comma 1 – sia nel testo originario, sia nel testo modificato dalla L. 31 luglio 2002, n. 179, art. 28 (Disposizioni in materia ambientale) – nella parte in cui prevedeva che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione fosse dovuta dagli utenti “anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi” (v. C. Cost. n. 335/08), va affermato il principio secondo il quale, in caso di mancata fruizione, da parte dell’utente, del servizio di depurazione, per fatto a lui non imputabile, è irragionevole, per mancanza della controprestazione, l’imposizione dell’obbligo del pagamento della quota riferita a detto servizio” (così, in motivazione, Cass. Sez. 5, sent. 18 aprile 2018, n. 9500, Rv. 647829-01).

8.1.2. Invero, una volta ricostruita la pretesa fatta valere, anche nel presente giudizio, come derivante dall’inadempimento di una prestazione che ha fonte negoziale, e segnatamente nel contratto di utenza, il soggetto tenuto alla restituzione non può che individuarsi in quello che, in forza del predetto contratto, ha richiesto (e conseguito) il pagamento.

Difatti, se è vero che “la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione, in quanto componente della complessiva tariffa del servizio idrico integrato, ne ripete necessariamente la natura di corrispettivo contrattuale, il cui ammontare è inserito automaticamente nel contratto”, ne consegue che, ove il servizio di depurazione non sia stato fornito, ma quella quota di tariffa sia stata comunque versata, è nei confronti della controparte del contratto di utenza che la pretesa restitutoria va azionata, in quanto è alla “effettiva fruizione del servizio di depurazione” che, “per la rilevata natura sinallagmatica del rapporto”, risulta “condizionato l’accoglimento della pretesa di pagamento” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 4 giugno 2013, n. 14042, Rv. 626790-01).

In altri termini, la titolarità di ABC – dal lato passivo – del rapporto controverso originato dalla pretesa restitutoria degli utenti, trova il suo fondamento nella posizione di parte negoziale del contratto di utenza, ciò che del resto, fino al riconoscimento della non debenza della quota della tariffa relativa alla depurazione acque (per effetto dell’intervento caducatorio del Giudice delle leggi), aveva legittimato la predetta azienda municipalizzata a pretendere la riscossione dell’intero corrispettivo del servizio idrico.

8.2. Quanto al secondo motivo di ricorso principale, anch’esso è fondato, nei termini di seguito precisati.

8.2.1. La decisione del Tribunale di Napoli di riformare quella del primo giudice, sul rilievo che era onere degli utenti provare che l’impianto di depurazione di Cuma era “inattivo”, risulta effettivamente assunta, come lamentano i ricorrenti, in violazione dell’art. 2697 c.c..

Sul punto, in via preliminare, va osservato che la “violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01).

Tale evenienza ricorre nel caso di specie.

Infatti, costituisce principio generale quello secondo cui il creditore di una prestazione contrattuale – nella specie, l’utente del servizio idrico – “deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento” (da ultimo, tra le molte, Cass. Sez. 3, sent. 20 gennaio 2015, n. 826, Rv. 634361-01). D’altra parte, proprio con riferimento specifico alla presente fattispecie, si è ritenuto che, configurandosi “la tariffa del servizio idrico integrato, in tutte le sue componenti, come il corrispettivo di una prestazione commerciale complessa, è il soggetto esercente detto servizio, il quale pretenda il pagamento anche degli oneri relativi al servizio di depurazione delle acque reflue domestiche, ad essere tenuto a dimostrare l’esistenza di un impianto di depurazione funzionante nel periodo oggetto della fatturazione, in relazione al quale esso pretenda la riscossione” (Cass. Sez. 3, sent. n. 14042 del 2013, cit.).

Tanto basta, dunque, per decretare l’accoglimento del motivo, restando assorbite le altre censure, ovvero quelle di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2729 c.c., dal momento che il rigetto della domanda degli odierni ricorrenti è stato motivato dal giudice di appello – salvo quanto si dirà nello scrutinare il quarto motivo del ricorso principale, che investe proprio tale ulteriore “ratio” posta dal Tribunale partenopeo a fondamento della propria decisione – sul rilievo che costoro non avrebbero adempiuto ad un onere probatorio che, come detto, non gravava su di essi.

8.3. Il terzo e il quarto motivo del ricorso principale, invece, non sono fondati.

8.3.1. Non è fondata, infatti, la censura dei ricorrenti, secondo cui il D.L. 30 dicembre 2008, n. 208, art. 8-sexies, convertito in L. 27 febbraio 2009, n. 13, non si applicherebbe retroattiva mente.

Questa Corte, invero, ha ripetutamente affermato che la norma suddetta, “nel disciplinare le modalità di ripetizione delle somme erogate, dagli utenti del servizio idrico integrato, quale corrispettivo della non fruita prestazione di depurazione acque”, risulta “emanata per regolamentare gli effetti di una pronuncia (n. 335 del 2008) della Corte costituzionale, sicchè la retroattività è implicita nella sua “ratio””, precisando che essa non “viola gli artt. 3,24,102,111 e 117 Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU), poichè ogni norma genera uno iato tra la situazione preesistente e quella successiva, senza per questo discriminare tra i cittadini”, nè “si occupa dell’azionabilità dei diritti, ovvero reca regole processuali, o impedisce l’accesso alla giurisdizione, o, infine, lede le prerogative degli organi giudiziari” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 4 aprile 2019, n. 9323, Rv. 653274-01; Cass. Sez. 3, sent. 31 marzo 2017, n. 8334, Rv. 643835-01; Cass. Sez. 3, sent. 6 ottobre 2015, n. 19887).

Quanto, poi, al contenuto di tale norma, sul punto, occorre muovere dalla constatazione che il suddetto art. 8-sexies (introdotto proprio per disciplinare le conseguenze della sentenza n. 335 del 2008 della Corte costituzionale) reca due diverse disposizioni: al comma 1, stabilisce che, nei casi in cui manchino gli impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi, siano comunque dovuti dall’utente gli oneri relativi alle attività di progettazione e di realizzazione o completamento degli impianti “de quibus”, nonchè quelli relativi ai connessi investimenti, e ciò a partire dall’avvio delle procedure di affidamento delle prestazioni di progettazione o di completamento delle suddette opere; al comma 2, prevede che i gestori del servizio idrico integrato provvedano, a decorrere dal 1 ottobre 2009, ed entro il termine massimo di cinque anni, alla restituzione – anche rateale – della quota di tariffa non dovuta riferita all’esercizio del servizio di depurazione, fatta salva la deduzione degli oneri derivati dalle attività di progettazione, di realizzazione o di completamento già avviate.

Orbene, delle due disposizioni va data un’interpretazione coordinata, e soprattutto conforme a Costituzione, che porta ad escludere – per le ragioni di cui si dirà appena di seguito – che il decorso del quinquennio, a far data dal 1 ottobre 2009, si ponga come condizione di procedibilità della domanda restitutoria, secondo un’opzione ermeneutica fatta propria da una parte della giurisprudenza di merito, ma, per vero, mai esaminata “ex professo” da questa Corte negli arresti sopra menzionati (ovvero, Cass. Sez. 3, sent. n. 9323 del 2019, cit.; Cass. Sez. 3, sent. n. 8334 del 2017, cit. Cass. Sez. 3, sent. n. 19887 del 2015, cit.), limitatisi ad affrontare censure che concernevano, come detto, la questione dell’applicazione intertemporale delle predette disposizioni, e non la loro esatta interpretazione.

Orbene, nel procedere all’ermeneusi delle stesse si deve muovere dalla premessa che, ponendosi l’improcedibilità della domanda “quale conseguenza sanzionatoria di un comportamento procedurale omissivo, derivante dal mancato compimento di un atto espressamente configurato come necessario nella sequenza procedimentale”, la stessa “dev’essere espressamente prevista” (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 8 settembre 2017, n. 20975, Rv. 645551-01). Se è vero, infatti, che “l’art. 24 Cost., laddove tutela il diritto di azione, non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare “interessi generali”, con le dilazioni conseguenti” (così Corte Cost. n. 276 del 2000), resta, nondimeno, inteso che il rispetto del diritto costituzionale di azione non solo esige che la cd. “giurisdizione condizionata” sia oggetto di un’espressa previsione di legge, ma anche “che le condizioni di procedibilità stabilite dalla legge non possono esser aggravate da una interpretazione che conduca ad estenderne la portata” (così, in motivazione, Cass. Sez. Lav., sent. 21 gennaio 2004, n. 967, Rv. 569540-01).

Tanto premesso, deve, dunque, escludersi la possibilità di interpretare come introduzione di una condizione di procedibilità della domanda restitutoria la previsione (di cui al D.L. n. 208 del 2008, art. 8-sexies, comma 2, convertito in L. n. 13 del 2009) secondo cui i “gestori del servizio idrico integrato provvedono anche in forma rateizzata, entro il termine massimo di cinque anni, a decorrere dal 1 ottobre 2009, alla restituzione della quota di tariffa non dovuta riferita all’esercizio del servizio di depurazione”. La norma va piuttosto interpretata nel senso che i gestori possono dilazionare fino a cinque anni la restituzione, non solo erogando l’importo in forma rateale, ma eventualmente – come è tipico dei contratti di fornitura – “sub specie” di parziale compensazione con l’importo, comunque, dovuto per il complessivo servizio assicurato.

Per contro, ove tale riconosciuta possibilità di dilazione di pagamento tragga origine dalla necessità di dedurre, dal “quantum” del credito restitutorio spettante all’utente, gli oneri – a suo carico derivanti dalle attività, peraltro già avviate, di progettazione, di realizzazione o di completamento dell’impianto (secondo la previsione di cui al precedente comma 1 del medesimo art. 8-sexies), si è al cospetto di un’evenienza che, rendendo illiquido tale credito, si pone alla stregua di un fatto impeditivo del diritto alla restituzione azionato dall’utente, fatto, ovviamente, la cui prova è a carico del convenuto, secondo la regola di cui all’art. 2697 c.c., comma 2.

8.4. Il quinto motivo di ricorso principale – proprio in ragione dei rilievi appena sopra svolti – è, nuovamente, fondato.

8.4.1. La sentenza impugnata erra nell’affermare che gli odierni ricorrenti, “pur dolendosi del mancato funzionamento del depuratore di Cuma non hanno contestato che siano anche in corso attività di progettazione, di realizzazione o di completamento necessarie all’attivazione o all’adeguamento del servizio”, così da rendere non dovute “le somme riscosse”.

Così argomentando, infatti, il Tribunale di Napoli ha violato l’art. 2697 c.c., sotto il profilo dell’erroneo riparto dell’onere della prova in merito alle attività di progettazione, realizzazione o completamento dell’impianto di depurazione di cui al testè menzionato il D.L. n. 208 del 2008, art. 8-sexies, giacchè, trattandosi di fatto impeditivo della pretesa restitutoria, la prova dello stesso era a carico di chi lo aveva eccepito, non certo degli utenti.

9. Il ricorso incidentale condizionato va, invece, respinto.

9.1. Il primo ed il secondo motivo sono inammissibili.

9.1.1. Con riferimento, in particolare, al promo motivo, deve osservarsi che avendo il Tribunale di Napoli rigettato la domanda degli odierni ricorrenti principali sulla base dell’assorbente – ancorchè erroneo – rilievo del mancato assolvimento dell’onere di provare il fatto costitutivo del diritto azionato, lasciando sostanzialmente impregiudicata la questione della titolarità del diritto azionato, va dato, qui, seguito al principio secondo cui “è inammissibile per carenza di interesse il ricorso incidentale condizionato allorchè proponga censure che non sono dirette contro una statuizione della sentenza di merito bensì a questioni su cui il giudice di appello non si è pronunciato ritenendole assorbite, atteso che in relazione a tali questioni manca la soccombenza che costituisce il presupposto dell’impugnazione, salva la facoltà di riproporre le questioni medesime al giudice del rinvio, in caso di annullamento della sentenza” (da ultimo, Cass. Sez. 5, sent. 22 settembre 2017, n. 22095, Rv. 645632-01, nello stesso senso già Cass. Sez. 5, ord. 20 dicembre 2012, n. 23548, Rv. 625035-01).

9.2. Per le medesime ragioni è inammissibile anche il secondo motivo di ricorso incidentale, atteso che il Tribunale, nell’accogliere il gravame di ABC, mandandola – ancorchè erroneamente – assolta da ogni pretesa degli utenti il servizio idrico, non aveva ragione di pronunciarsi sulla domanda di manleva e/o regresso verso la Regione, che ha ritenuto assorbita.

Ricorre, dunque, l’ipotesi del cd. “assorbimento improprio”, ipotizzabile “quando la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande”, sicchè “l’assorbimento non comporta un’omissione di pronuncia (se non in senso formale) in quanto, in realtà, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell’assorbimento” (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 12 novembre 2018, n. 28995, Rv. 651580-01).

9.3. Il terzo motivo di ricorso incidentale, infine, non è fondato.

9.3.1. Esso, come visto, attiene al termine di prescrizione (o meglio, alla disciplina della prescrizione) applicabile al caso di specie.

Orbene, se – come si è detto – la pretesa restitutoria azionata trova titolo nella mancata esecuzione di una prestazione nascente dal contratto di utenza, con tale rilievo non è in contrasto l’applicazione del termine prescrizionale (decennale) previsto per la ripetizione dell’indebito, in luogo di quello – più breve – fissato per i crediti relativi a prestazioni periodiche dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4).

Si consideri, infatti, che questa Corte ha più volte affermato che “l’indebito oggettivo si verifica o perchè manca la causa originaria giustificativa del pagamento (“conditio indebiti sine causa”) o perchè la causa del rapporto originariamente esistente è poi venuta meno in virtù di eventi successivi che hanno messo nel nulla o reso inefficace il rapporto medesimo (“conditio ob causarti finitam”)”, e ciò secondo una “distinzione che risale al diritto romano”, e che “è ripresa dalla dottrina italiana, sulla base del nuovo testo dell’art. 2033 c.c., nel quale è stato trasfuso l’art. 1327 del codice abrogato (1865) che stabiliva il principio della inefficacia degli atti privi di una “causa solvendi”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 1 luglio 2005, n. 14084, Rv. 582690-01; in senso analogo già Cass. Sez. 3, sent. 20 dicembre 1974, n. 4378, Rv. 373059-01 e Cass. Sez. 3, sent. 22 settembre 1979, n. 4889, Rv. 401528-01).

Nondimeno, se l’ipotesi della “conditio ob causarti finitam” è ravvisabile, di regola, quando il credito risulti “venuto meno successivamente a seguito di annullamento, rescissione o inefficacia connessa ad una condizione risolutiva avveratasi” (Cass. Sez. 3, sent. 28 maggio 2013, n. 13207, Rv. 626695), a tali evenienze va equiparata quella verificatasi nel caso che occupa, ovvero la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma disciplinante la quota di tariffa, del corrispettivo previsto per il servizio idrico, destinata a remunerare il servizio di depurazione, giacchè è essa ad aver reso “indebito”, addirittura con effetto “ex tunc”, tale pagamento.

Il tutto, peraltro, senza tacere del fatto che la prescrizione breve di cui all’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4), si applica solo alle azioni volte ad ottenere il pagamento, in esecuzione di contratti di durata, di somme che presentino il carattere della periodicità, e non – come nella specie – di un importo dovuto a titolo di restituzione e in unica soluzione. La previsione suddetta, infatti, “riguarda prestazioni che maturano con il decorso del tempo e che, pertanto, divengono esigibili solo alle scadenze convenute, giacchè costituiscono il corrispettivo della controprestazione resa per i periodi ai quali i singoli pagamenti si riferiscono”, con la conseguenza che “detta prescrizione si giustifica, quindi, sia in ragione della continuità del rapporto che richiede e consente un accertamento in tempi relativamente brevi dell’avvenuta esecuzione delle singole prestazioni, sia perchè l’eventuale prescrizione di una singola prestazione non pregiudica il diritto all’adempimento delle rimanenti, per le quali la prescrizione non sia compiuta” (Cass. Sez. 3, sent. 30 gennaio 2008, n. 2086, Rv. 601285-01).

10. All’accoglimento dei motivi primo, secondo e quinto del ricorso principale segue la cassazione, in relazione, della sentenza impugnata, con rinvio al Tribunale di Napoli, in persona di diverso giudice, perchè decida nel merito, conformandosi ai seguenti principi di diritto:

“la pretesa azionata dagli utenti del servizio idrico, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 10 ottobre 2008, per la restituzione delle somme erogate quale quota, del complessivo corrispettivo, dovuta a titolo di canone per depurazione acque, va indirizzata nei confronti del soggetto con cui sia stato concluso il contratto di utenza”;

“nel giudizio sulla domanda di restituzione delle somme erogate quale quota, del complessivo corrispettivo del servizio idrico, dovuta a titolo di canone per depurazione acque, la prova del funzionamento dell’impianto di depurazione va fornita dal soggetto con il quale gli utenti abbiano concluso il contratto di utenza”;

“ai fini della detrazione, dal “quantum” del credito restitutorio spettante agli utenti in relazione al pagamento della quota, del complessivo corrispettivo del servizio idrico, dovuta a titolo di canone per depurazione acque, gli oneri derivanti dalle attività di progettazione, di realizzazione o di completamento dell’impianto di depurazione (secondo la previsione di cui al D.L. 30 dicembre 2008, n. 208, art. 8-sexies, comma 1, convertito in L. 27 febbraio 2009, n. 13), debbono essere provati dal soggetto convenuto in giudizio per la restituzione, ex art. 2697 c.c., comma 2, trattandosi di fatto impeditivo della pretesa restitutoria”.

11. Le spese del presente giudizio saranno liquidate all’esito del giudizio di rinvio.

12. A carico della ricorrente incidentale, stante il rigetto dell’impugnazione, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, il secondo e il quinto motivo del ricorso principale, rigettando il terzo e il quarto, e respinge il ricorso incidentale, cassando, in relazione, la sentenza impugnata e rinviando al Tribunale di Napoli, in persona di diverso giudice, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo Introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo un ficato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica Ldienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 13 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020

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