Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11547 del 02/05/2019

Cassazione civile sez. I, 02/05/2019, (ud. 06/02/2019, dep. 02/05/2019), n.11547

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25865/2014 proposto da:

D.C.R., S.C., elettivamente domiciliati in

Roma, Piazza Monteleone di Spoleto 36, presso lo studio

dell’avvocato Celli Emiliano, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Ghezze Paolo, giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

Fallimento Ditta D.M.V., in persona del curatore

fallimentare T.T.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1875/2013 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 28/08/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/02/2019 dal Cons. Dott. TERRUSI FRANCESCO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La corte d’appello di Venezia confermava la sentenza con la quale il tribunale di Belluno aveva accolto l’azione revocatoria fallimentare proposta dalla curatela del fallimento di D.M.V. nei confronti di D.C.R. e di S.L., la prima in proprio ed entrambi quali genitori esercenti la potestà sulla minore S.C., avente a oggetto una compravendita immobiliare stipulata il 30-12-1993, in cui la prestazione del fallito eccedeva in modo rilevante la controprestazione.

Per la cassazione della sentenza è ora proposto ricorso affidato a nove mezzi.

La curatela del fallimento non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I. – Coi primi quattro motivi i ricorrenti censurano la sentenza nella parte afferente la qualificazione come preliminare del contratto, stipulato in data 4-1-1991, col quale erano stati già concordati prezzo e modalità di pagamento della vendita; tanto ai fini della inammissibilità dell’azione revocatoria fallimentare rispetto a fallimento dichiarato il 5-8-1995 ovvero ai fini della prescrizione della revocatoria ordinaria.

Nello specifico i ricorrenti denunziano: (i) la violazione e falsa applicazione degli artt. 166 e 167 c.p.c., artt. 112 e 113 c.p.c., per avere la corte d’appello erroneamente affermato che l’eccezione inerente la qualificazione del suddetto contratto (come definitivo, anzichè come preliminare), funzionale alla tesi della prescrizione e dell’inammissibilità dell’azione, era tardiva siccome sollevata solo nella comparsa conclusionale per il tribunale, non essendosi invece considerato che l’assunto integrava il presupposto giuridico della questione già tempestivamente dedotta; (ii) la violazione e falsa applicazione degli artt. 2704,2214 e 2220 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., per avere la corte d’appello erroneamente ritenuto che il contratto suddetto fosse privo di data certa opponibile al fallimento, quando invece la certezza della data si sarebbe dovuta far discendere dalle fatture, regolarmente registrate nelle scritture contabili, facenti riferimento al pagamento degli acconti, tenuto conto che la registrazione di queste non era stata oggetto di contestazione da parte della curatela; (iii) omesso esame del fatto decisivo inerente la qualificazione del predetto contratto come vendita di cosa futura, con conseguente violazione della L. Fall., art. 67; (iv) violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 67 e art. 1470 c.c., nonchè delle norme in materia di interpretazione del contratto, per avere la corte d’appello mancato di accogliere l’eccezione di “inammissibilità-improcedibilità-infondatezza” della domanda quale conseguenza del decorso del termine biennale correlato alla natura definitiva del contratto del 4-1-1991, in sè o come vendita di cosa futura.

Il – I motivi sono infondati, anche se la motivazione della sentenza impugnata va in parte corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

Dalla sentenza risulta che la stessa parte convenuta aveva posto al fondo delle proprie difese la circostanza di esser stato stipulato, il 4-1-1991, un contratto preliminare di vendita. In particolare si era affermato che in quel preliminare erano stati concordati il prezzo e le modalità di pagamento.

In ragione di simile postulazione i convenuti avevano peraltro eccepito (sempre secondo la sentenza): (a) l’inapplicabilità dell’art. 67 L. Fall. in quanto il fallimento era stato dichiarato il 5-8-1995; (b) la prescrizione quinquennale della revocatoria ordinaria.

E’ il caso di sottolineare che tanto risulta finanche dal ricorso, secondo cui (pag. 3) i convenuti avevano chiesto che, qualificata la domanda come azione revocatoria ordinaria, la stessa fosse dichiarata inammissibile perchè nuova e comunque perchè prescritta e, in ogni caso, nel merito, che fosse rigettata “anche se qualificata come revocatoria fallimentare”.

In sostanza, l’eccezione di prescrizione era stata avanzata nella sola prospettiva della revocatoria ordinaria, non anche in quella della revocatoria fallimentare, fermo che, secondo l’orientamento giurisprudenziale, il termine di prescrizione della revocatoria fallimentare (in vigenza del testo originario della L. Fall., art. 67) non poteva che decorrere dalla data della sentenza di fallimento, in quanto quest’ultima azione può essere esercitata soltanto in virtù e a seguito dell’apertura della procedura concorsuale (per tutte Cass. n. 18607-03).

III. – Ora la questione inerente l’interpretazione di un contratto, come preliminare di vendita o come definitivo, è questione di interpretazione della volontà; e tale questione neppure si pone ove le stesse parti abbiano indicato chiaramente (e univocamente), nelle proprie difese, quale sia stata la loro effettiva intenzione, se cioè quella di addivenire all’immediato trasferimento della proprietà di un bene ovvero semplicemente quella di assumere un’ obbligazione di trasferimento.

E’ vero che la corte d’appello ha, come del resto il tribunale, ritenuto tardiva l’eccezione ivi prospettata come di inammissibilità della domanda (correlata alla qualificazione del contratto come definitivo anzichè come preliminare), sul rilievo che tale “eccezione” era stata avanzata solo in comparsa conclusionale; ed è certamente vero che la statuizione è sul punto giuridicamente errata, visto che l'”eccezione” era sempre quella originariamente formulata, che però, quanto alla revocatoria fallimentare, era nel senso della sostanziale infondatezza dell’azione per essere decorso il periodo sospetto – visto che la prescrizione era stata eccepita solo per l’ipotesi che l’azione fosse qualificata come revocatoria ordinaria, e in tal caso per decorso del quinquennio. Sicchè deve correggersi l’assunto della corte territoriale, giacchè la prima – che qui unicamente interessa – era propriamente una difesa, non un’eccezione.

Tuttavia l’erroneità di codesto profilo non inficia la decisione finale, dal momento che, seppure in modo tecnicamente inappropriato, quel che la corte d’appello ha inteso dire è abbastanza evidente: la questione afferente la qualificazione del contratto come definitivo anzichè come preliminare che pur avrebbe potuto incidere sulla sottoponibilità dell’atto a revocatoria fallimentare in ragione della decorrenza del periodo sospetto – era stata avanzata per la prima volta in comparsa conclusionale, giacchè anteriormente il negozio era sempre stato dalla stessa parte convenuta qualificato come preliminare.

In questo senso, considerare la linea difensiva incentrata su questione nuova era (ed è) corretto, giacchè lo scrutinio di tale questione implicava, per definizione, l’espletamento di nuove indagini in fatto.

L’art. 190 c.p.c., comma 2, prescrivendo che le comparse conclusionali devono contenere le sole conclusioni già fissate dinanzi all’istruttore e il compiuto svolgimento delle ragioni di fatto e di diritto su cui esse si fondano, mira giustappunto ad assicurare che non sia alterato, nella fase decisionale del procedimento, in pregiudizio dei diritti di difesa della controparte, l’ambito obiettivo della controversia, quale precipitato della fase anteriore; donde non impedisce – è vero – che la parte interessata esponga, nella comparsa conclusionale, una nuova ragione giustificativa della sua eccezione o difesa (o anche, per l’attore, una nuova ragione giustificativa della domanda), ma purchè ciò avvenga nei limiti dei fatti in precedenza accertati o delle acquisizioni processuali mai oggetto di contestazione tra le parti (v. Cass. n. 19894-05, Cass. n. 21844-10).

Quel che non è dato, invece, all’attore come al convenuto, è apportare in comparsa conclusionale aggiunte o modifiche alle postulazioni mediante affermazione di nuovi fatti; e tali sono senza dubbio, rispetto alla netta e univoca prospettazione per cui tra le parti era stato concluso un preliminare di vendita, quelle concretizzate dal rilievo per il cui contratto, anzichè come preliminare, era stato stipulato come definitivo, e finanche di cosa futura.

Tanto conduce al rigetto di tutti i precitati motivi di ricorso, visto che non è più rilevante, una volta stabilito che la questione avanzata in conclusionale era in punto di fatto nuova, indagare i profili della data certa del contratto. Questo perchè la qualificazione di esso, in causa, era comunque quella di un semplice preliminare; donde l’azione revocatoria fallimentare, rispetto al fallimento dichiarato il 5-8-1995, era certamente proponibile non essendo decorso il periodo sospetto allora rilevante (L. Fall., art. 67, comma 1, n. 1, nel testo pro tempore vigente) a fronte del definitivo di vendita del 30-12-1993.

IV. – Col quinto mezzo i ricorrenti censurano la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 166,167,112 e 113 c.p.c., D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 150 e art. 12 preleggi, per aver ritenuto inammissibile, poichè sollevata solo in appello, l’eccezione relativa alla mancata applicazione della L. Fall., art. 67, secondo la nuova formulazione, non essendosi considerato che il nuovo testo della previsione doveva essere applicato d’ufficio quale ius superveniens. Per il caso contrario, i ricorrente chiedono che sia sollevata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 150, per violazione dell’art. 3 Cost., stante la disparità di trattamento del convenuto in revocatoria nell’ambito di fallimenti dichiarati prima della riforma.

Sia il motivo che la questione di costituzionalità sono manifestamente infondati.

Innanzi tutto va puntualizzato che la corte d’appello non si è limitata al profilo di rito, ma ha ritenuto inapplicabile la nuova disciplina al caso di specie essendosi trattato di fallimento dichiarato il 3-8-1995.

Ora, poichè questo fatto è certo, i ricorrenti finiscono per invocare, mediante riferimento al ius superveniens, un’applicazione retroattiva del nuovo testo della L. Fall., art. 67.

Per contro l’applicazione retroattiva della nuova formulazione della L. Fall., art. 67, introdotta dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, è esclusa in base all’art. 150 del medesimo Decreto, e ciò manifestamente non contrasta con l’art. 3 Cost., atteso che rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire, rispetto a tutti i destinatari che versino in una certa situazione, la decorrenza della data di applicazione di una nuova disposizione di legge e anche differirne l’entrata in vigore per esigenze di ordine generale (v. Cass. n. 267-07).

Invero le modifiche apportate all’istituto della revocatoria fallimentare a seguito del D.L. n. 35 del 2005, art. 2, comma 2 (convertito nella L. n. 80 del 2005) si applicano soltanto alle azioni proposte nell’ambito di procedure concorsuali iniziate dopo l’entrata in vigore del decreto stesso, cioè aperte dopo il 17 marzo 2005, trattandosi di norme innovative (cfr. Cass. n. 5962-08, Cass. n. 20834-10, Cass. n. 24868-15).

V. – Col sesto motivo i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli artt. 2704,2709,2714 c.c., nonchè degli artt. 2700 e 2729 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., con riferimento alla ritenuta, da parte della corte d’appello, mancata prova del pagamento di un maggior prezzo rispetto a quello risultante dal contratto, con conseguente omesso esame del fatto decisivo costituito dal menzionato versamento di un prezzo pari al valore dell’immobile compravenduto.

Il motivo è inammissibile.

L’impugnata sentenza, premesso che i convenuti avevano dedotto la simulazione del prezzo sul rilievo di aver pagato una somma superiore a quella risultante dal contratto, ha affermato che tale fatto non era stato provato con documenti di data certa anteriore al fallimento, in relazione alla specifica circostanza del collegamento del versamento con il contratto revocabile. Al medesimo fine la corte territoriale ha precisato che gli assegni prodotti dalle parti non risultavano intestati al venditore, nè era stato dimostrato che fossero stati incassati da lui. Ed eguale carenza ha riscontrato in ordine alle quietanze, osservando che, per quanto rilasciate da D.M., (i) esse non contenevano la specificazione dell’importo e dell’autore del versamento, (ii) si riferivano a un appartamento non identificabile con quello acquistato dai convenuti, infine (iii) una delle matrici prodotte neppure conteneva la causale, nè appariva riconducibile alla fattura evocata.

La motivazione riflette l’esame delle prove e postula una valutazione in ordine alla loro concludenza. Essa non contiene errori di diritto ed è qui censurata nella mera inammissibile prospettiva di una rivisitazione del giudizio di fatto.

VI. – Col settimo mezzo i ricorrenti assumono che la corte d’appello abbia violato gli artt. 112,115 e 116 c.p.c., quanto al carattere devolutivo dell’impugnazione, avendo loro negato la possibilità di invocare la rivalutazione monetaria sugli importi versati negli anni 1990 e 1991 sino alla data del contratto pubblico di vendita.

Il motivo è inammissibile per difetto di correlazione con la ratio decidendi: i ricorrenti censurano quanto affermato dalla corte d’appello a pag. 6 della motivazione, e tuttavia omettono di considerare che in quella specifica parte la corte veneta si è infine determinata a sostenere che “pur attualizzando il corrispettivo versato anticipatamente” quello complessivamente considerato era pur sempre “ben inferiore al valore di mercato del bene”; dunque non eliminava la sproporzione tra le prestazioni posta al fondo dell’azione revocatoria.

Si tratta anche in questo caso di una valutazione di merito, rispetto alla quale è inconferente il richiamo al principio devolutivo del gravame.

Quel che conta è che, così specificata, la ratio della sentenza non è adeguatamente censurata, poichè i ricorrenti, in nome della anzidetta generica formulazione del motivo, finiscono per semplicemente opporre il distinto fatto che, invece, l’attualizzazione avrebbe dovuto ritenersi suscettibile di incidere sulla sproporzione; cosa che corrisponde a un mero loro asserto e che, soprattutto, esula dai noti limiti cognitivi del giudizio di legittimità.

VII. – Egualmente inammissibile è l’ottavo motivo di ricorso, relativo al profilo della scientia decoctionis.

Con esso si deduce la violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 67, art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. e l’omesso esame del fatto decisivo costituito dall’asseverazione di stima dell’immobile e dell’autorizzazione giudiziale all’acquisto per conto del minore.

I ricorrenti lamentano che sarebbe mancata la prova dell’esteriorizzazione dello stato di insolvenza nel periodo compreso tra novembre 1990 e gennaio 1991, allorchè era stata versata la gran parte del prezzo e firmato il contratto preliminare, e sostengono che l’esatto contrario si sarebbe dovuto ricavare dall’asseverazione di stima in ordine al valore del bene, alla quale sarebbe stato poi adeguato il prezzo di vendita.

E’ dirimente notare come l’argomentazione svolta nel motivo sia in sè inficiata dall’erroneo riferimento a quanto si sarebbe verificato all’epoca del preliminare.

Ciò in linea generale non rileva affatto, dinanzi alla revocatoria del contratto definitivo stipulato a distanza di circa tre anni. Anche a voler prescindere dal rilievo che le riferite circostanze non emergono dalla sentenza e non sono nel ricorso assistite dal necessario livello di autosufficienza, resta il fatto che delle stesse non è dato di apprezzare la decisività rispetto alla questione della prova della inscientia decoctionis, rispetto alla quale l’onere incombeva ai convenuti (L. Fall., art. 67, comma 1).

VIII. – Infine è inammissibile l’ultimo motivo, col quale la sentenza viene censurata nel capo concernente la condanna alle spese.

Si assume violato l’art. 92 c.p.c., perchè la corte d’appello avrebbe condannato gli appellanti alle spese del grado nonostante l’accoglimento di un motivo di gravame, e si sostiene che, invece, la corte avrebbe dovuto per tale ragione compensare le spese suddette.

Il motivo è inammissibile perchè dalla motivazione della sentenza si evince che la condanna è stata determinata dalla sostanziale e prevalente soccombenza degli appellanti stessi.

E’ del tutto pacifico che il sindacato della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, sul tema delle spese processuali è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, mentre vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice del merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (di recente, per tutte, Cass. n. 24502-17, Cass. n. 8421-17).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 6 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2019

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