Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11542 del 06/06/2016

Cassazione civile sez. VI, 06/06/2016, (ud. 27/04/2016, dep. 06/06/2016), n.11542

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27353/2014 proposto da:

NORAD SRL – NUOVA ORGANIZZAZIONE ARREDAMENTI DIVANI, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA BARBERINI 12, presso lo studio dell’avvocato FABIO

MARCHETTI, che la rappresenta e difende giusta procura per atto

Notaio Francesco Mazza del 29/10/2014, rep. n. 42379 in atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 853/14/2014 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE di BARI del 19/03/2014, depositata il 09/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/04/2016 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO.

La Corte:

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

Il relatore Cons. Dott. Giuseppe Caracciolo, letti gli atti depositati, osserva:

La CTR di Bari ha rigettato l’appello della “Norad srl”, -appello proposto contro la sentenza n. 196/20/2012 della CTP di Bari che aveva disatteso il ricorso della anzidetta società – ed ha così confermato gli avvisi di accertamento concernenti l’anno 2006, con cui – rispettivamente era stata ridotta la perdita di esercizio dichiarata, con determinazione di maggiore IVA ed IRAP (ed inflitte le conseguenti sanzioni) ed erano state rideterminate ulteriori ritenute alla fonte non dichiarate e non versate su redditi di lavoro dipendente erogati in corso d’armo (con applicazione di correlate sanzioni), per conseguenza del rinvenimento in sede di ispezione di una “contabilità parallela” ove apparivano contabilizzate “le ore effettive di lavoro svolte da ogni singolo lavoratore”, donde la ricostruzione induttiva di un maggior ricavo di impresa a mezzo dell’applicazione dell’indice di produzione per addetto, ricavato dallo studio di settore.

La predetta CTR ha argomentato la decisione evidenziando che “gli appunti e le note di lavoro risultano essere stati il solo materiale probatorio alla base dell’accertamento”, materiale assunto “senza alcuna analisi di verifica….sulla corrispondenza tra le note di lavoro, il lavoro effettivamente svolto o eventualmente solo programmato e la effettiva retribuzione erogata”, nonchè evidenziando che le ridette note “risultano essere state anche in parte prive di firma, di data, dell’anno di riferimento”. Ciò posto, la CTR riteneva che fossero assenti i requisiti di gravità, precisione e concordanza nella “valutazione della attendibilità degli elementi a base dell’accertamento”, ciò che aveva anche costituito ragione per “l’assoluzione del legale rappresentante della società in sede penale”.

La parte contribuente ha interposto ricorso per cassazione affidato a unico motivo.

L’Agenzia non si è difesa, se non con tardiva costituzione finalizzata alla sola conservazione della facoltà di partecipazione all’udienza di discussione.

Il ricorso – ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., assegnato allo scrivente relatore, componente della sezione di cui all’art. 376 c.p.c. – può essere definito ai sensi dell’art. 375 c.p.c..

Con il motivo unico di impugnazione (centrato sulla nullità della sentenza ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2) la ricorrente si duole della sentenza di secondo grado per il contrasto insanabile tra la motivazione ed il dispositivo, avendo il giudicante – nella motivazione – condiviso pienamente le censure formulate dalla appellante avverso la decisione di primo grado (a riguardo dell’assenza di valenza probatoria negli elementi indiziari addotti dall’Agenzia a sostegno della pretesa fiscale) ed avendo il medesimo giudicante – ciononostante – adottato un dispositivo di rigetto dell’appello. La pronuncia doveva quindi considerarsi nulla, per effetto di tale insanabile contrasto, perchè “la portata precettiva di una sentenza va individuata tenendo conto non soltanto dal dispositivo ma anche dalla motivazione”, così che è da ritenersi prevalente la statuizione contenuta in una di tali parti del provvedimento, che va interpretato in base all’unica statuizione che esso contiene.

La doglianza appare infondata, e da disattendersi nei seguenti sensi.

Invero, è principio numerose volte affermato da codesta Corte (e noto alla stessa parte ricorrente, che ne richiama una delle pronunce più significative) che: “Deve qualificarsi come errore materiale che non dà luogo alla nullità della sentenza, ma trova rimedio nel procedimento di correzione al di fuori del sistema delle impugnazioni – e come tale si distingue sia “dall’error in iudicando” deducibile ex art. 360 c.p.c., sia dall’errore di fatto revocatorio ex art. 395 c.p.c., n. 4 – quello che si risolve in una fortuita divergenza fra il giudizio e la sua espressione letterale cagionata da mera svista o disattenzione nelle redazione della sentenza e come tale percepibile e rilevabile “ictu oculi”, senza bisogno di alcuna attività ricostruttiva del pensiero del giudice il cui contenuto resta individuabile ed individuato senza incertezza (in applicazione di tale principio la Suprema Corte ha ritenuto integrare errore materiale un contrasto fra motivazione e dispositivo della sentenza, verificatosi a seguito di mera inversione dei termini nella indicazione delle parti)”. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10129 del 20/09/1999).

Anche nella specie di causa appare essersi è verificata siffatta “fortuita divergenza”, emergendo chiaramente dalla motivazione della pronuncia (nonostante l’errore materiale contenuto in dispositivo) che il giudicante intendesse accogliere l’appello avverso la sentenza di primo grado e non respingerlo, mentre diversamente si è espresso per mero lapsus calami e contro il proprio chiaro intendimento.

Orbene, questa Corte ha già evidenziato in numerose altre occasioni (per tutte si vedano Cass. Sez. 6-3, Sentenza n. 15990 del 11/07/2014; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 14966 del 02/07/2007, nonchè Cass. Sez. 6-L, Ordinanza n. 10305 del 10/05/2011, al solo fine di verificare la differente soluzione che si impone nel c.d. “rito lavoro”, in ragione di premesse logiche tutt’affatto differenti da quelle predicabili nel rito che si applica alla presente causa) che sussiste un contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione, che determina la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 156 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4, solo nel caso in cui il provvedimento risulti inidoneo a consentire l’individuazione del concreto comando giudiziale, non risultando possibile la ricostruzione della effettiva statuizione del giudice attraverso il confronto tra motivazione e dispositivo, mercè valutazioni di prevalenza di una delle affermazioni contenute nella prima su altre di segno opposto presenti nel secondo.

Nella specie di causa detta condizione non si verifica affatto e non vi è impedimento logico e lessicale che pregiudichi la comprensione dell’effettivo intendimento del giudice del merito (merce la prevalenza da attribuire a quanto si è detto essere dichiarato nella motivazione della sentenza), sicchè non può farsi luogo alla cassazione delle pronuncia per le ragioni che sono postulate sub specie di violazione.

Difatti, nella motivazione nella decisione della decisione qui impugnata è detto con assoluta chiarezza che la pretesa dell’ufficio doveva intendersi fondata su elementi privi di attendibilità, sicchè non è chi non veda che la combinata lettura di dispositivo e motivazione priva di qualsiasi equivoco il significato complessivo della pronuncia, di che non potrà che prendersi atto nella eventuale sede in cui si volesse provvedere a mettere in esecuzione l’anzidetta sentenza. D’altronde, siffatta soluzione “interpretativa” del complessivo tenore logico della pronuncia impugnata rende priva di utilità anche l’adizione della procedura di correzione dell’errore materiale (che altrimenti si imporrebbe), risultando per espresso dal tenore della presente ordinanza il senso compiuto del provvedimento giudiziale, secondo quanto si trae dalla coerente e puntuale motivazione della pronuncia.

Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per manifesta infondatezza.

Roma, 30 ottobre 2015.

ritenuto inoltre:

che la relazione è stata notificata agli avvocati delle parti;

che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie;

che il Collegio, a seguito della discussione in Camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va rigettato;

che le spese di lite non necessitano di regolazione, atteso che la parte vittoriosa non si è costituita.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2016

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