Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11569 del 15/06/2020

Cassazione civile sez. I, 15/06/2020, (ud. 25/02/2020, dep. 15/06/2020), n.11569

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10139/2019 proposto da:

A.A., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria civile della Corte di Cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Pierfrancesco Ruzza, in forza di procura

speciale allegata al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VENEZIA, depositata il

26/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/02/2020 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis, A.A. alias K.A., cittadino del (OMISSIS), ha adito il Tribunale di Venezia-Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE, impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente aveva evidenziato problemi legati al suo credo religioso, perchè professante la religione cristiana, come la madre e perseguitato e cacciato di casa dal padre musulmano e perseguitato e discriminato nel suo Paese, a larga maggioranza musulmana; il ricorrente aveva riferito di essere stato così costretto a lasciare la famiglia nel 2009 e di essersi trovato a dover provvedere a sè stesso all’età di 15 anni, senza nessun appoggio; di aver ottenuto aiuto da un esponente politico di (OMISSIS), tale H.M., che gli aveva offerto un alloggio e un impiego, peraltro di carattere illecito (trasporto stupefacenti); che a causa delle vessazioni subite da costui si era affidato a un trafficante per lasciare il Paese per la Malesia; che, ingannato sulla destinazione e privato dell’intero importo datogli dal padre, era arrivato in Libia; che, ricattato a causa del suo credo religioso, aveva abbandonato Tripoli, raggiungendo la Sicilia il 10/8/2016.

Con decreto del 26/2/2019 il Tribunale ha respinto il ricorso, ritenendo che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento di ogni forma di protezione internazionale e umanitaria.

2. Avverso il predetto decreto ha proposto ricorso K.A. alias A.A., con atto notificato il 25/3/2019, svolgendo quattro motivi.

L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita solo con memoria del 4/6/2019 al fine di poter eventualmente partecipare alla discussione orale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, perchè il Tribunale non aveva applicato il principio dell’onere probatorio attenuato e non aveva valutato la credibilità del ricorrente alla luce dei parametri fissati dalla legge (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5).

Inoltre il ricorrente lamenta omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti e cioè l’esistenza di discriminazioni e persecuzioni in danno delle minoranze religiose in Bangladesh, la mancanza di forme di tutela da parte delle autorità statali e delle forze dell’ordine, notoriamente corrotte e inaffidabili.

Sarebbe quindi mancata la doverosa valutazione socio-antropologica-politica-giudiziaria esistente in Bangladesh, sulla base dei reports e della giurisprudenza di merito prodotta dal ricorrente.

1.2. Certamente la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez. 6, 25/07/2018, n. 19716).

Il giudice deve tuttavia prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine; le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità socciettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso (Sez. 6, 27/06/2018, n. 16925; Sez. 6, 10/4/2015 n. 7333; Sez. 6, 1/3/2013 n. 5224).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.

Il contenuto dei parametri sub c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro assertivo e probatorio fornito non sia esauriente, purchè il giudizio di veridicità alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca) sia positivo (Sez. 6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez. 6, 10/5/2011, n. 10202).

Beninteso, il principio che le dichiarazioni del richiedente che siano inattendibili non richiedono approfondimento istruttorio officioso va opportunamente precisato e circoscritto: nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente, che può rilevare ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Invece il dovere dei giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (Sez. 1, 31/1/2019 n. 3016).

Inoltre questa Corte ha di recente ribadito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti

e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Sez. 1, n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549-01; Sez. 6-1, n. 33096 del 20/12/2018, Rv. 652571-01).

1.3. Al riguardo il Tribunale, previa analisi comparata delle dichiarazioni rese dal richiedente asilo alla Commissione Territoriale e in sede giudiziaria, con motivazione che soddisfa ampiamente lo standard del c.d. “minimo costituzionale”, ha chiarito le ragioni per cui le dichiarazioni del ricorrente erano state ritenute inattendibili, sia per la genericità della descrizione delle attività illecite svolte per conto del politico locale, incapace perciò di dimostrare una partecipazione effettiva, sia per l’assenza di richiami a tali attività nella memoria da lui depositata, sia per la mancata descrizione circostanziata delle pretese aggressioni e minacce, sia per l’ignoranza di sacramenti, regole e comandamenti della religione cristiana, fede materna, che avrebbe determinato l’ostilità e la persezuzione da parte del padre e dei musulmani, sia per l’irrazionalità della decisione di emigrazione in Malesia, paese a larga maggioranza musulmana, da parte di un esule per regioni di credo religioso cristiano, sia per l’illogica attuale professione della religione cristiana di nascosto, sia per le contraddizioni circa le effettive generalità del richiedente asilo, che ne ha declinato due completamente diverse, peraltro comunque non coincidenti con i documenti in suo possesso.

1.4. Non hanno rilievo le spiegazioni della varie incongruenze, carenze e contraddizioni tentate dal ricorrente nel ricorso in sede di legittimità alle pagina da 10 a 14, dopo aver affermato “in merito alle eccezioni de quibus, svolte dal Giudicante di primo grado, è qui a controdedurre quanto segue”: la Cassazione non è giudice del merito ma di legittimità e tali osservazioni e integrazioni dovevano semmai essere sviluppate nel giudizio di merito.

1.5. Il lamentato omesso esame di fatto decisivo è del tutto insussistente: il fatto non è affatto decisivo, visto che il ricorrente non è stato giudicato credibile ut supra proprio nella sua dichiarata professione religiosa cristiana.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), in relazione al rischio incombente sul ricorrente di essere sottoposto a tortura e a trattamenti inumani o degradanti.

Le stesse considerazioni sopra esposte rendono inammissibile non pertinente anche la censura di cui al secondo motivo, visto che la richiesta di protezione sussidiaria connessa a un profilo rischio personale si fonda sul racconto, giudicato inattendibile, basato sulla fede religiosa del ricorrente e sulla persecuzione per questa ragione subita.

3. Con il terzo motivo di ricors, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

A tal proposito non era stato tenuto conto dell’integrazione del ricorrente nel tessuto sociale italiano (assunto dal ristorante giapponese (OMISSIS)), nè del contesto generale di compromissione dei diritti umani nel Paese di origine.

3.2. Giova ricordare che secondo la recentissima sentenza delle Sezioni Unite del 13/11/2019 n. 29460, che ha avallato l’interpretazione maggioritaria inaugurata da Sez. 1, n. 4890 del 19/02/2019, Rv. 652684-01, in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto D.L.. Inoltre la stessa sentenza n. 24960/2019 delle Sezioni Unite, che in proposito ha aderito al filone giurisprudenziale promosso dalla sentenza della Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298-01, ha affermato il prioncipio che l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini dei riconoscimento della protezione umnanitaria, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

Secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, i seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali cui il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, sono accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.

La condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

Nè il livello di integrazione dello straniero in Italia nè il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo integrato, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Da un lato, infatti, il diritto al rispetto della vita privata, sancito dall’art. 8 CEDU, può subire ingerenze da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, in modo particolare nel caso in cui lo straniero non goda di un titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale. Dall’altro, il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del richiedente deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente stesso, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la sua situazione particolare, ma quella del suo Paese di origine in termini generali e astratti, in contrasto con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Il riconoscimento della protezione umanitaria al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, non può pertanto escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine. Tale riconoscimento deve infatti essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Sez. 1, 23/02/2018, n. 4455).

3.3. Il Tribunale ha motivatamente escluso la sussistenza di una personale condizione di vulnerabilità soggettiva del richiedente asilo, argomentando principalmente sulla non credibilità dei rischi corsi in ragione della sua fede religiosa.

In ogni caso, secondo la giurisprudenza di questa Corte non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (Sez. 6-1, n. 17072 del 28/06/2018, Rv. 649648-01; Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298-01).

D’altra parte, a prescindere dal livello di integrazione lavorativa nel nostro Paese, è necessaria e ineludibile una significativa esposizione alla violazione dei diritti umani del richiedente asilo, ove fosse costretto a tornare al proprio Paese, sotto la soglia della tollerabilità: infatti pur sempre si discute di una misura integrativa, di diritto nazionale, di protezione di uno straniero che richiede asilo sulla base dei pericoli corsi nel Paese di origine e non già dei benefici auspicati dal suo inserimento in Italia.

4. Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile. Nulla sulle spese in difetto di rituale costituzione dell’Amministrazione.

P.Q.M.

La Corte:

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 25 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020

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