Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11547 del 03/05/2021

Cassazione civile sez. lav., 03/05/2021, (ud. 28/10/2020, dep. 03/05/2021), n.11547

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3332/2015 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA 2,

presso ALFREDO PLACIDI, rappresentato e difeso dall’avvocato PIETRO

QUINTO;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, quale successore ex

lege dell’INPDAP, in persona del Presidente e legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA

29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e

difeso dall’Avvocato PAOLA MASSAFRA, che lo rappresenta e difende;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 1873/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 21/07/2014 R.G.N. 2103/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/10/2020 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. con ricorso al giudice del lavoro del Tribunale di Lecce, C.S. esponeva che: – era transitato dalla Provincia di Lecce, presso cui risultava inquadrato nella categoria C1, all’INPDAP di Lecce a seguito di istanza di mobilità; – all’atto del passaggio era stato inquadrato nell’area professionale C, livello retributivo C1; – nel 2007 gli era stata comunicata la variazione dell’inquadramento dall’area C, posizione economica C1 (gestore di processo) all’area B, posizione economica B2, operatore di processo a decorrere dall’1/12/2001, data dell’inquadramento nei ruoli del personale INPDAP; – l’INPDAP aveva quindi provveduto ad operare il recupero stipendiale scaturito dalla precedente posizione ordinamentale (C1) a decorrere dall’1/12/2001;

rivendicando il suo diritto a mantenere l’inquadramento iniziale chiedeva che fosse dichiarata l’illegittimità del deteriore reinquadramento e della disposta ripetizione delle differenze retributive, con condanna dell’Istituto al risarcimento del danno non patrimoniale;

2. il Tribunale, nel contraddittorio con l’INPS (succeduto ex lege all’INPDAP) respingeva la domanda ritenendo che infondatamente il ricorrente avesse chiesto di applicare ad un annullamento in autotutela di natura privatistica categorie di vizi suscettibili di applicazione solo ad atti autoritativi;

3. la decisione, quanto al merito, era confermata dalla Corte d’appello di Lecce (che solo modificava la pronuncia sulle spese resa dal giudice di prime cure);

riteneva la Corte territoriale la piena legittimità dell’operato dell’Amministrazione che aveva ripristinato la legalità violata;

quanto alla ripetizione delle differenze retributive osservava che non fosse stato neppure adombrato con il ricorso l’espletamento di fatto di mansioni proprie dell’area C, non specificate in dettaglio, per cui la relativa “carenza probatoria” non poteva che portare al rigetto anche di tale domanda;

2. per la cassazione di tale decisione C.S. ha proposto ricorso affidato ad un motivo;

3. l’INPS ha depositato procura in calce al ricorso notificato e successiva memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con l’unico articolato motivo il ricorrente denuncia la violazione del diritto di difesa in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 c.c., art. 115 c.p.c. e dell’art. 2126 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3;

censura la sentenza impugnata per non aver esaminato il motivo di ricorso in appello concernente l’illegittimità del recupero delle somme da parte della P.A. derivante dall’annullamento in autotutela di un illegittimo inquadramento, motivo con il quale aveva dedotto la fondatezza della propria pretesa richiamando anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato;

rileva che in tale motivo era stato anche evidenziato che lo svolgimento delle mansioni proprie della categoria di inquadramento C1 “con continuità e capacità dal 2001 al 2007” non era mai stato in discussione;

sostiene che non vi era ragione di riportare in dettaglio le mansioni corrispondenti alla qualifica formalmente rivestita;

assume che la Corte d’appello avrebbe erroneamente invertito l’onere della prova ponendo a carico del dipendente l’onere di provare di aver svolto le mansioni corrispondenti all’inquadramento formalmente riconosciuto;

2. il motivo è inammissibile per plurime concorrenti ragioni;

2.1. sono denunciate la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, senza che sia adeguatamente specificato quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile a vizi di così diversa natura lamentati, in tal modo non consentendo una sufficiente identificazione del devolutum e dando luogo alla convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità” (v. Cass., Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17931; Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio 2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862);

in particolare, il motivo in esame inammissibilmente censura nello stesso tempo sia error in procedendo sia error in iudicando, vizi caratterizzati da sicura incompatibilità in quanto se vi è una omessa pronuncia su di un motivo di appello e dunque la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., non vi può essere violazione di legge per la pronuncia sul medesimo motivo;

2.2. il ricorrente, poi, denuncia una violazione del diritto di difesa che non è supportata da alcuna argomentazione giuridica inerente una lesione di facoltà processuali;

2.3. nella prospettazione di cui al motivo, il ricorrente assume che fosse incontroversa la circostanza dello svolgimento di mansioni corrispondenti all’inquadramento (erroneo) ottenuto all’atto del passaggio all’INPDAP (ora INPS);

al riguardo riporta solo in una limitata sintesi narrativa (v. pagg. 3 e 4 del ricorso per cassazione) il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio, senza dare conto della posizione assunta, sul punto, dall’INPDAP (ora INPS) e senza trascrivere il contenuto della comparsa di costituzione dell’Istituto (si rileva, peraltro, dalla sentenza impugnata che l’Istituto aveva replicato alle avverse argomentazioni);

2.3. d’altra parte la Corte territoriale, oltre ad aver riconosciuto legittimo il comportamento dell’Amministrazione (melius re perpensa) sul presupposto della sussistenza di un errore di inquadramento tra la categoria di provenienza del C. e quella attribuibile presso l’INPDAP (circostanza, questa, ritenuta pacifica dai giudici di appello), evidenziando l’insussistenza in concreto di interessi pubblici superiori a quello di ripristinare la legalità violata, ha anche escluso, in relazione alle differenze retributive rivendicate, che in ricorso fosse stato adombrato l’espletamento in fatto di mansioni proprie dell’area C;

rispetto a tale affermazione le doglianze non colgono nel segno;

il ricorrente, infatti, oppone all’indicato passaggio motivazionale i passaggi contenuti alle pag. 18 e 19 dell’atto di appello ma, come già evidenziato, non riporta il contenuto del ricorso di primo grado che solo avrebbe potuto dare contezza dell’esistenza e della specificità della deduzione circa lo svolgimento effettivo delle suddette mansioni (a pag. 4 del ricorso per cassazione risulta solo trascritta una richiesta di interrogatorio formale dei direttori dell’INPDAP “che si sono succeduti dal 2001 ad oggi sulle circostanze di fatto dedotte in ricorso”, circostanze di cui però non è fornito alcun riscontro attraverso la trascrizione della corrispondente parte dell’atto introduttivo);

inoltre, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., sostenendo che vi sia stata da parte del giudice di merito l’attribuzione dell’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata e lamentando la mancata ammissione di mezzi istruttori;

tuttavia, nonostante il richiamo normativo in esso contenuto, il rilievo sostanzialmente sollecita una rivisitazione nel merito della vicenda (non consentita in sede di legittimità) affinchè si fornisca un diverso apprezzamento del complessivo impianto probatorio sottoposto alla valutazione del giudice (Cass., Sez. Un., 10 giugno 2016, n. 11892);

senza dire che qualora con il ricorso per cassazione siano denunciati vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonchè di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività della prova stessa che la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative. (v. ex multis Cass. 4 ottobre 2017, n. 23194; Cass. 30 luglio 2010, n. 17915; Cass. 5 giugno 2007, n. 13085; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178);

i suddetti oneri nella specie non sono stati adempiuti atteso che il ricorrente si è, come detto, limitato a trascrivere solo taluni passaggi dell’atto di appello e non ha chiarito quali siano state le “circostanze di fatto dedotte in ricorso” oggetto dell’interrogatorio formale deferito in sede di ricorso di primo grado;

2.4. va, poi, ricordato che per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio, fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è dedicato alla valutazione delle prove (v. Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867; Cass., Sez. Un., 5 agosto 2016, n. 16598);

nella specie la Corte d’appello ha dato conto delle ragioni del proprio convincimento evidenziando che, a fronte di un difetto di allegazioni circa lo svolgimento in fatto di mansioni riconducibili alla categoria C (mansioni non specificate in dettaglio) sussisteva inevitabilmente una carenza probatoria che impediva la dimostrazione di ciò che non era stato allegato;

nè l’errore di percezione, in relazione all’art. 115 c.p.c., può ravvisarsi laddove, come nella specie, sia stata ravvisata un tale difetto allegatorio, che si colloca interamente nell’ambito della valutazione delle prove, estranea al giudizio di legittimità;

2.4. d’altra parte, anche l’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione (v. Cass. 28 ottobre 2019, n. 27490);

2.5. in ogni caso e per mera completezza si osserva che non è applicabile al rapporto di impiego alle dipendenze delle amministrazioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 1, comma 2, il principio secondo il quale la corresponsione di una retribuzione maggiore rispetto a quella dovuta in forza della contrattazione collettiva (per effetto del transito per mobilità) costituisce trattamento di miglior favore e può essere chiesta in restituzione solo previa dimostrazione di un errore riconoscibile e non imputabile al datore, perchè, al contrario, il datore di lavoro pubblico è tenuto a ripetere le somme corrisposte sine titulo e la ripetibilità degli importi corrisposti in eccesso non può essere esclusa ex art. 2033 c.c., per la buona fede dell’accipiens, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi (Cass. 3 gennaio 2020, n. 30; Cass. 20 febbraio 2017, n. 4323 e negli stessi termini Cass. 8 aprile 2010, n. 8338 e Cass. 22 dicembre 2008, n. 29926);

3. dalle considerazioni che precedono consegue che il ricorso va dichiarato inammissibile;

4. la regolamentazione delle spese segue la soccombenza con la precisazione che la liquidazione di tali spese è limitata alla attività difensiva correlata alla memoria depositata dall’INPS (memoria ammissibile ai sensi di quanto affermato da Cass. 14 maggio 2019, n. 12803 e da Cass. 28 febbraio 2020, n. 5508 con riferimento a ricorsi depositati, come nella specie, anteriormente alla entrata in vigore della L. 25 ottobre 2016, n. 197, recante tra l’altro – misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, e per i quali sia stata successivamente fissata adunanza camerale);

5. sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013), ove dovuto.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’INPS, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 1.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 28 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2021

 

 

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