Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11540 del 15/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 15/06/2020, (ud. 14/01/2020, dep. 15/06/2020), n.11540

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20035-2018 proposto da:

T.N., elettivamente domiciliato in ROMA VIA MAR ROSSO 61,

presso lo studio dell’Avvocato ROBERTO FERRANTI che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

INFRATEL ITALIA S.P.A. – infrastrutture e telecomunicazioni per

l’Italia, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20,

presso lo studio dell’avvocato ANDREA DE VIVO, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1676/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/04/2018 R.G.N. 4337/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/01/2020 dal Consigliere Dott. BOGHETICH ELENA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE ALBERTO che ha concluso per inammissibilità, in subordine

rigetto;

udito l’Avvocato ROBERTO FERRANTI;

udito l’Avvocato FRANCESCA D’ALESSIO per delega verbale Avvocato

ANDREA DE VIVO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 1676 del 27.4.2018 la Corte d’appello di Roma, confermando la statuizione del giudice di primo grado, ha respinto il ricorso proposto da T.N. inteso ad ottenere la dichiarazione dell’illegittimità del licenziamento intimato con lettera del 29.4.2015 da Infratel Italia s.p.a. per avere – in qualità di direttore dei lavori della suddetta società incaricata, quale stazione appaltante, delle gare di appalto bandite nell’ambito del primo intervento attuativo del Piano nazionale banda larga posto in essere condotte illegittime quali la falsa attestazione nei libretti di misura e negli stati di avanzamento dei lavori sia dell’esecuzione di opere mai realizzate sia dell’esecuzione di opere realizzate in misura inferiore rispetto a quelle effettivamente contabilizzate, con conseguente formazione di contabilizzazioni non veritiere nonchè per avere costretto i titolari di alcune imprese subappaltatrici ad eseguire lavori edili di ristrutturazione, a titolo gratuito o con compensi irrisori, presso un suo immobile, nonchè a versare cospicue somme in denaro e ad assumere il figlio per alcuni mesi all’anno e per ingenti compensi.

La Corte territoriale ha ritenuto di escludere, a seguito di ampia disamina della lettera di contestazione disciplinare e della comunicazione di licenziamento, qualsiasi violazione del principio di immutabilità della contestazione e del diritto di difesa, sottolineando che i fatti contestati e sanzionati erano i medesimi e che l’eventuale ravvisata qualificazione in termini di colpa (anzichè di dolo) dell’elemento soggettivo non modificava l’addebito disciplinare; la Corte ha aggiunto che non mutava la ricostruzione degli eventi la circostanza che i lavori fossero stati affidati “a corpo” piuttosto che “a misura”, che il lavoratore non aveva avanzato alcuna richiesta di esibizione di documentazione o di incarico ad un consulente d’ufficio al fine di verificare la correttezza delle contabilizzazioni dei lavori non eseguiti come accertato in sede di indagini preliminari dal pubblico ministero (nell’ambito del processo penale pendente), che, infine, la condotta posta in essere non era contemplata dal c.c.n.l. applicato in azienda tra quelle punibili con sanzione conservativa e poteva, dunque, legittimamente applicarsi la sanzione del licenziamento in considerazione della gravità dell’addebito e in coerenza con i comportamenti elencati dalle parti sociali “a titolo indicativo” nell’ambito della sanzione espulsiva.

Il T. ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza affidato a cinque motivi, al loro interno ulteriormente articolati. La società ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, art. 24 Cost., della L. n. 604 del 1966, art. 5,artt. 2697 e 2909 c.c. nonchè omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) avendo, la Corte, illegittimamente modificato il titolo di recesso in ordine all’elemento soggettivo del fatto imputato al lavoratore (da doloso a colposo) ed avendo trascurato la formazione di giudicato interno maturata, su tale profilo, nella ordinanza emessa in sede sommaria (non impugnata sul punto in sede di opposizione).

2. – Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 5, art. 2697 c.c., artt. 61,115 e 116 c.p.c., il D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 53, nonchè vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) avendo, la Corte, fondato la prova della sussistenza dell’addebito disciplinare imputato al T. unicamente su una consulenza di parte (del pubblico ministero) resa nell’ambito del procedimento penale nonostante l’espressa contestazione svolta dal lavoratore e in assenza di qualsivoglia ulteriore elemento probatorio, sulla base di una erronea interpretazione degli strumenti del contratto di appalto (appalti “a corpo” e non “a misura”).

3. – Con il terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c., in relazione al codice disciplinare contenuto nel c.c.n.l. Quadri e Impiegati delle aziende del gruppo Invitalia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte, erroneamente interpretato l’art. 77 del c.c.n.l. citato nonchè la graduazione del disvalore delle diverse fattispecie ivi prevista, potendosi accostare la fattispecie addebitata al T. ad ipotesi punite con sanzione conservativa.

4. – Con il quarto motivo si lamenta vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) avendo, la Corte, erroneamente ritenuto proporzionata la sanzione espulsiva adottata nei confronti del T., omettendo di valutare gli elementi specifici addotti per ridimensionare il rilievo della vicenda.

5. – Con il quinto motivo si lamenta vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) avendo, la Corte, trascurato le specifiche censure in ordine alla tardività della contestazione disciplinare rispetto all’epoca di effettiva conoscenza dei fatti posti in essere dal lavoratore.

6. Nonostante accenno nelle conclusioni della memoria ex art. 378 c.p.c., va rilevato che il controricorso non contiene alcun ricorso incidentale.

7. Il primo motivo di ricorso è infondato.

7.1. Va premesso che l’opposizione proposta L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 51, non ha natura impugnatoria, ma produce la riespansione del giudizio, chiamando il giudice di primo grado ad esaminare l’oggetto dell’originaria impugnativa di licenziamento nella pienezza della cognizione integrale, con conseguente inapplicabilità dei principi ordinamentali che regolano la formazione del giudicato interno. Invero, secondo orientamento ormai consolidato, nel rito cd. Fornero, il giudizio di primo grado è unico a composizione bifasica, con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, ed una seconda fase, a cognizione piena, che della precedente costituisce una prosecuzione (cfr. Cass. n. 13788 del 2016, Cass. n. 30443 del 2018, Cass. nn. 2930, 5993, 9458 del 2019).

7.2. Va, altresì, sottolineato che l’elemento intenzionale del complessivo fatto addebitato disciplinarmente non integra – nell’ambito della contestazione disciplinare un capo autonomo di sentenza suscettibile di passare in giudicato. L’eccezione di violazione del giudicato interno prospettata dal ricorrente non appare fondata, dovendosi richiamare il principio, conforme all’insegnamento di questa Suprema Corte, secondo cui il giudicato interno può formarsi solo su di un capo autonomo di sentenza che risolva una questione avente una propria individualità ed autonomia, così da integrare una decisione del tutto indipendente e determinante ai fini dell’accertamento del diritto. Invero, in base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte, il giudicato interno si forma solo su capi autonomi della sentenza, che risolvano questioni aventi una propria individualità e autonomia, tali da integrare una decisione del tutto indipendente (Cass. n. 17935 del 2007; Cass. n. 23747 del 2008), non anche su quelli relativi ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in concreto adottata (Cass. n. 22863 del 2007); ove non sia stata proposta impugnazione nei confronti di un capo della sentenza e sia stato, invece, impugnato un altro capo strettamente collegato al primo, è da escludere che sul capo non impugnato si possa formare il giudicato interno (vedi, per tutte: Cass. n. 4934 del 2010); la violazione del giudicato interno si può verificare soltanto quando la sentenza di primo grado si sia pronunziata espressamente su una questione del tutto distinta dalle altre e tale specifica pronunzia non può considerarsi implicitamente impugnata allorchè il gravame sia proposto in riferimento a diverse statuizioni, rispetto alle quali la questione stessa non costituisca un antecedente logico e giuridico, così da ritenersi in esse necessariamente implicata, ma sia soltanto ulteriore ed eventuale e, comunque, assolutamente distinta (Cass. n. 28739 del 2008).

Il vincolo del giudicato, quindi, non può ravvisarsi nel preteso passaggio in giudicato di una parte dell’argomentazione dedicata alla verifica del rispetto del principio della immutabilità della contestazione, perchè la disamina effettuata dal Tribunale in ordine all’elemento soggettivo del fatto imputato al lavoratore non ha nessuna individualità o autonomia tale da integrare una decisione indipendente, suscettibile di passare in cosa giudicata, ma è una semplice argomentazione adoperata per negare, nel caso concreto, la diversità del fatto materiale.

7.3. In ogni caso, la Corte territoriale ha chiaramente pronunciato sulla censura relativa alla immutabilità del fatto contestato con particolare riguardo al profilo dell’elemento soggettivo (censura che, invero, appare una mera riproposizione dei motivi di appello) nel senso del suo rigetto, avendo dapprima svolto una attenta disamina comparata del contenuto della lettera di contestazione disciplinare e di quello della lettera di licenziamento per giungere a respingere qualsiasi profilo di difformità in ordine alla condotta imputata al T., ed avendo, poi, aggiunto che anche una diversa qualificazione dell’elemento soggettivo della condotta (colpa anzichè dolo) non era suscettibile di modificare i fatti addebitati al lavoratore, non conseguendo alcun pregiudizio al diritto di difesa.

In particolare, la Corte distrettuale ha precisato che “Difatti, anche a supporre che il fatto della difformità sia stato contestato a titolo doloso (ed a ciò induce il riferimento “al fine di procurare un ingiusto profitto alla IMET”), la ritenuta sussistenza di una responsabilità a titolo di colpa generica si concreta solo in una diversa qualificazione del medesimo fatto contestato (anzi di uno dei fatti contestati) attuata con il ridimensionamento dell’elemento soggettivo addebitato. Ed invero il fatto materiale rimane perfettamente identico (di aver falsamente – e cioè contrariamente al vero attestato, nei libretti di misura e negli stati di avanzamento dei lavori, l’esecuzione di opere mai realizzate, ovvero l’esecuzione di opere in misura superiore rispetto a quelle effettivamente realizzate, nell’ambito della gara di appalto relativa al lotto Sardegna; oppure più specificamente “la difformità, in ben 15 cantieri su 16, relativi alle opere realizzate a seguito dell’appalto bandito nell’ambito del primo intervento attuativo del Piano Nazionale Banda Larga (lotto 6 – Regione Sardegna), tra le opere effettivamente realizzate nei singoli siti e le opere invece contabilizzate, con gravissimo danno economico per la società scrivente”) mentre muta solo, ed in favore dell’incolpato attraverso la riduzione del titolo di imputazione, la valutazione dell’elemento psicologico di rilievo”.

La sentenza impugnata si è correttamente conformata ai principi espressi da questa Corte in materia di immodificabilità o immutabilità del fatto contestato. Invero, questa Corte ha ripetutamente affermato che nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore, l’essenziale elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell’addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a richiamare quanto in precedenza contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro a descrivere nuovamente i fatti in contestazione per rendere puntualmente esplicitate le motivazioni del recesso e per manifestare come gli stessi non possano ritenersi abbandonati o superati (Cass., ord., n. 28471 del 2018).

E’ stato, in particolare, affermato che in virtù di detto principio, i fatti su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio devono coincidere con quelli oggetto dell’avvenuta contestazione. E’ stato ribadito il principio per il quale, ai fini del rispetto delle garanzie previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, il contraddittorio sul contenuto dell’addebito mosso al lavoratore può ritenersi violato (con conseguente illegittimità della sanzione, irrogata per causa diversa da quella enunciata nella contestazione) solo quando vi sia stata una sostanziale immutazione del fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell’episodio e al complesso degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente, ossia quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa (cfr., tra le altre,Cass. n. 2935 del 2013).

Nello stesso senso si è sancito che: “il principio della immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 7, attiene alla relazione tra i fatti contestati e quelli che motivano il recesso e, pertanto, non riguarda la qualificazione giuridica dei fatti stessi, in relazione all’indicazione delle norme violate” (cfr. Cass. n. 7105 del 1994). Invero, la qualificazione del fatto è un proprium del giudice, non del datore di lavoro.

E ancora questa Corte ha affermato che: “In tema di licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto), ma l’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stesso, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione anche diversamente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, assicura al lavoratore incolpato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata laddove aveva ritenuto illegittimo il licenziamento che, facendo seguito ad una contestazione disciplinare relativa alla constatazione di un “ammanco” di un certo quantitativo di merce semilavorata in oro, aveva richiamato altra ipotesi del c.c.n.l., relativa al furto in azienda)” (cfr. Cass. n. 6499 del 2011).

Deve, pertanto, nuovamente ribadirsi che sussiste una modifica della contestazione disciplinare solamente ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle già contestate, non quando il datore di lavoro proceda ad un diverso apprezzamento e qualificazione dello stesso fatto.

Da ultimo, va rilevato che lo stesso orientamento citato dal ricorrente (Cass. n. 26678 del 2017) conferma la necessità, per rinvenire un mutamento della contestazione disciplinare, di una modifica delle caratteristiche oggettive del comportamento addebitato al lavoratore, che – nel caso richiamato – consisteva nel ritrovamento di una tessera piuttosto che nella sottrazione della stessa al legittimo titolare.

8. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.

Preliminarmente, va rammentato che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicchè è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito (cfr. Cass. n. 19959 del 2014). Invero, la censura ripercorre pedissequamente il motivo di appello proposto ed affrontato dalla Corte di appello senza presentare specifiche contestazioni al decisum della sentenza impugnata.

Inoltre, la censura è prospettata con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass. 12 febbraio 2014, n. 3224; Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).

Invero, la Corte distrettuale ha rilevato che il lavoratore non ha specificamente contestato i fatti (a suo carico) risultanti dalla relazione dell’ausiliario dei Pubblico Ministero che procedeva nei suoi confronti per i reati di concussione e truffa aggravata (e relativi a contabilizzazioni di lavori in realtà mai eseguiti), non ha chiesto l’esibizione di documentazione contabile nè ha formulato istanza di consulenza tecnica d’ufficio; ha, conseguentemente, ritenuta provata la condotta addebitata al lavoratore.

Va rammentato che questa Corte ha già statuito che il giudice civile può legittimamente utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale e fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine al diretto esame del contenuto del materiale probatorio ovvero ricavandoli dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo in modo da accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al proprio vaglio critico (cfr., tra le altre, Cass. n. 1095 del 2007, Cass. nn. 15112 e 22463 del 2013, Cass. n. 4758 del 2015, e da ultimo Cass. n. 10853 del 2019).

In ordine ai lavori da eseguire “a corpo” e non “a misura”, è evidente che il ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in agione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) bensì un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che – nella versione ratione temporis applicabile – lo circoscrive all’omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014).

Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è assente o meramente apparente, nè gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori. La sentenza impugnata ha ampiamente esaminato i fatti controversi ed accertato la falsa contabilizzazione di opere, aggiungendo che “E’ tuttavia chiaro che pure nell’appalto a corpo la prestazione dell’appaltatore rimane quella di realizzazione delle opere previste nel progetto cosicchè se queste vengono a mancare, in tutto od in parte, ne deriva un inadempimento in capo all’appaltatore, con conseguente pregiudizio in danno del committente, il quale paga il prezzo pattuito. Ed è ciò che risulta avvenuto nel caso di specie, stando quanto emerge dalla consulenza redatta dal consulente tecnico del P.M.”.

9. Il terzo motivo di ricorso non è fondato.

Va, in primo luogo, rilevato che la violazione della norma del contratto collettivo doveva essere prospettata come violazione diretta della stessa, senza dedurre la violazione dei canoni ermeneutici codicistici. E’ stato, invero, affermato da questa Corte che “La denuncia di violazione o di falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi di lavoro, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, art. 2 è parificata sul piano processuale a quella delle norme di diritto, sicchè, anch’essa comporta, in sede di legittimità, l’interpretazione delle loro clausole in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (artt. 1362 ss. c.c.) come criterio interpretativo diretto e non come canone esterno di commisurazione dell’esattezza e della congruità della motivazione, senza più necessità, a pena di inammissibilità della doglianza, di una specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, nè del discostamento da parte del giudice di merito dai canoni legali assunti come violati o di una loro applicazione sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti” (cfr. Cass. nn. 6335 e 18946 del 2014; da ultimo Cass. n. 28164 del 2018, par. 8).

Questa Corte ha, in ogni caso, affermato che in tema di licenziamento per giusta causa, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, pur se la scala valoriale formulata dalle parti sociali deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c. (cfr. da ultimo Cass. n. 14063 del 2019).

La Corte distrettuale ha esaminato le fattispecie esemplificativamente previste dal c.c.n.l. di settore nell’ambito del codice disciplinare (pagg. 10 e 11 della sentenza impugnata), rilevando, dapprima, che la condotta imputata al T. non risultava tra le fattispecie indicate (seppur in via esemplificativa) dal c.c.n.l. e, in seconda battuta, che, fra le condotte punite con sanzioni espulsive, risultava l’ipotesi dell’assenza ingiustificata oltre tre giorni consecutivi nell’anno solare, fattispecie che non risultava necessariamente connotata dalla presenza del dolo nè meno grave di quella imputata al T. e, per contro, le mancanze punite con sanzioni conservative risultavano per difetto non comparabili, per minor grado di gravità (ed anche se assistite da dolo), con quella in esame.

La Corte distrettuale si è, pertanto, conformata ai principi statuiti da questa Corte, effettuando una valutazione comparata dell’addebito rivolto al T. con le fattispecie negoziali previste, in via esemplificativa, dalle parti sociali e pervenendo ad escludere il pari disvalore sociale con le condotte punite con sanzioni conservative; la censura del ricorrente si risolve, dunque, nella mera proposizione di una lettura delle clausole contrattuali conforme alla propria prospettazione.

La censura, inoltre, ove invoca la reintegrazione nel posto di lavoro per carenza di riconducibilità del fatto contestato alle fattispecie punite dal c.c.n.l. con sanzione espulsiva dimostra di confondere i due momenti logico-giuridici che connotano, a seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012, alla L. n. 300 del 1970, art. 18, il procedimento di valutazione della legittimità di un licenziamento.

Invero, come affermato da questa Corte (Cass. n. 12365 del 2019), il giudice deve, in primo luogo, accertare se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo la riforma del 2012 “modificato le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla L. n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo” (così Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017).

Nel caso in cui il giudice escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, deve svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore seconda – disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste, dall’art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria (“insussistenza del fatto contestato” ovvero fatto rientrante “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”), dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale” (ancora Cass. SS.UU. n. 30985 del 2017).

Avuto riguardo alle previsioni della contrattazione collettiva che graduano le sanzioni disciplinari, questa Corte, essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale, ha più volte espresso il generale principio che tali previsioni non vincolano il giudice di merito (ex plurimis, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011), anche se “la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.” (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 del 2018).

Il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (L. n. 604 del 1966, art. 12). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse “non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva”, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).

Nel caso di specie, la Corte distrettuale – nel rispetto dei principi richiamati – ha verificato che la condotta posta in essere dal T. non risultava prevista nell’ambito delle condotte punite dal c.c.n.l. con sanzione conservativa ed ha poi assunto la scala valoriale disciplinare elaborata dalle parti sociali quale parametro di riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c., pervenendo ad una valutazione di legittimità del licenziamento.

10. Il quarto ed il quinto motivo di ricorso sono inammissibili.

Va osservato che la sentenza in esame (pubblicata dopo l’11 settembre 2012) ricade, ratione temporis, nel regime risultante dalla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la decisione può essere impugnata per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. L’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014), comporta una sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto, dovendosi interpretare, la norma, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Ebbene, la sentenza impugnata ha affrontato, con argomenti logici e coerenti, tutti i profili oggetto delle censure avanzate dal ricorrente, rilevando, in relazione alla proporzionalità della sanzione all’infrazione disciplinare commessa, che tutti gli elementi indicatori della lievità dei fatti proposti dal lavoratore (mancanza di danno patrimoniale per l’azienda, stato di incensuratezza disciplinare, eccessivo carico di lavoro, valore degli appalti eseguiti, assenza di una struttura di sostegno, attinenza della difformità a lavorazioni accessorie) non possono ritenersi – al pari del giudizio espresso dal Tribunale – nè sussistenti/idonei nè adeguti a bilanciare i contrapposti e soverchianti elementi sintomatici della gravità dei fatti accertati (analiticamente esaminati sia con riguardo al profilo del danno risultante all’appaltatore pur se a fronte di appalti “a corpo” sia con riguardo al complesso dei lavori contabilizzati e non eseguiti o eseguiti in parte sia con riguardo al ruolo di Direttore dei lavori svolto dal T., istituzionalmente preordinato a garanzia della stazione appaltante); in relazione alla tempestività della contestazione, la Corte distrettuale ha rilevato che le critiche svolte alla sentenza del Tribunale non erano specifiche nè confutavano gli argomenti sviluppati dal giudice del merito, concludendo che la verifica effettuata dal servizio di Audit aziendale non aveva avuto ad oggetto la difformità tra lavori contabilizzati e lavori effettivamente eseguiti.

11. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite sono regolate secondo il criterio di soccombenza previsto dall’art. 91 c.p.c..

12. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 20012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020

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