Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11570 del 26/05/2011

Cassazione civile sez. lav., 26/05/2011, (ud. 24/03/2011, dep. 26/05/2011), n.11570

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13850-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

O.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RENO 21, presso

lo studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che la rappresenta e difende,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 9098/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 05/05/2006 R.G.N. 1545/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/03/2011 dal Consigliere Dott. VINCENZO DI CERBO;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega TRIFIRO’ SALVATORE;

Udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

RILEVATO IN FATTO E DIRITTO

che:

la Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza di prime cure, ha, per quanto ancora rileva in questo giudizio di legittimità, dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro con decorrenza 1 luglio 1997 stipulato da Poste Italiane s.p.a. con O.I.;

Per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso; la lavoratrice ha resistito con controricorso illustrato da memoria.

Preliminarmente deve rilevarsi che il ricorso contiene quattro distinti motivi; in tutti viene denunziata violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e più precisamente: dell’art. 1362 e segg. cod. civ. (primo motivo), della L. n. 230 del 1962 e della L. n. 56 del 1987, art. 23 (secondo e terzo motivo); degli artt. 1217 e 1233 cod. civ. (quarto motivo); col primo motivo viene altresì denunziato il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine all’efficacia dell’accordo in data 25 settembre 1997 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Poichè la sentenza è stata depositata in data 5 maggio 2006, e quindi dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, si applica ai presente ricorso per cassazione il disposto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. in base al quale è necessario, a pena di inammissibilità, che ciascun motivo di ricorso, nei casi previsti dall’art. 360, comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 si concluda con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Quanto al quesito di diritto la giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad esempio, Cass. S.U. 16 novembre 2007 n. 23732) ha chiarito che esso deve essere formulato in modo esplicito e deve essere tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o di un rigetto del quesito stesso; quanto all’ipotesi di censura ex art. 360, comma 1, n. 5, è stato precisato (cfr., in particolare, Cass. S.U. 1 ottobre 2007 n. 20603) che la stessa deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze quanto alla formulazione del ricorso e alla valutazione della sua ammissibilità.

Nel caso di specie non sono stati formulati i quesiti di diritto nè, con riferimento alla prima censura, nella parte in cui si riferisce al vizio di motivazione, è rinvenibile il “momento di sintesi” nell’accezione sopra indicata.

Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile.

Non incide sulla suddetta conclusione la circostanza che l’ultima censura di cui al ricorso riguarda le conseguenze economiche della declaratoria di illegittimità del termine in relazione alle quali si pone il problema dell’applicabilità dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c..

Ed infatti deve osservarsi che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070); in tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria; in particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, che essi non siano tardivi o generici, e, ove, come nel caso in esame, il ricorso sia stato proposto avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore dei D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, tali motivi siano altresì ammissibili ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ.; ne consegue che l’inammissibilità della censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullità del termine produce la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

In applicazione del criterio della soccombenza la società ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 52.00 oltre Euro 2500 (duemilacinquecento) per onorari e oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2011

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