Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11539 del 06/06/2016


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Cassazione civile sez. VI, 06/06/2016, (ud. 27/04/2016, dep. 06/06/2016), n.11539

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16968/2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (OMISSIS), in persona del Direttore

Generale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la

rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

V.V.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1054/28/2014 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE di NAPOLI del 2/12/2013, depositata il 03/02/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

27/04/2016 dal Consigliere Re latore Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO.

La Corte:

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

Il relatore Cons. Dott. Giuseppe Caracciolo, letti gli atti depositati, osserva:

La CTR di Napoli ha accolto l’appello dell’Agenzia – appello proposto contro la sentenza n. 247/03/2012 della CTP di Benevento che aveva accolto il ricorso del contribuente V.V. – ed ha così annullato l’avviso di accertamento (adottato a seguito della richiesta di chiarimenti a mezzo di questionario) per IRPEF-IVA-IRAP relative all’anno 2006, avviso nel quale venivano ripresi a tassazione ricavi non dichiarati e disconosciuti costi non deducibili, con conseguente rideterminazione del reddito con metodologia induttiva.

La predetta CTR – dato atto che la parte contribuente aveva anzitutto eccepito l’illegittimità dell’avviso per violazione della regola della L. n. 212 del 2000, art. 12, in riferimento all’elusione del termine di carenza di giorni 60 – ha motivato la decisione evidenziando, che il principio del necessario contraddittorio preprocessuale, specie in materia di accertamenti di genere presuntivo “deve ormai considerarsi imprescindibile presupposto di qualsivoglia determinazione amministrativa fiscale, alla stregua della sentenza “Soproprè” della CGE e della successiva produzione del giudice di legittimità, principio positivamente applicabile per i tributi ed i dazi europei, ma già sussistente nell’ordinamento giuridico italiano a riguardo di tutti gli accertamenti e segnatamente quelli fondati su dati statistici, oltre a quelli fondati sul diretto controllo documentale o presso la sede dell’impresa. Non condivisibile, perciò, la tesi dell’Agenzia circa la non applicabilità di tale regola all’accertamento operato in ragione dei dati esposti dalla stessa parte contribuente, essendo stata comunque violata con riferimento all’IVA, “la regola generale imperativa altresì nel sistema ordinamentale italiano”, con conseguente invalidità dell’accertamento come conseguenza dell’inosservanza del termine di carenza di giorni 60 senza l’allegazione di articolate ragioni di urgenza.

L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.

La parte contribuente si è difesa con controricorso.

Il ricorso – ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., assegnato allo scrivente relatore, componente della sezione di cui all’art. 376 c.p.c. – può essere definito ai sensi dell’art. 375 c.p.c..

Infatti, con il primo motivo di impugnazione (centrato sulla violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12 commi 1, 2 e 7) la parte ricorrente – dopo avere evidenziato che la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che la disciplina dianzi menzionata operi esclusivamente nelle ipotesi di accertamento emesso a seguito di “accessi, ispezioni e verifiche fiscali” eseguiti nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole o professionali – si duole del fatto che il giudicante abbia esteso l’ambito di applicazione della disciplina medesima anche all’ipotesi di accertamento scaturito dall’esame degli atti sottoposti all’amministrazione dallo stesso contribuente.

Il motivo appare fondato e da accogliersi.

Dovendosi muovere proprio dalla premessa che l’accertamento di cui trattasi è il più tipico di quelli adottati dall’amministrazione “a tavolino” (per voler utilizzare la stessa terminologia di parte ricorrente), basta qui significare che in plurime occasioni la Suprema Corte ha ritenuto che: “L’ambito di applicabilità dei “diritti e delle garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali” stabiliti dall’art. 12 dello statuto dei diritti del contribuente, postula, a norma del comma 1 della norma, lo svolgimento di “accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali” del contribuente (Cass. Sent.

n. 7957 del 4 aprile 2014; Cass. Sent. 13.6.2014 n. 13588; Cass. Ord. n. 9176 del 23 aprile 2014; rispondono ad analoghi principi Cass. 26 settembre 2012, n. 16354, che ha riferito le garanzie previste dall’articolo 12 al solo soggetto sottoposto ad accesso nonchè Cass. 4 dicembre 2013, n. 22700).

La ragione sta nel fatto che, in questi casi, lo statuto di diritti e garanzie fa da contrappeso all’invasione della sfera del contribuente, nei luoghi di sua pertinenza, dando corpo ad una specifica esigenza di dare spazio al contraddittorio, al fine di conformare ed adeguare l’interesse dell’amministrazione alla situazione del contribuente, come delineata dagli elementi raccolti dall’ufficio grazie alle attività di verifiche, accessi ed ispezioni nei locali; e ciò in quanto in queste ipotesi è l’amministrazione, in base ai propri poteri d’impulso, a ricercare gli elementi che reputa utili a verificare, o ad escludere, la sussistenza di attività non dichiarata. Differente è, dunque, l’ipotesi in esame, in cui la pretesa impositiva sia scaturita dall’esame degli atti sottoposti all’amministrazione dallo stesso contribuente e dall’amministrazione esaminati in ufficio.

Le stesse Sezioni Unite hanno chiaramente valorizzato il suddetto argomento letterale laddove, enunciando il principio di diritto della sentenza n. 18184/2013, hanno precisato che il termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento decorre “dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni”.

Ancor più di recente, le medesime Sezioni Unite della Corte hanno ancor più chiaramente posto in evidenza che in capo all’Amministrazione finanziaria solo per i tributi “armonizzati” sussiste un obbligo generale di contraddittori endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, mentre per i contributi “non armonizzati” non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicchè esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito (Sentenza n. 24823 del 09/12/2015).

Contrariamente a quanto sostenuto dalla parte contribuente, quindi, le ipotesi del controllo eseguito presso la sede del contribuente e del controllo c.d. a tavolino non possono essere assimilate giacchè, come si è detto, “la naturale vis expansiva dell’istituto del contraddittorio procedimentale nei rapporti tra fisco e contribuente non giunge fino al punto da impone termini dilatori all’azione di accertamento che derivi da controlli fatti dall’Amministrazione nella propria sede, in base ai dati forniti dallo stesso contribuente o acquisiti documentalmente”.

Il precipitato di questi principi nella specie di causa induce alla conclusione che la pronuncia impugnata non abbia fatto corretta applicazione del diritto vivente, da una canto per avere esteso anche a fattispecie non espressamente prevista la regola emergente dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 e dall’altra per avere applicato il principio di origine eurounitaria all’IVA (siccome tributo armonizzato) senza avere previamente acclarato se contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa.

In ragione di ciò, è da concludersi nel senso che la pronuncia impugnata merita cassazione (in accoglimento del primo mezzo e con assorbimento del secondo), con conseguente restituzione della lite allo stesso giudice del merito affinchè torni a riesaminare la controversia e le censure sottoposte all’esame alla luce dei corretti principi e delle regole di diritto sopra identificate.

Si ritiene – perciò – che il ricorso possa essere deciso in camera consiglio per manifesta fondatezza.

Roma 20 dicembre 2015.

ritenuto inoltre:

che la relazione è stata notificata agli avvocati delle parti;

che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie;

che il Collegio, a seguito della discussione in Camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va accolto;

che le spese di lite possono essere regolate dal giudice del rinvio.

PQ.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la decisione impugnata e rinvia alla CTR Campania che, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2016

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