Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11573 del 11/05/2017


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Cassazione civile, sez. II, 11/05/2017, (ud. 29/09/2016, dep.11/05/2017),  n. 11573

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 12474/15) proposto da:

C.D. & C. s.r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in forza di

procura speciale a margine del ricorso, dall’Avv.to Valerio Freda

del foro di Avellino ed elettivamente domiciliata presso il dott.

Daniel De Vito in Roma, via Anton Giulio Barrili n. 49;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, rappresentate e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale

dello Stato ed elettivamente domiciliato presso i suoi uffici in

Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 4178

depositata il 21 ottobre 2014.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 29

settembre 2016 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

uditi gli Avv.ti Valerio Freda, per parte ricorrente, e Fabio

Tortora, per parte resistente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto

di entrambi i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 29 gennaio 2010, dinanzi al Tribunale di Ariano Irpino, la C.D. & C. s.r.l. proponeva opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione n. 75905, notificata il 12 gennaio 2010, con la quale il Ministero dell’Economia e delle Finanze, le aveva ingiunto il pagamento della somma di Euro 20.242,00 per avere effettuato transazioni finanziarie in contanti per somme di importo ben superiore ad Euro 12.500,00 attraverso la Cassa Arianese di Mutualità a r.l., la quale non era un soggetto intermediario abilitato, in violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 1, comma 1, conv. in L. n. 197 del 1991.

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Ariano Irpino con la sentenza n. 548 del 16 dicembre 2010, respinte la preliminare eccezione di prescrizione e tutte le altre eccezioni di carattere procedurale sollevate dall’opponente, accoglieva l’opposizione nel merito, ritenendo che la Cassa Arianese di Mutualità soc. coop., che già svolgeva attività di intermediazione alla data di entrata in vigore della L. n. 197 del 1991, era un intermediario abilitato al trasferimento di denaro contante oltre la soglia in regime normativo transitorio.

In virtù di rituale appello interposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, con il quale chiedeva l’integrale riforma della pronuncia impugnata, la Corte di appello di Napoli, nella resistenza della società appellata, che proponeva anche appello incidentale reiterando l’eccezione di prescrizione e delle altre violazioni di carattere formale, con la sentenza n. 4178 del 2014 accoglieva l’appello principale e parzialmente anche quello incidentale, in riforma della decisione di primo grado e in parziale accoglimento dell’opposizione proposta dalla C.D. & C., riduceva ad Euro 10.141,00 la sanzione, con compensazione per la metà delle spese processuali di entrambi i gradi, per il resto regolate secondo soccombenza.

A sostegno della decisione adottata la corte territoriale rilevava la legittimità delle modalità di notifica della contestazione, ricevuta in data 13.01.2005, a seguito di processo verbale redatto dalla Guardia di Finanza, autorità a ciò abilitata dal comma 7 del D.Lgs n. 56 del 2004.

Disattendeva, altresì, l’eccezione di tardività della notifica della contestazione, nonchè quella di nullità relativa alla mancata audizione dell’intimato alla luce della recente giurisprudenza di legittimità.

Riteneva poi che fosse infondata anche l’eccezione di prescrizione, atteso che l’ordinanza risultava notificata nel quinquennio dalla contestazione (il 12 gennaio 2010), termine peraltro interrotto con l’audizione dell’Avv. Freda in data 02.10 2009, ai sensi dell’art. 2943 c.c..

Nel merito riteneva che vi fosse la prova delle violazioni contestate.

Premetteva che le operazioni in contanti eseguite presso la C.A.M. risultavano accertate nella loro materialità sulla base della documentazione rinvenuta presso lo stesso istituto, tardiva la doglianza circa la non riconducibilità della “prima nota cassa” ad un trasferimento di denaro, formulata solo in appello, oltre ad essere infondata.

Quanto alla violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 1, e riformando sul punto la decisione del Tribunale, la sentenza impugnata osservava che la CAM non rientrava tra i soggetti abilitati ex lege ad esercitare attività di trasferimento di contante sopra la soglia legale ed in ogni caso non aveva richiesto ed ottenuto la specifica abilitazione concessa dal Ministero delle Finanze.

Dalla lettura congiunta degli artt. 1, 4 e 6 del D.L. cit. si ricavava che, sebbene fosse consentita agli intermediari di poter continuare, alla data di entrata in vigore della nuova disciplina normativa, l’attività di erogazione di credito al consumo nei confronti dei propri soci ovvero di locazione finanziaria, purchè ne avessero dato comunicazione all’Ufficio Italiano dei Cambi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, in ogni caso, non rientrando tra i soggetti abilitati ex lege al trasferimento di contanti ex art. 1, avrebbero dovuto comunque richiedere l’abilitazione al compimento di tali attività al Ministero, costituendo l’inserimento dell’istituto di credito nell’elenco tenuto dall’U.C.I. condizione necessaria per il compimento delle operazioni in denaro contante, ma non esclusiva per legittimare ad esercitare tali attività. In tal senso deponeva anche la interpretazione dell’art. 106 T.U.B., in vigore dal 1.1.1994, in sostituzione dell’art. 6 cit..

Del resto la stessa nota del 13.02.1992 inviata dall’U.I.C. alla C.A.M. precisava che era comunque tenuta agli adempimenti “nei termini e nei modi” dello stesso art. 6.

Con la conseguenza che, ancorchè la CAM fosse stata iscritta nell’elenco di cui all’art. 6, ciò non determinava abilitazione al compimento delle operazioni in denaro contante, e per l’effetto sussistevano gli elementi oggettivi dell’illecito contestato.

Quanto al profilo soggettivo, stabilita dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 una presunzione di colpa, la sentenza riteneva che nella fattispecie non vi fossero elementi idonei ad ingenerare un’errata convinzione sul significato della norma e sulla liceità del comportamento.

La finalità della normativa violata non giustificava la pretesa ignoranza della violazione contestata, non potendo avere efficacia esimente nè gli esiti di controlli effettuati in sede ispettiva dalla Banca d’Italia nel 1997 (trattandosi di ispezione effettuata ad altri fini), nè l’archiviazione in sede penale disposta dal GIP del Tribunale di Ariano Irpino in data 18/3/2009, posto che il reato contestato concerneva una fattispecie diversa da quella di cui all’ordinanza opposta, nè la nota dell’UIC del 13/2/1992, con la quale si comunicava l’iscrizione della CAM nell’elenco di cui all’art. 6.

In definitiva tutte le circostanze addotte a giustificazione dell’errore scusabile apparivano di equivoca lettura e ciò escludeva che l’appellata/appellante incidentale potesse ritenersi incolpevole.

Infine, riteneva che a fronte di un massimo edittale pari al 40 % della somma oggetto di transazione illecita, la sanzione applicata nella percentuale del 5 % non fosse proporzionale ed equa, considerata la entità delle violazioni e del volume delle transazioni effettuate, per cui riduceva la sanzione nella misura del 2,5%.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la C.D. & C. s.r.l., sulla base di sette motivi, cui ha replicato il Ministero dell’Economia e delle Finanze con controricorso contenete anche ricorso incidentale affidato a due motivi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente, nel denunciare la violazione della L. n. 689 del 1981, artt. 6 e 14, lamenta che sia stata totalmente erronea la pronuncia sul fatto che si trattasse di ingiunzione notificata sia alla società sia al legale rappresentante della stessa, in proprio, dal momento che il p.v.c. era stato notificato al solo C.F., per non essere destinataria della notifica la società, nei cui confronti era intervenuta la maturazione dei termini di decadenza di cui alla L. n. 689 del 1980, art. 14. Del resto il Ministero non aveva curato il deposito della notificazione del verbale di contestazione alla società, nè poteva essere invocato l’effetto di sanatoria costituito dalla proposizione dell’opposizione, per essere il verbale di contestazione atto prodromico alla ingiunzione.

Il motivo è privo di pregio.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di sanzioni amministrative, nella disciplina della L. 24 novembre 1981, n. 689 (in particolare, artt. 2, 3, 7 e 11), l’autore della violazione rientrante nell’ambito di applicazione della legge, e quindi il diretto destinatario dell’ordinanza ingiunzione che irroga la sanzione pecuniaria e ne intima il pagamento, può essere soltanto la persona fisica, e giammai una società o un ente, mentre la circostanza che tale persona fisica abbia agito come organo o rappresentante di una persona giuridica spiega rilievo solo al diverso fine della responsabilità solidale di quest’ultima, ai sensi dell’art. 6 della legge citata, prevista in funzione di garanzia del pagamento della somma dovuta dall’autore della violazione, rispondendo anche alla finalità di sollecitare la vigilanza delle persone e degli enti chiamati a rispondere del fatto altrui. Tuttavia, l’autonomia e la distinzione delle posizioni del trasgressore e dell’obbligato solidale si desume chiaramente dalla L. n. 689 del 1981, art. 14, norma che, oltre a disporre che la violazione, quando è possibile, deve essere contestata immediatamente tanto al trasgressore quanto alla persona che sia obbligata in solido al pagamento della somma dovuta per la violazione stessa, stabilisce che l’obbligazione si estingue soltanto per la persona nei cui confronti è stata omessa la notificazione nel termine prescritto, sicchè l’obbligo della persona giuridica può sussistere anche senza che più sussista l’obbligo del trasgressore. La distinta responsabilità solidale della persona giuridica per essere fatta valere richiede, perciò, a norma della L. n. 689 del 1981, art. 14, un’autonoma contestazione, operata non nella qualità di autore dell’illecito, bensì di corresponsabile del pagamento della sanzione. Ove, tuttavia, il trasgressore persona fisica coincida col rappresentante a norma di legge o di statuto, la contestazione della violazione può anche essere effettuata a costui con riguardo ad ambedue le qualità, senza che occorra la consegna di un doppio esemplare del verbale di accertamento, ma rimanendo indispensabile che il destinatario della contestazione venga considerato nella duplice sua qualità di trasgressore e di responsabile solidale (Cass. n. 23875 del 2011; Cass. n.5885 del 1997; da ultimo, Cass. n. 17023 del 2016).

Nella fattispecie emerge peraltro che la notificazione del verbale del 10 gennaio 2005 venne eseguita nei confronti del C. ma con un espresso richiamo alla sua qualità all’interno della società, essendo esplicito nella relata il riferimento alla persona giuridica rappresentata, sicchè essa costituiva valida contestazione nei confronti della stessa persona giuridica.

Nel giudizio di opposizione all’ordinanza ingiunzione di pagamento di sanzione amministrativa, inoltre, la ritualità nella notifica del verbale di violazione, trattandosi di un atto del procedimento amministrativo, è, peraltro, oggetto di accertamento di fatto riservato proprio al giudice di merito e, perciò, non censurabile in cassazione, se sorretto da motivazione immune dai vizi logici e giuridici (nei limiti ora consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. con modif. in L. n. 134 del 2012) (Cass. n. 14526 del 2012; Cass. n. 1092 del 2005).

Con il secondo mezzo la ricorrente lamenta la violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 1, comma 1, art. 4, commi 1 e 2, e art. 6, comma 1 e art. 4 bis in relazione al disposto di cui all’art. 106 TUB.

Assume la ricorrente che la costituzione della CAM risale al 1 marzo 1989, anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 197 del 1991 di conversione del D.L. n. 143 del 1991. A tal fine evidenzia che l’art. 1 della legge ora citata vieta il trasferimento di contante o di titoli al portatore eccedente la soglia prevista, se non avvalendosi degli intermediari di cui al comma 1 dell’art. 4 (intermediari abilitati ex lege) e di cui al secondo comma dello stesso art. 4 (intermediari abilitati previo rilascio di provvedimento da parte del Ministero, sentite la Banca d’Italia e la Consob). Ed, infatti, il comma 1 dell’art. 4, prevede che: “gli intermediari abilitati, nei limiti delle proprie attività istituzionali, ad effettuare le operazioni di trasferimento di cui all’art. i sono gli uffici della pubblica amministrazione, ivi compresi gli uffici postali, gli enti creditizi, gli istituti di moneta elettronica, le società di intermediazione mobiliare, le società commissionarie ammesse agli antirecinti alle grida delle borse valori, gli agenti di cambio, le società autorizzate al collocamento a domicilio di valori mobiliari, le società di gestione di fondi comuni di investimento mobiliare, le società fiduciarie, le imprese e gli enti assicurativi e la società Monte Titoli S.p.a. di cui alla L. 19 giugno 1986, n. 289, nonchè gli altri intermediari abilitati ai sensi del comma 2″, mentre il secondo comma dispone che: ” il Ministro del tesoro, di concerto con i Ministri dell’interno, di grazia e giustizia, delle finanze e dell’industria, del commercio e dell’artigianato, sentite la Banca d’Italia e la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), determina le condizioni in presenza delle quali altri intermediari possono, su richiesta, essere abilitati dal Ministro del tesoro ad effettuare le operazioni di trasferimento di cui all’art. 1. Tali intermediari devono comunque avere per oggetto prevalente o svolgere in via prevalente una o più delle seguenti attività: concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, compresa la locazione finanziaria; assunzione di partecipazioni; intermediazione in cambi; servizi di incasso, pagamento e trasferimento di fondi anche mediante emissione e gestione di carte di credito”.

Il successivo art. 6 poi prevede al comma 1 che l’esercizio in via prevalente di una o più delle attività di cui all’art. 4, comma 2, è riservato agli intermediari iscritti in apposito elenco tenuto dal Ministro del tesoro, che si avvale dell’Ufficio italiano dei cambi, il quale dà comunicazione dell’iscrizione alla Banca d’Italia e alla CONSOB, previsione questa poi abrogata e sostituita con il disposto di cui all’art. 106 TUB. Ancora, mentre il comma 2 dell’art. 6 in esame prevede che: “Gli intermediari di cui al comma 1 che esercitano la propria attività nei confronti del pubblico o che erogano credito al consumo, anche se nell’ambito dei propri soci, devono avere la forma di società per azioni o in accomandita per azioni o a responsabilità limitata o di società cooperativa. Il capitale sociale versato non può essere inferiore a cinque volte il capitale minimo previsto per la costituzione delle società per azioni. Il Ministro del tesoro, con proprio decreto, sentita la Banca d’Italia, può indicare una misura inferiore del capitale minimo per particolari categorie di operatori. Entro due anni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, i soggetti di cui al presente comma procedono alle operazioni di trasformazione e di aumento di capitale eventualmente necessarie”, il comma 2 bis prevede che “In deroga a quanto previsto dal comma 2, gli intermediari di cui al comma 1 che esercitano l’attività di locazione finanziaria devono avere la forma di società per azioni e un capitale sociale versato non inferiore a cinque volte il capitale minimo previsto per la costituzione delle società per azioni”, stabilendo quindi i requisiti formali prescritti affinchè gli intermediari possano essere iscritti nell’elenco di cui all’odierno art. 106 TUB.

Infine, con una norma chiaramente di diritto intertemporale, il comma 4 bis dell’art. 6, prevede che “Gli intermediari di cui ai commi 2 e 2- bis esercenti l’attività alla data di entrata in vigore del presente decreto possono continuare ad esercitarla a condizione che ne diano comunicazione all’Ufficio italiano dei cambi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Nei confronti dei soggetti che non ottemperano alle disposizioni di cui ai commi 2, 2- bis, 3 e 4 nei termini ivi stabiliti, si applica la disposizione del comma 8” (con la conseguente cancellazione dall’elenco).

Prosegue la ricorrente che il quadro normativo ora riportato è stato interpretato dalla Corte partenopea nel senso che non rientrando la CAM tra i soggetti di cui al comma 1 dell’art. 2, e pur essendo stata inserita nell’elenco di cui all’art. 6, svolgendo una delle attività di cui all’art. 4 comma 2, per il compimento di operazioni di trasferimento di denaro contante, era necessario comunque richiedere un’apposita abilitazione al Ministero. La sentenza dopo aver dato atto dell’abrogazione dell’art. 6 ad opera del TUB, ribadendo anche la sopravvivenza delle norme in esame, sino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati dalle autorità creditizie, D.Lgs. n. 385 del 1993, ex art. 161, ha riscontrato che la CAM con istanza del 4 ottobre 1991 aveva segnalato all’UIC che intendeva esercitare l’attività di raccolta del risparmio solo tra i soci e l’attività di concessione prestiti sempre esclusivamente tra i soci stessi, aggiungendo che la richiesta era presentata con riserva, in quanto non riteneva di poter essere ricompresa tra i destinatari dell’art. 6, non svolgendo attività di intermediazione.

Alla luce di tale missiva, ha quindi precisato che non vi era alcuna richiesta di abilitazione alle attività di trasferimento del contante, intendendo semplicemente continuare ad esercitare le attività indicate dai commi 2 e 2 bis dell’art. 6.

A tale istanza fece poi seguito la risposta dell’UIC con la quale si comunicava l’avvenuta iscrizione della CAM nell’elenco degli intermediari, ma senza alcun riferimento agli obblighi specifici imposti per i soggetti abilitati ex lege ovvero per provvedimento alle operazioni di trasferimento di denaro contante.

Tale ricostruzione normativa e fattuale, per effetto della quale l’avvenuta iscrizione della CAM nell’elenco di cui all’art. 6 era finalizzata esclusivamente alla prosecuzione della pregressa attività, ma con esclusione della possibilità di trasferire denaro contante, è contestata dall’opponente il quale facendo leva sulla preesistenza della società rispetto alla novella del 1991, ritiene che tale condizione le consentiva di beneficiare, oltre che dell’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 6, anche della possibilità di compiere le attività di cui all’art. 1, e ciò sempre a seguito di semplice comunicazione all’UIC.

Il motivo è privo di pregio.

La soluzione interpretativa di parte ricorrente risulta chiaramente contrastare con il dato letterale delle norme in esame.

Ed, infatti, posto che l’elenco di cui al comma 1 dell’art. 6, serve a designare i soggetti che possono giovarsi della qualifica di intermediari di cui al comma 2 dell’art. 4, l’inserzione in tale elenco, concessa con criteri semplificati a coloro che già prima dell’entrata in vigore della legge, esercitavano l’attività di cui ai commi 2 e 2 bis dell’art. 6, come si ricava dalla piana lettura dell’art. 4 comma 2, non implica l’automatico riconoscimento della possibilità di poter effettuare operazioni di trasferimento di contante.

Ed, invero, per gli intermediari in oggetto, la legittimità delle operazioni di cui all’art. 1, presuppone una richiesta di abilitazione indirizzata al Ministero del Tesoro con la successiva emanazione del provvedimento abilitativo, di guisa che deve escludersi che il regime di favore previsto per gli intermediari già operanti alla data di entrata in vigore del decreto legge, possa estendersi anche alla possibilità di negoziare in contanti senza la previa richiesta di abilitazione al Ministero, richiedendo la legge ai fini in esame il concorso di entrambe le condizioni.

Nè, come correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata, la richiesta inoltrata all’UIC per l’iscrizione nell’elenco ai sensi del comma 4 bis dell’art. 6, può ritenersi contenere un’implicita richiesta di abilitazione ex art. 4 comma 2, essendo diversi i soggetti destinatari delle due richieste (per la seconda è infatti previsto che il provvedimento di abilitazione debba essere rilasciato dal Ministero del Tesoro).

Ancora, il dettato dell’art. 4 comma 2 lascia chiaramente intendere che vi possano essere intermediari, non abilitati ex lege al trasferimento del contante, che pur essendo inseriti nell’elenco oggi previsto dall’art. 106 TUB, non siano altresì abilitati al trasferimento del contante, il che mina ab imis le premesse del ragionamento della ricorrente per le quali l’iscrizione per le società già operanti determina l’abilitazione anche alle operazioni di cui al comma 1, non potendosi escludere che anche prima della novella vi fossero soggetti svolgenti attività di cui ai commi 2 e 2 bis dell’art. 6, che però operassero senza effettuare trasferimento di contanti.

Infine, depone in senso contrario alla censura sollevata dalla C.D. & C. anche l’interpretazione teleologica delle norme, in quanto, essendo la finalità del legislatore quella di porre un freno all’utilizzo del contante in vista del contrasto alle operazioni di riciclaggio del denaro di provenienza illecita, aumentando di conseguenza le garanzie di trasparenza e tracciabilità delle operazioni di movimentazione del contante, il prevedere per un presumibilmente cospicuo numero di intermediari già operanti alla data di entrata in vigore della legge, la possibilità di continuare ad effettuare operazioni di trasferimento di denaro contante, senza una previa abilitazione da parte del Ministero, vanificherebbe le stesse finalità sottese all’emanazione della legge.

Con il terzo motivo la ricorrente denunzia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione al mancato riconoscimento della carenza dell’elemento soggettivo ovvero della sussistenza di un errore scusabile.

La Corte di merito avrebbe disatteso le difese della ricorrente limitandosi a richiamare la presunzione di colpa prevista dalla L. n. 689 del 1981, art. 3, aggiungendo che la normativa antiriciclaggio è conosciuta diffusamente anche dai semplici cittadini, sicchè non può definirsi equivoca o poco chiara. In realtà l’errore scusabile era da individuarsi nel possesso in capo alla CAM della qualità di intermediario abilitato, che costituisce un errore sul fatto, piuttosto che un errore di diritto.

L’incertezza circa la corretta qualificazione soggettiva era poi avvalorata da varie pronunce emesse dal Tribunale di Ariano Irpino che avevano sposato la tesi della ricorrente circa la possibilità di poter effettuare trasferimenti di denaro contante oltre soglia. Inoltre sì era omessa la disamina di vari fatti storici, quali l’elevato numero di operazioni effettuate dal 1993 al 2004, che non avevano destato alcuna osservazione in sede ispettiva da parte della Banca d’Italia, nonchè la circostanza che la CAM aveva comunque osservato la normativa antiriciclaggio allorchè aveva eseguito le numerose operazioni oggetto della contestazione.

Ancora lo stesso UIC all’esito del PVC per cui è causa, aveva contestato la violazione dell’art. 116 del TUB, per l’assenza nei locali della Cassa degli avvisi e/o dei fogli informativi, e dell’art. 133 del TUB in quanto la denominazione sociale era idonea a trarre in inganno circa la legittimazione allo svolgimento dell’attività.

Anche tale motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non appare conformarsi alla previsione novellata della norma in esame, dovendosi escludere che la motivazione della Corte di merito abbia omesso di prendere in considerazione un fatto decisivo.

Ed, infatti, nel caso in esame, il fatto valutato è proprio la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito contestato, e la sentenza impugnata, lungi dal limitarsi a far riferimento alla sola conoscenza della norma da parte della generalità dei consociati, ha valutato, escludendone l’idoneità in chiave esimente per la responsabilità della ricorrente, proprio alcuni dei fatti che in motivo si assume essere stati non esaminati, quali la rilevanza dell’attività ispettiva compiuta dalla Banca d’Italia, ovvero gli accertamenti compiuti in sede penale, ovvero la concreta conoscenza o conoscibilità degli atti dell’UIC, fornendosi altresì delle diffuse considerazioni in merito all’incidenza che sulla conoscenza di tali eventi poteva rivestire la qualità di socia.

Va ricordato che le Sezioni Unite (Cass. n. 8054 del 2014) hanno avuto occasione di sottolineare che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie, di modo che, avendo la sentenza gravata fornito ampia e coerente motivazione in ordine agli elementi in base ai quali reputava sussistere l’elemento soggettivo dell’illecito, il fatto che alcuni elementi siano stati invece trascurati o ritenuti irrilevanti, non determina la fondatezza della doglianza proposta.

Emerge, quindi, un’ampia ed articolata disamina degli elementi fattuali, connotata da logicità e coerenza argomentativa, che pone la motivazione della sentenza impugnata al riparo da qualsivoglia censura.

Con il quarto motivo la ricorrente nel dedurre in via gradata la violazione – ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. – dell’art. 132, comma 2, n. 4, insiste nelle doglianze di cui al mezzo precedente, denunciando il vizio in termini di motivazione apparente.

Anche detto mezzo è infondato con riguardo alle considerazioni svolte con riferimento al terzo motivo che precede.

Infatti la nullità ex art. 132 c.p.c., n. 4 suppone che nella sentenza sia totalmente omessa, per materiale mancanza, la parte della motivazione riferibile ad argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione, laddove nella pagina 15 e segg. della sentenza impugnata la corte territoriale indica perfettamente i requisiti da cui ha fatto discendere la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito de quo, con rigetto del relativo motivo di appello.

Con il quinto motivo la società ricorrente nel lamentare l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, assume che la corte territoriale nell’accogliere l’apposito motivo di appello incidentale relativo alla graduazione della sanzione, ha ritenuto di compensare le spese processuali nella misura della metà, nonostante l’Amministrazione avesse insistito per la conferma integrale della originaria sanzione irrogata. In altri termini non avrebbe tenuto conto che l’opponente era risultato sostanzialmente vittorioso per avere conseguito l’accoglimento dello specifico motivo di impugnazione, a fronte della soccombenza del Ministero.

Con il sesto motivo la ricorrente nel dedurre in via gradata la violazione – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 – dell’art. 132, comma 2, n. 4, insiste nelle doglianze di cui al mezzo precedente, denunciando il vizio in termini di motivazione apparente, indicando gli atti e i documenti su cui esso di fonda.

Le due censure – da trattare congiuntamente vertendo entrambe, seppure sotto diversi profili, sulla medesima questione della compensazione delle spese processuali – non meritano accoglimento.

In tema di liquidazione delle spese processuali in caso di riforma totale o parziale della sentenza di primo grado, è costante nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione del principio – dal quale questo collegio non intende discostarsi – secondo cui “il giudice di appello, allorchè riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite, poichè la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, sicchè viola il principio di cui all’art. 91 c.p.c., il giudice di merito che ritenga la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado perchè la sentenza di primo grado è stata riformata e quindi si dovevano liquidare e rideterminare le spese di entrambi i gradi” (così di recente: Cass. 18 marzo 2014 n. 6259; nel medesimo senso si vedano, tra le tante, Cass. 30 ottobre 2013 n. 8718; Cass. 14 ottobre 2013 n. 23226; Cass. 30 agosto 2010 n. 18337; Cass. 22 dicembre 2009 n. 26985; Cass. 11 giugno 2008 n. 15483).

Nella specie la decisione della corte di appello, che ha accolto l’impugnazione principale, al pari di quella incidentale (ritenendo eccessiva la sanzione irrogata), con totale riforma della decisione del giudice di primo grado, integra la situazione in cui la liquidazione delle spese del doppio grado va effettuata sulla base dell’esito unitario e complessivo del giudizio (e non per gradi).

Occorre dunque preliminarmente verificare se ciò sia stato fatto ed eventualmente se sia stato fatto in modo corretto.

La corte di merito ha operato una compensazione parziale delle spese di entrambi i gradi di giudizio, condannando la società C. al pagamento del residuo. Ha cioè applicato la regola della compensazione parziale delle spese di lite di cui all’art. 92 c.p.c., ritenendo le parti parzialmente e reciprocamente soccombenti, in relazione all’esito complessivo della lite stessa, sia pure individuando l’importo residuo delle spese oggetto della condanna in una quota pari alla metà a carico della parte opponente-appellata.

Appurato che la regolamentazione delle spese è avvenuta sulla base della valutazione dell’esito complessivo della lite, con applicazione della regola della compensazione parziale delle spese, ai sensi dell’art. 92 c.c., comma 2, occorre verificare se ciò sia stato fatto in modo corretto.

La ricorrente censura la decisione nella parte in cui l’ha condannata al pagamento di una parte delle spese del giudizio, ritenendo che ciò non fosse possibile, essendo ella parte vittoriosa; non contesta la pronuncia nella parte in cui ha concretamente determinato l’importo di tale condanna, ma contesta cioè l’an della suddetta decisione.

Occorre stabilire se le valutazioni della corte distrettuale siano corrette in diritto e se risultino motivate.

Ciò comporta la necessità di affrontare la questione della sussistenza o meno della soccombenza reciproca in ipotesi di parziale accoglimento dell’opposizione a sanzione amministrativa proposta dall’intimato, nonchè quella sul se, in quali ipotesi ed in che limiti, in caso di parziale accoglimento di detta opposizione sia possibile la compensazione parziale delle spese di lite con condanna dell’opponente al pagamento di un residuo.

E’ senz’altro corretta l’individuazione di una situazione di parziale reciproca soccombenza delle parti nell’ipotesi in cui l’opposizione risulti accolta solo parzialmente nel quantum.

Va infatti sul punto dato seguito al principio di diritto affermato da questa Corte, per cui “la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92 c.p.c., comma 2), sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorchè essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo” (Cass. 21 ottobre 2009 n. 22381; in senso conforme, successivamente: Cass. 23 gennaio 2012 n. 901; Cass. 23 settembre 2013 n. 21684; Cass. 10 novembre 2015 n. 22871).

Ne consegue che qualora la parte opponente sia rimasta vittoriosa in misura più o meno significativamente inferiore rispetto all’entità del bene che attraverso il processo ed in forza della pronuncia giurisdizionale si proponeva di conseguire, come nella specie, può ravvisarsi un’ipotesi di soccombenza reciproca pro quota, tenuto conto dell’accertamento comunque della sussistenza della violazione alla medesima contestata.

Non sono ravvisabili indici normativi che consentano di ricostruire una diversa nozione di soccombenza ai fini della legittimazione ad impugnare e ai fini della regolamentazione delle spese di lite, unica essendo la nozione di soccombenza, verificandosi in caso di solo parziale accoglimento dell’unica questione proposta dall’opponente una situazione di parziale soccombenza reciproca delle parti.

Per completezza argomentativa, osserva il Collegio che per il caso in cui vi sia parziale reciproca soccombenza, l’art. 92 c.p.c., comma 2, si limita a prevedere la possibilità (non l’obbligo) di una compensazione integrale o parziale delle spese di lite, ma non indica il criterio in base al quale operare la scelta.

Tale criterio va individuato nel più generale principio di causalità.

Occorre cioè procedere alla individuazione della parte cui siano eventualmente imputabili in prevalenza, per avervi dato causa, agendo o resistendo alle altrui pretese infondatamente, gli oneri processuali ricollegabili all’attività svolta per la istruzione e decisione delle varie domande proposte, o dei vari capi dell’unica domanda, o anche dell’unica domanda che sia risultata solo in parte fondata (cfr. Cass. 11 giugno 2008 n. 15483).

In altri termini, la parziale compensazione con condanna di una delle parti al pagamento di una quota delle spese in favore dell’altra si giustifica, sempre sotto il profilo della reciproca soccombenza, quando il giudice valuti che sussista una apprezzabile prevalenza degli oneri processuali imputabili ad una delle parti, in quanto ricollegabili alle attività processuali svolte per l’accertamento della infondatezza delle sue pretese o per l’accertamento della fondatezza delle pretese dell’avversario.

Detta interpretazione appare coerente con la lettera della disposizione di cui all’art. 92 c.p.c., che prevede la possibilità di una compensazione parziale, ma non esprime alcuna limitazione o indicazione vincolante in ordine alla individuazione della parte che può essere condannata al pagamento della differenza, oltre a costituire conclusione conforme ai principi costantemente affermati da questa Corte, ed espressi nelle numerose massime per cui “in materia di spese processuali, l’identificazione della parte soccombente è rimessa al potere decisionale del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, con l’unico limite di violazione del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa” (Cass. 16 giugno 2011 n. 13229), ovvero “in tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse;…… con riferimento al regolamento delle spese il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi” (Cass. 11 gennaio 2008 n. 406; Cass. 22 luglio 2009 n. 17145; Cass. 1 dicembre 2009 n. 25270; Cass. 8 giugno 2007 n. 13428; Cass. 11 gennaio 2006 n. 264; Cass. 6 marzo 2006 n. 4799; Cass. 23 giugno 2006 n. 14526; Cass. 10 settembre 2003 n. 12744; Cass. 14 novembre 2002 n. 16012; Cass. 25 marzo 2002 n. 4201).

La valutazione in ordine a tali questioni costituisce giudizio di fatto che, in quanto adeguatamente motivato dal giudice del merito, non può essere censurato in sede di legittimità.

D’altra parte certamente nella specie non risulta violato il principio per cui non è possibile la condanna, neanche parziale, al pagamento delle spese di lite della parte interamente vittoriosa, in quanto la C.D. non può ritenersi tale, sussistendo nella specie una ipotesi di parziale soccombenza reciproca.

Deve concludersi, quindi, per l’infondatezza delle censure.

Con il settimo motivo la ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Deduce la C.D. & C. che con uno specifico e tempestivo motivo di appello incidentale aveva dedotto che il giudice di primo grado non si era pronunciato sul motivo di opposizione concernente la prova delle violazioni, posto che la Guardia di Finanza aveva fondato il proprio accertamento esclusivamente sulle risultanze della “prima nota cassa”, documento che non costituisce scrittura contabile obbligatoria e che non contiene la prova che le somme ivi registrate siano state trasferite in contanti.

Tale doglianza, riproposta in grado di appello, è stata però disattesa dalla sentenza gravata con una motivazione che, a detta della ricorrente, deve di fatto reputarsi omessa. Infatti, si afferma in sentenza che l’opponente non avrebbe mai messo in discussione la circostanza che le operazioni oggetto di contestazione siano effettivamente avvenute, trascurando il fatto storico che nel ricorso introduttivo si era invece contestato che le operazioni potessero integrare un trasferimento di denaro in contante. Inoltre, pur affermandosi che le operazioni in contanti eseguite dalla CAM erano state accertate dalla polizia tributaria sulla base della documentazione rinvenuta presso lo stesso istituto (libri sociali, registri cartacei ed archivio informatico) si era omesso di considerare il fatto storico per cui agli atti non risultava acquisita la documentazione de qua, nè valorizzata dal p.v.c. della Guardia di Finanza, giudicata la doglianza tardivamente proposta solo in appello e perciò inammissibile, oltre che infondata.

Il motivo è inammissibile prima che infondato.

La stessa ricorrente non ignora che alla fattispecie sia applicabile, in considerazione della data di pubblicazione della sentenza gravata, il nuovo dettato dell’art. 360 c.p.c., n. 5, avendo richiamato nella rubrica del motivo, la nuova lettera della legge.

Proprio a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., ed al fine di chiarire la corretta esegesi della novella, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte che con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, hanno ribadito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, ed è solo in tali ristretti limiti che può essere denunziata la violazione di legge, sotto il profilo della violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

Nella fattispecie, atteso il tenore della sentenza impugnata, deve escludersi che ricorra un’ipotesi di anomalia motivazionale riconducibile ad una delle fattispecie che, come sopra esposto, in base alla novella consentono alla Corte di sindacare la motivazione.

Ed, infatti, il motivo, oltre a peccare del requisito di specificità per violazione della previsione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, nella parte in cui, pur criticando la valutazione del complessivo tenore delle difese del ricorrente nel corso del giudizio di primo grado, omette di riprodurne il contenuto, trascrivendone solo dei limitatissimi stralci, che non permettono di apprezzarne la complessiva portata, si risolve in una critica alla valutazione compiuta dal giudice di appello in ordine a tale condotta processuale, il che conferma che la censura non si appunta su di un’omessa disamina (che in realtà vi è stata), quanto sulla condivisibilità o meno della medesima, ipotesi che però esula dal novero delle censure motivazionali oggi suscettibili di essere portate all’attenzione di questa Corte.

Così come parimenti inidoneo a configurare l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio è il rilievo circa la valenza probatoria della sola “prima nota cassa”, avendo la Corte di appello evidenziato che in realtà quanto emergeva da tale registro trovava conforto anche negli altri documenti contabili. Appare quindi evidente che la sentenza gravata ha ritenuto che la valenza probatoria del verbale di contestazione trovava adeguato supporto non solo nel registro di cui si contesta l’idoneità probatoria, ma anche negli altri documenti contabili che la Guardia di Finanza aveva avuto modo di verificare.

E’ evidente che lungi dal prospettarsi un’omessa disamina di un fatto decisivo, il motivo mira piuttosto a contestare la valutazione di idoneità probatoria dei mezzi di prova che il giudice di merito ha ritenuto di porre a fondamento della propria decisione, risolvendosi quindi in una censura che, anche alla luce della vecchia formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, era preclusa in sede di legittimità (in tal senso si veda il constante principio per il quale i vizi di motivazione denunciabili in cassazione non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, cfr. Cass. 28 luglio 2008 n. 20518; Cass. 11 novembre 2005 n. 22901; Cass. 12 agosto 2004 n. 15693; Cass. 7 agosto 2003 n. 11936).

Passando all’esame del ricorso incidentale, con il primo motivo il Ministero lamenta la violazione o falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 23, come abrogato dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, comma 12, per avere il giudice del gravame per la prima volta, quindi in grado di appello, ridotto incongruamente la sanzione, senza effettuare alcun accertamento.

Il motivo non può trovare seguito per quanto di seguito si dirà.

Costituisce orientamento pacifico nella giurisprudenza di questa Corte quello per il quale (Cass. n. 2406 del 2016; Cass. n. 6778 del 2015; Cass. n. 9255 del 2013) in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro tali limiti, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi. Peraltro, il giudice non è tenuto a specificare nella sentenza i criteri adottati nel procedere a detta determinazione, nè la Corte di Cassazione può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta.

Ne consegue che avendo il giudice di merito applicato la sanzione nel rispetto dei limiti edittali, ed avendo anche dato conto, con il riferimento alla equità e proporzionalità, ed alla gravità soggettiva della violazione, di aver compiuto una valutazione legata ai criteri previsti per legge per la graduazione della sanzione, la doglianza non può trovare accoglimento, e ciò sempre alla luce della novella di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, dovendosi escludere che vi sia stata l’omessa disamina di fatti decisivi.

D’altra parte le doglianze della difesa erariale si risolvono in una critica di inadeguatezza motivazionale della statuizione della sentenza gravata in punto di entità della sanzione che, per quanto già detto, non si è tradotta in una censura riconducibile al paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nuovo testo, avendo peraltro provveduto sul punto il solo giudice del gravame, stante l’integrale accoglimento delle pretese dell’opponente in primo grado.

Con il secondo motivo la ricorrente incidentale lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., nella parte in cui la sentenza gravata, pur avendo accolto l’appello principale e rigettato quello incidentale, ha tuttavia compensato le spese di lite, richiamando “la particolarità della fattispecie esaminata e l’oscillare delle decisioni nei casi consimili esaminati dal giudice a quo, che si è manifestato pur dopo le prime sentenze di questa corte…”.

Osserva che la stessa corte partenopea, nell’esaminare le numerose controversie scaturenti dall’accertamento eseguito nei confronti della CAM, e di riflesso dei suoi soci, dopo avere in una prima fase dato seguito al principio della soccombenza, ha poi iniziato a compensare le spese di lite, sebbene sussista la soccombenza integrale delle controparti.

Anche il secondo motivo del ricorso incidentale è infondato alla luce delle considerazioni svolte con riferimento alle doglianze cinque e sei del ricorso principale.

Consegue il rigetto dei ricorsi principale ed incidentale.

Le spese del giudizio di cassazione vengono compensate tra le parti in ragione della novità della questione di diritto e della reciproca soccombenza.

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.

Non sussiste tale obbligo per il ricorrente incidentale, essendo le Amministrazioni dello Stato istituzionalmente esonerate dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito.

PQM

La Corte, rigetta entrambi i ricorsi;

dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte

della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 2 Sezione Civile, il 29 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2017

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