Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11585 del 15/06/2020

Cassazione civile sez. III, 15/06/2020, (ud. 13/12/2019, dep. 15/06/2020), n.11585

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1361-2019 proposto da:

D.F., D.M.R., G.E. quale avente

causa da G.G., D.G., M.B.,

V.V., M.I. quale avente causa da M.P.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA G. B. MARTINI 2, presso lo

studio dell’avvocato LILIANA BELLECCA, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI NAPOLI in persona del Sindaco p.t., elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA APPENNINI 46, presso lo studio

dell’avvocato FABIO MARIA FERRARI, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

nonchè contro

ABC ACQUA BENE COMUNE NAPOLI AZIENDA SPECIALE, REGIONE CAMPANIA;

– intimata –

Nonchè da:

REGIONE CAMPANIA in persona del legale rappresentante Presidente

p.t., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POLI 29, presso la

REGIONE CAMPANIA UFFICIO RAPPRESENTANZA, rappresentato e difeso

dall’avvocato ANNA CARBONE;

– ricorrente incidentale –

contro

V.V., M.I., M.B., G.E.,

D.F., D.M.R., D.G., COMUNE DI NAPOLI,

ABC ACQUA BENE COMUNE NAPOLI AZIENDA SPECIALE;

– intimati –

Nonchè da:

A.B.C. ACQUA BENE COMUNE NAPOLI AZIENDA SPECIALE in persona del

Direttore e Legale Rappresentante, elettivamente domiciliata in VIA

CALABRIA 56, VIA RIVIERA DI CHIAIA 180, presso lo studio

dell’avvocato ERNESTO CESARO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente incidentale –

contro

V.V., D.F., G.E., D.G.,

D.M.R., M.B., M.I., COMUNE DI NAPOLI,

REGIONE CAMPANIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 8045/2018 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata

il 20/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/12/2019 dal Consigliere Dott. GIAIME GUIZZI STEFANO;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale CARDINO ALBERTO, che ha chiesto

l’accoglimento dei motivi secondo e quarto dei ricorso principale di

V.V. + 6 e il rigetto del ricorso incidentale di Regione

Campania. Assorbito il ricorso incidentale condizionato di A.B.C. –

Acqua Bene Comune Napoli, Azienda Speciale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO ALBERTO che ha concluso per l’accoglimento dei motivi 2 e 4

del ricorso principale di V.V. + 6; rigetto ricorso

incidentale di Regione Campania; assorbito il ricorso incidentale

condizionato di ABC;

udito l’Avvocato LILIANA BELLECCA;

udito l’Avvocato MASSIMO CESARO per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. V.V., + ALTRI OMESSI ricorrono, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 8045/18, del 19 settembre 2018, del Tribunale di Napoli, che – riformando la sentenza n. 27978/13, del Giudice di Pace di Napoli, in parziale accoglimento sia del gravame principale, che di quello incidentale, esperiti, rispettivamente, dall’Azienda Speciale A.B.C. – Acqua Bene Comune Napoli (d’ora in poi, ABC) e dalla Regione Campania – ha rigettato la domanda degli odierni ricorrenti volta a conseguire la restituzione delle somme dagli stessi versate a titolo di corrispettivo per la depurazione acque, in relazione alla fornitura del servizio idrico.

2. Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti che V.V. ebbe a convenire in giudizio ABC, unitamente al Comune di Napoli, sul presupposto che la Corte costituzionale, con sentenza n. 335 del 10 ottobre 2008, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 14, comma 1, nonchè del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 155, comma 1, nella parte in cui prevedevano che tale quota della tariffa del servizio idrico fosse dovuta anche nel caso in cui “manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi”; declaratoria di illegittimità costituzionale motivata sul rilievo che, nell’ipotesi suddetta, l’obbligo di pagamento risultava non correlato ad alcuna controprestazione.

Su tali basi, nonchè deducendo che l’impianto di depurazione sito a Cuma era “obsoleto e non funzionante”, secondo quanto risultante dalla documentazione prodotta in giudizio, ella agiva per la ripetizione dell’indebito, come detto, nei confronti di ABC e del Comune di Napoli.

Costituitisi in giudizio, entrambi i convenuti si opponevano – sulla base di varie difese ed eccezioni – all’accoglimento della domanda attorea, ABC essendo anche autorizzata a chiamare in causa la Regione Campania, la quale, a propria volta, chiedeva (senza, però, che l’adito Giudice di pace provvedesse in tal senso) l’integrazione del contraddittorio nei confronti della società Hydrogest Campania S.p.a., ovvero l’affidataria del servizio di depurazione.

Spiegavano, inoltre, atto di intervento adesivo autonomo gli altri soggetti odierni ricorrenti, che formulavano anch’essi domanda di restituzione di quanto versato quale quota per depurazione acque nell’ambito corrispettivo erogato per la fruizione del servizio idrico.

Ciò detto, i ricorrenti riferiscono che l’adito giudicante accoglieva la domanda attorea, condannando ABC e la Regione Campania (nei cui confronti la domanda era stata estesa da attori e intervenienti), ma non anche il Comune di Napoli, alla restituzione delle somme suddette, con decisione, di seguito, integralmente riformata dal Tribunale di Napoli che, in funzione di giudice d’appello, accoglieva il gravame principale di ABC e quello incidentale della Regione Campania.

3. Avverso la sentenza del Tribunale partenopeo ricorrono per cassazione i già appellati, sulla base – come detto – di cinque motivi.

3.1. Il primo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 1705 e 2033 c.c. “in ordine al preteso e dichiarato difetto di legittimazione passiva” di ABC.

Si censura la sentenza impugnata laddove, come detto, ha escluso la legittimazione passiva di ABC, pervenendo a tale conclusione sul rilievo che essa, sebbene gestore dell’intero servizio idrico, provvede a ripartire il corrispettivo ricevuto in tre quote, rispettivamente, per il consumo dell’acqua potabile, per il servizio di fognatura, e per quello di depurazione, attribuendo, in particolare, quest’ultima quota alla Regione Campania, che si pone, pertanto, come destinataria “ex lege” di tale quota della tariffa. Essa soltanto, quindi, e non ABC, risulta – secondo la sentenza impugnata legittimata passivamente rispetto alla domanda restitutoria avanzata dagli odierni ricorrenti. E ciò alla stregua del principio secondo cui la legittimazione passiva rispetto all’azione di ripetizione dell’indebito compete al soggetto cui è legalmente dovuto il pagamento effettuato, anche se l’incasso della somma sia avvenuto, come nella specie, tramite un incaricato alla riscossione.

Deducono, al riguardo, gli odierni ricorrenti l’assenza di prova che ABC abbia agito quale mandataria con rappresentanza della Regione Campania, risultando, dunque, non pertinente il principio richiamato dalla sentenza impugnata.

Per contro, ABC ha preteso il pagamento, da ciascuno degli odierni ricorrenti, in forza del contratto di utenza con gli stessi stipulato, donde l’operatività del principio secondo cui il carattere personale dell’azione di ripetizione rende la stessa esperibile solo nei confronti del destinatario del pagamento che abbia ricevuto la somma (o la cosa) che si assume non dovuta, essendo l’azione restitutoria circoscritta ai rapporti fra “solvens” e “accipiens”.

3.2. Il secondo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), – violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2729 c.c., oltre che del principio di diritto vivente della distribuzione dell’onere della prova alla luce del criterio della “vicinanza della prova”; la sentenza è, inoltre, censurata in ordine all’affermata assenza di prova del mancato funzionamento del depuratore delle acque e all’omesso esame di fatti e documenti forniti dai ricorrenti, quali elementi decisivi per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

La sentenza del Tribunale partenopeo è, in questo caso, censurata laddove ha ravvisato, nella decisione del giudice di prime cure, una cattiva applicazione dell’istituto del fatto notorio, non avendo il Giudice di pace considerato che esso va inteso in senso rigoroso, come fatto acquisito alla conoscenza della collettività, con tale grado di certezza da apparire incontestabile. Nel pervenire a tale conclusione, tuttavia, il giudice d’appello non avrebbe fatto applicazione corretta dei principi in materia di onere della prova, non tenendo conto che, a prescindere dal riferimento al fatto notorio, il giudice di prime cure aveva, comunque, concluso nel senso che parte attrice aveva “provato documentalmente l’omesso e/o insufficiente funzionamento del depuratore di Cuma”.

Invero, gli odierni ricorrenti insistono nel sottolineare l’esistenza di prova documentale in ordine alla inefficienza – totale o parziale del depuratore, ciò che a loro dire ha comportato, indubitabilmente, la mancata erogazione del servizio. Verrebbero in rilievo, in tal senso, innanzitutto gli atti del procedimento penale, avviato dalla Procura della Repubblica di Napoli in relazione allo stato dell’impianto di depurazione di Cuma, ed esattamente la relazione peritale disposta in tale sede e la sentenza n. 4351, resa dalla sezione distaccata di Pozzuoli del Tribunale partenopeo il 19 marzo 2009. A tali documenti dovrebbe aggiungersi, poi, la dichiarazione resa alla stampa dal direttore generale dell’Arpac, il 25 aprile 2009, che confermerebbe come tutti i depuratori della Regione Campania, ad eccezione di quello di Sarno, non sarebbero risultati adeguati, non essendo in grado di rispettare l’insieme dei parametri previsti dalla legge. Analogamente, dovrebbe dirsi per le innumerevoli denunce relative al malfunzionamento, o mancato funzionamento, del depuratore di Cuma.

Conseguentemente, il Tribunale avrebbe errato laddove ha totalmente omesso di analizzare la copiosa documentazione versata in atti, violando e facendo falsa applicazione del disposto normativo dell’art. 2697 c.c..

A ciò si aggiunga, sempre secondo i ricorrenti, che controparte non ha mai contestato tale documentazione, sicchè la decisione impugnata, sempre sotto il profilo dell’onere della prova, si pone in patente contrasto con il principio di non contestazione di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c..

Quand’anche, poi, dette prove non fossero considerate come fonte di convincimento, esse assurgerebbero, in ogni caso, al rango di presunzioni gravi precisi e concordanti, sicchè l’impugnata decisione del Tribunale si pone in contrasto anche con l’art. 2729 c.c..

Infine, il Tribunale avrebbe errato nel disapplicare il principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, della cosiddetta “vicinanza della prova”. Infatti, nel caso di specie, il cd. “onus probandi”, a carico di chi era tenuto a provare un fatto negativo (ovvero, l’inesistenza della “causa debendi”), andava mitigato con quello di vicinanza della prova, al fine di evitare di esigere dall’attore la prova della inesistenza di qualsiasi titolo giustificativo del pagamento intercorso tra “solvens” e “accipiens”.

In conclusione, il Tribunale partenopeo avrebbe erroneamente ritenuto che il Giudice di pace abbia operato un’inversione dell’onere della prova e chi si sia basato su di un “fatto notorio”, laddove la decisione di primo grado aveva correttamente valutato le risultanze processuali, senza incorrere in alcun errore, essendo stato, per contro, il giudice di appello a realizzare violazione e falsa applicazione dei principi fissati dall’art. 2697 c.c. e dagli artt. 115 e 116 c.p.c., oltre che del principio della “vicinanza della prova” nella distribuzione del relativo onere.

3.3. Il terzo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 11 disp. prel. c.c., e ciò in ordine alla ritenuta applicazione retroattiva del D.L. 30 dicembre 2008, n. 208, art. 8-sexies, convertito in L. 27 febbraio 2009, n. 13.

Si censura la sentenza impugnata laddove, per un verso, ha ritenuto che fossero essi ricorrenti a dover provare l’incidenza, sul proprio credito restitutorio, degli oneri relativi all’attività di progettazione, realizzazione o completamento degli impianti di depurazione, previsti dalla norma suddetta come dovuti, in ogni caso, dagli utenti, sicchè costoro sarebbero tenuti a sopportare – sotto forma di rigetto della domanda di ripetizione – le conseguenze della mancata concreta determinazione di tali oneri.

Si assume, infatti, come la norma “de qua” non sia applicabile, “ratione temporis”, alla quasi totalità dei rapporti di utenza oggetto di giudizio, visto che i corrispettivi dei quali è stata chiesta la restituzione risalgono, nella quasi totalità dei casi, a periodi anteriori all’entrata in vigore della legge suddetta.

3.4. Il quarto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), – violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., oltre che del principio di diritto vivente della distribuzione dell’onere probatorio alla luce del criterio della “vicinanza della prova”, e ciò riferimento agli oneri relativi all’attività di progettazione, realizzazione, o completamento degli impianti di depurazione; si ipotizza, altresì, omesso esame di fatti e documenti forniti dai ricorrenti quali elementi decisivi per il giudizio.

Secondo i ricorrenti, quand’anche si ritenesse applicabile retroattivamente la norma suddetta, l’onere della prova in merito alle attività di progettazione, realizzazione o completamento dell’impianto di depurazione gravava sulle parti convenute, le quali non lo hanno assolto.

Se è vero, infatti, che le posizioni assunte dal convenuto, per contrapporsi alla domanda attorea, oltre che in mere difese, ovvero nella negazione dei fatti costitutivi del diritto azionato, possono sostanziarsi nella contrapposizione di altri fatti, che privino di efficacia i primi, ovvero li modifichino, la loro prova, come nel caso in esame, incombe pur sempre sulla parte che li eccepisca.

Nel caso che occupa, i ricorrenti assumono di aver dimostrato il “cattivo funzionamento dell’impianto di depurazione di Cuma”, sicchè l’esistenza di progetti di rifunzionalizzazione e gli eventuali costi a necessari all’attuazione degli stessi dovevano essere provati dalle convenute.

Errata, inoltre, sarebbe l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui i documenti prodotti dagli allora attori si limiterebbero solo evidenziare una serie di criticità e disfunzioni del depuratore, giacchè tale affermazione sarebbe scaturita da una superficiale ed erronea valutazione della documentazione versata in atti (e della quale si è già detto), documentazione che il Tribunale avrebbe dovuto, invece, esaminare secondo il già richiamato principio della vicinanza della prova.

3.5. Il quinto motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., anche come riformulato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 2018.

I ricorrenti si dolgono della decisione del Tribunale di Napoli di non disporre la compensazione delle spese di lite, quantunque l’art. 92 c.p.c., comma 2, (come dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte delle leggi) consenta una simile pronuncia anche in caso di sussistenza di altre gravi e ed eccezionali ragioni, rispetto a quelle costituite dalla assoluta novità delle questioni trattate ed al mutamento della giurisprudenza.

Il giudice d’appello, in particolare, non avrebbe tenuto conto dell’esistenza, all’interno dello stesso Tribunale di Napoli, di un difforme orientamento in ordine alla questione della ripetibilità delle somme corrisposte quale compenso per l’attività di depurazione acque, in caso di assenza dell’impianto o di interruzione del suo funzionamento.

4. Ha proposto controricorso la Regione Campania, per resistere all’avversaria impugnazione, salvo che in relazione al suo primo motivo, rispetto al quale ha aderito con “ricorso incidentale”.

Condivisibile, infatti, è ritenuta la censura volta a riconoscere in capo ad ABC la legittimazione passiva rispetto all’esperita azione di ripetizione dell’indebito, evidenziandosi come il giudice di appello, pur inquadrando l’oggetto della domanda nella fattispecie dell’indebito oggettivo, sarebbe pervenuto ad una decisione contraria alle norme che lo regolano,ove si consideri il carattere personale della azione di ripetizione, esperibile solo nei confronti del destinatario del pagamento che abbia ricevuto la somma (o la cosa) che si assume non dovuta. Difatti, come costantemente suole dirsi, l’azione restitutoria è circoscritta ai rapporti fra “solvens” e “accipiens”, non potendo porsi come legittimato passivo chi tragga vantaggio dalla destinazione che il cd. “accipiens” abbia eventualmente dato alla somma ricevuta.

Il tutto, infine, non senza notare come l’azione di ripetizione dell’indebito, quale azione di nullità per difetto di causa, deve essere esclusa nella presente ipotesi, giacchè le somme versate non possono ritenersi indebite, visto che l’esistenza del depuratore non è mai stata messa in discussione, ma si è dedotto solo il suo inefficiente funzionamento, ovvero un fatto non idoneo a giustificare la pretesa restitutoria, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza costituzionale.

Quanto alle restanti censure formulate dai ricorrenti, se ne assume la non fondatezza.

Si contesta, in particolare, la pretesa dei ricorrenti – che integrerebbe una vera e propria inversione dell’onere della prova – di porre a carico della Regione (e di ABC) la dimostrazione dell’avvenuto espletamento del servizio di depurazione. Per contro, si ribadisce come l’azione di ripetizione dell’indebito presupponga la prova non solo dell’avvenuto pagamento, ma pure della inesistenza (o del venir meno) della “causa debendi”, ponendosi entrambi alla stregua di fatti costitutivi della pretesa restitutoria.

Gli attori, dunque, avrebbero dovuto provare il mancato funzionamento del depuratore di Cuma, non potendo neppure fare riferimento al “fatto notorio”, dovendo esso intendersi in senso rigoroso, come fatto acquisito alla conoscenza della collettività, con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile.

5. Ha proposto controricorso anche ABC, sia per resistere all’avversaria impugnazione, che per proporre ricorso incidentale condizionato, basato su tre motivi.

5.1. In relazione, in particolare, al primo motivo di impugnazione, si sottolinea come la pretesa degli odierni ricorrenti di ripetere, nei suoi confronti, quanto pagato quale corrispettivo per depurazione acque trovi titolo in un inadempimento contrattuale, e dunque in un fatto ad essa non ascrivibile.

Infatti, ABC, essendosi solo limitata a riscuotere le somme per conto dell’ente erogatore, il Comune di Napoli (e della Regione Campania, quanto alla quota per la depurazione delle acque), assume di non poter essere ritenuta responsabile delle disfunzioni dell’impianto e, dunque, di non dover rispondere delle stesse.

Troverebbe, infatti, applicazione il principio – affermato da questa Corte – secondo cui, “in caso di ripetizione di indebito oggettivo proposto nei confronti del concessionario del servizio di riscossione, legittimato passivo è, in qualità di effettivo “accipiens”, l’ente impositore del credito e non il precedente alla riscossione”, giacchè quest’ultimo ha agito “quale concessionario per la riscossione sulla base di ruoli formati dall’ente impositore che rimane titolare del credito ed al quale la le somme riscosse vanno versate dallo stesso concessionario”.

La controricorrente/ricorrente incidentale assume, inoltre, che il secondo motivo di ricorso – oltre che inammissibile, perchè diretto a sollecitare una rinnovata, e non consentita, rivalutazione del materiale probatorio – sarebbe, comunque, non fondato. Difatti, occorrerebbe distinguere l’ipotesi della inesistenza dell’impianto di depurazione da quella della temporanea interruzione del servizio, giacchè solo nel primo caso è prospettabile un indebito oggettivo, visto che nel secondo sarebbe, al più, ipotizzabile una responsabilità di natura contrattuale per inadempimento delle prestazioni afferenti la gestione dell’impianto stesso. In altri termini, gli attori, sebbene abbiano fatto riferimento all’art. 2033 c.c., avrebbero, nella sostanza, azionato una responsabilità civile per inadempimento, visto che la ripetizione di indebito è prospettabile solo quando il vincolo contrattuale non sia mai sorto, o sia venuto meno (anche per effetto di caducazione), e non quando, come nella specie, si verta in tema di inesatto adempimento di una prestazione ricompresa nel contratto di somministrazione. Di conseguenza, l’accoglimento della domanda avrebbe richiesto, in un con la prova del contratto di utenza, l’accertamento dell’inadempimento colpevole del debitore. Corretta, inoltre, sarebbe la decisione del Tribunale di Napoli di non ravvisare un “fatto notorio” nel malfunzionamento dell’impianto di Cuma, giacchè il “notorio” va inteso in senso rigoroso, come fatto acquisito alla conoscenza della collettività, con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile. In difetto di tali presupposti spettava agli attori, odierni ricorrenti, dimostrare, al limite anche richiedendo lo svolgimento di una consulenza tecnica d’ufficio, in quali circostanze e per quanto tempo l’impianto rimase fermo e privo di qualsivoglia funzionalità operativa. Prova, tuttavia, che ben difficilmente si sarebbe potuto raggiungere, visto che la documentazione in atti dimostra, per contro, come l’impianto fosse funzionante.

Quanto ai motivi terzo e quarto, se l’uno appare addirittura inammissibile, giacchè la questione da esso posta sarebbe stata sollevata, per la prima volta, in sede di legittimità (al netto, comunque, della sua infondatezza, per avere questa Corte già affermato che l’applicazione retroattiva del D.L. n. 208 del 2008, art. 8-sexies, convertito in L. n. 13 del 2009, “è implicita nella sua “ratio””), il secondo sarebbe, invece, non fondato. Infatti, il citato art. 8-sexies ha stabilito che gli oneri relativi alle attività di progettazione e di realizzazione e completamento degli impianti di depurazione, nonchè quelli relativi ai connessi investimenti, come espressamente individuati e programmati dai piani d’ambito, costituiscono una componente vincolata delle tariffe del servizio idrico, che concorre alla fissazione del corrispettivo dovuto dall’utente. Su tali basi, pertanto, il Ministero delle Finanze ha chiarito che la tariffa per il servizio di fognatura e depurazione è dovuta da tutti coloro che risultano allacciati alla pubblica fognatura, indipendentemente dall’effettivo utilizzo. Ciò detto, in attesa del compimento di tutte quelle attività, demandate al gestore e all’Autorità d’ambito, il credito restitutorio avanzato da ciascuno degli utenti del servizio idrico che hanno agito nel presente giudizio risulta privo delle caratteristiche della certezza, liquidità ed esigibilità, donde la non fondatezza della loro pretesa.

Infine, non fondato sarebbe il quinto ed ultimo motivo di ricorso, non solo perchè il Tribunale di Napoli avrebbe fatto corretta applicazione del principio di soccombenza, ma anche perchè al presente giudizio (essendo stato instaurato prima dell’entrata in vigore del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, in L. 10 novembre 2014, n. 162) si applica, “ratione temporis”, il testo dell’art. 92 c.p.c., comma 2, che subordinava all’esistenza di “gravi ed eccezionali ragioni” la possibilità della compensazione.

5.2. Quanto al ricorso incidentale condizionato, esso si articola su tre motivi.

5.2.1. Il primo motivo ipotizza nullità della sentenza o del procedimento per omessa pronuncia sul motivo di gravame relativo alla carenza di titolarità in capo all’attore e ai terzi interventori ex artt. 75,81,100 e 112 c.p.c..

Si censura la sentenza impugnata laddove avrebbe omesso ogni decisione sul motivo di gravame, proposto dall’odierna ricorrente, volto a dimostrare il difetto di legittimazione attiva dell’attrice e degli interventori (o meglio, di titolarità attiva del rapporto controverso), avendo, in particolare, il Tribunale di Napoli affermato che costoro hanno provato l’esistenza del rapporto di utenza producendo le “bollette-fatture periodiche” con le quali era stato “richiesto ed ottenuto il pagamento del corrispettivo per il servizio idrico”.

Orbene, sul rilievo che la legittimazione attiva – o meglio, la titolarità dal lato attivo del rapporto dedotto in giudizio – deve essere provata dall’attore, e che la sua mancanza è rilevabile anche d’ufficio dal giudice (pure in sede di legittimità; Cass. Sez. Un., sent. 16 febbraio 2016, n. 2951), la ricorrente si duole del fatto che in un caso, come quello presente, in cui era stata contestata dal convenuto l’esistenza del rapporto contrattuale, era onere degli attori fornire prova dello stesso, all’uopo non potendosi ritenere sufficienti le fatture prodotte in giudizio, essendo inidonee a tale scopo.

Il tutto, poi, senza tacere del fatto che tale difetto di titolarità attiva del rapporto non è stato rilevato neppure d’ufficio dal giudice, il quale, anzi, avrebbe valutato in modo carente gli elementi probatori acquisiti, visto che agli atti di causa non risultavano depositati nè il contratto, nè le fatture (intestate a soggetti terzi), nè le corrispondenti ricevute di pagamento.

5.2.2. Il secondo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 4), – violazione e falsa applicazione degli artt. 1292,1298,1299 e 2055 c.c., oltre che degli artt. 32,106 e 112 c.p.c., in relazione al mancato accoglimento della domanda di manleva e/o di regresso nei confronti della Regione Campania e della società Hydrogest, della quale Regione aveva richiesto, senza esservi autorizzata, la chiamata in causa.

In particolare, la sentenza impugnata viene censurata laddove, sebbene abbia escluso la responsabilità di essa ABC, nulla ha statuito in ordine all’eccepita responsabilità esclusiva della Regione Campania e della Hydrogest, e alla relativa richiesta di manleva e/o regresso avanzata nei loro confronti, con le quali l’odierna ricorrente incidentale non aveva inteso riversare, su detti soggetti, le conseguenze di un “proprio” inadempimento o/e fatto illecito, bensì individuare altro soggetto “corresponsabile”, come tale, pertanto, effettivamente e direttamente tenuto alla prestazione pretesa dagli attori. La Regione Campania, infatti, è la proprietaria dell’impianto di Cuma, la società Hydrogest è l’affidataria del servizio di depurazione.

5.2.3. Il terzo motivo ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e n. 5), – violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 c.c. e art. 2948 c.c., comma 1, n. 4), in merito alla prescrizione del diritto ad ottenere la restituzione delle somme versate, censura proposta anche sotto forma di nullità processuale, oltre che di vizio motivazionale.

Ribadisce la ricorrente che, nel caso di specie, si controverte non in ordine alla ripetizione di un indebito, ma dell’inadempimento di una prestazione del contratto di somministrazione, sicchè il termine di prescrizione non può essere quello decennale, bensì quello previsto per i crediti relativi a prestazioni periodiche dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4).

6. Ha proposto controricorso anche il Comune di Napoli, resistendo all’avversaria impugnazione.

Il controricorrente si limita ad evidenziare come la statuizione del Giudice di pace, che aveva escluso la legittimazione passiva di esso Comune, non sia stata oggetto di gravame da parte degli odierni ricorrenti, innanzi al Tribunale partenopeo, neppure nelle forme dell’appello incidentale condizionato, sicchè essa deve ritenersi passata in giudicato.

Dal momento, tuttavia che con il quinto ed ultimo motivo di ricorso principale sembrerebbe essere stata richiesta la condanna di tutte le controparti al pagamento delle spese di giudizio, il predetto controricorrente reputa di dover prendere posizione in ordine a tale censura, sottolineandone l’inammissibilità.

Difatti, ad avviso del controricorrente, per effetto del già segnalato intervento manipolativo della Corte costituzionale sul testo dell’art. 92 c.p.c., comma 2, risulterebbe possibile procedere alla compensazione delle spese, anche nell’ipotesi, non (più) tipizzata, della ricorrenza di “altre ed analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.

Siffatta evenienza, tuttavia, non ricorrerebbe nel caso di specie, dovendo ritenersi il contrasto di giurisprudenza interno al Tribunale di Napoli sulla questione oggetto del presente giudizio un’evenienza del tutto fisiologica.

7. I ricorrenti principali e la ricorrente incidentale ABC hanno presentato memoria ex art. 378 c.p.c., insistendo nelle rispettive argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. Il ricorso principale non è fondato.

8.1. Va preliminarmente esaminato il secondo motivo di ricorso, e ciò in applicazione del principio cd. “della ragione più liquida”, secondo cui, pure nel giudizio di legittimità, la decisione va adottata “sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, anche se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c.” (così, da ultimo, Cass. Sez. 5, ord. 9 gennaio 2019, n. 363, Rv. 652184-01; Cass. Sez. 5, sent. 11 maggio 2018, n. 11458, Rv. 648510-01).

8.1.1. Il motivo è, infatti, inammissibile, per le ragioni di seguito indicate.

8.1.2. Con la sua proposizione, si contesta la sentenza impugnata, con varie censure, nella parte in cui ha ritenuto non provata quella “inefficienza del depuratore, totale o parziale”, che – a dire dei ricorrenti – “comporta indiscutibilmente la mancata erogazione del servizio di depurazione”, e con esso il presupposto in forza del quale gli utenti del servizio idrico potevano pretendere la restituzione di quanto pagato, quale quota del corrispettivo complessivamente versato, a titolo di tariffa per depurazione acque.

Sul punto, invero, occorre muovere dal presupposto che la mancata depurazione delle acque integra, a tutti gli effetti, l’inadempimento di una prestazione nascente dal contratto di utenza relativo alla fornitura del servizio idrico, sicchè – in applicazione degli ordinari principi sulla ripartizione dell’onere della prova operanti in materia di responsabilità contrattuale – il creditore della prestazione non eseguita ha solo l’onere “provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento” (da ultimo, tra le molte, Cass. Sez. 3, sent. 20 gennaio 2015, n. 826, Rv. 634361-01). D’altra parte, proprio con riferimento specifico alla presente fattispecie, si è ritenuto che, configurandosi “la tariffa del servizio idrico integrato, in tutte le sue componenti, come il corrispettivo di una prestazione commerciale complessa, è il soggetto esercente detto servizio, il quale pretenda il pagamento anche degli oneri relativi al servizio di depurazione delle acque reflue domestiche, ad essere tenuto a dimostrare l’esistenza di un impianto di depurazione funzionante nel periodo oggetto della fatturazione, in relazione al quale esso pretenda la riscossione” (Cass. Sez. 3, sent. 4 giugno 2013, n. 14042, Rv. 626790-01).

Tali rilievi, tuttavia, non giovano agli odierni ricorrenti, atteso che la censura formulata con il motivo di impugnazione qui in esame, lungi dallo stigmatizzare la violazione della regola sul riparto dell’onere della prova, investe, in definitiva, l’apprezzamento che del materiale probatorio ha fatto il Tribunale di Napoli, e con esso la conclusione raggiunta – almeno con riferimento al periodo cui si riferivano le prestazioni fruite dagli utenti, odierni ricorrenti – in ordine alle condizioni del depuratore di Cuma. Difatti, si legge nella sentenza impugnata, che la documentazione acquisita al giudizio si limita “ad evidenziare l’esistenza di una serie di criticità ed inefficienze anche gravi di un impianto di depurazione che, pur abbisognando di una serie di ammodernamenti e di riparazioni per poter garantire un trattamento adeguato dei reflui ed il rispetto della normativa vigente per quanto concerne la qualità degli scarichi, viene tuttavia individuato come in esercizio risultando perciò in grado di assicurare, sia pure in via parziale e non ottimale, il servizio per cui è controversia”.

8.1.3. Cosi ricostruita la “ratio decidendi” della sentenza impugnata (la quale ha escluso, in definitiva, la ricorrenza di quella situazione di “assoluta inefficienza dell’impianto” che sarebbe stata del tutto sovrapponibile a quella di “temporanea inattività” dello stesso, risultando così idonea, al pari di essa, a giustificare la pretesa restitutoria che trova origine nell’intervento caducatorio del Giudice delle leggi), risulta evidente come nessuna delle doglianze dei ricorrenti, oggetto del secondo motivo di ricorso, colga nel segno.

Infatti, in relazione alla prima di esse – violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., – va data, qui, continuità al principio secondo cui l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4), – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458).

Quanto, invece, alla lamentata violazione del principio di non contestazione, la censura non soddisfa i requisiti di ammissibilità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), visto che in base a tale norma una censura siffatta esige che il ricorrente, anche attraverso la riproduzione testuale di stralci dei precedenti scritti defensionali, propri e della controparte, abbia provveduto ad “indicare la sede processuale di adduzione delle tesi ribadite o lamentate come disattese” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 9 agosto 2016, n. 16655, Rv. 641486-01), oltre che ad “indicare specificamente il contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori atti difensivi, evidenziando in modo puntuale la genericità o l’eventuale totale assenza di contestazioni sul punto” (cfr. Cass. Sez. 6-3, ord. 22 maggio 2017, n. 12840, Rv. 644383-01); condizioni, queste, non soddisfatte nel presente caso.

Nè, infine, è ipotizzabile la violazione dell’art. 2697 c.c., essendo tale evenienza “configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5)” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01).

Ma neppure sotto questo ultimo profilo la censura potrebbe essere accolta, anzi, risulta addirittura ammissibile.

Sul punto, infatti, va rammentato che, a i sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).

Lo scrutinio di questa Corte è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-0), o perchè affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

Ora, nessuna “irriducibile contraddittorietà” può imputarsi al giudice di appello, nell’aver affermato che, essendo l’impianto di Cuma “in esercizio” (pur in presenza di “una serie di criticità ed inefficienze, anche gravi”), non potesse ritenersi integrata quelle fattispecie della sua “mancanza” o “temporanea inattività”, idonee a giustificare – ai sensi della sentenza n. 335 del 2008 della Corte costituzionale – la pretesa restitutoria avanzata dagli utenti.

8.2. La declaratoria di inammissibilità del motivo di ricorso che investe il presupposto fondante l’azione restitutoria (giacchè, lo si ribadisce, essa è esige che “manchino” gli impianti di depurazione o che “siano temporaneamente inattivi”, ipotesi, quest’ultima, la cui ricorrenza è stata esclusa dal Tribunale partenopeo, con giudizio fattuale non sindacabile in questa sede), esime questa Corte dal dover esaminare, in applicazione del sopra richiamato principio della “ragione più liquida”, i motivi primo, terzo e quarto del ricorso principale, giacchè il loro eventuale accoglimento non potrebbe in nessun caso condurre al soddisfacimento della pretesa azionata dagli odierni ricorrenti.

8.3. Non fondato, infine, è il quinto motivo del ricorso principale, il – solo autonomamente scrutinabile, perchè relativo alla regolamentazione delle spese di lite.

8.3.1. Trova, infatti, applicazione il principio secondo cui, “in tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi” (Cass. Sez. 5, ord. 31 marzo 2017, n. 8421, Rv. 643477-02).

9. Il ricorso incidentale condizionato di ABC – e, con esso, quello incidentale della Regione Campania (avendo essa aderito, quanto al tema della titolarità, dal lato passivo, del rapporto controverso, al primo motivo di ricorso principale) – resta assorbito dal rigetto di quello principale.

10. Infine, le spese del presente giudizio vanno integralmente compensate tra tutte le parti dello stesso.

A norma dell’art. 92 c.p.c., comma 2, (applicabile, “ratione temporis”, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, in L. 10 novembre 2014, n. 162, essendo stato il giudizio di primo grado instaurato con citazione notificata il 26 aprile 2012), le “gravi ed eccezionali ragioni” che consentono la compensazione vanno ravvisate, oltre che negli alterni esiti dei giudizi di merito, nella particolare complessità della materia e nell’esistenza di precedenti non univoci nella giurisprudenza di merito, anche all’interno del Tribunale pronunciatosi, nel presente caso, in veste di giudice di appello.

11. A carico della ricorrente principale, stante il rigetto dell’impugnazione, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara assorbiti i ricorsi incidentale, compensando integralmente tra tutte le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 13 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020

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