Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11534 del 15/06/2020

Cassazione civile sez. lav., 15/06/2020, (ud. 05/12/2019, dep. 15/06/2020), n.11534

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7846-2014 proposto da:

C.V., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato SILVIO GAROFALO;

– ricorrente –

contro

DIREZIONE PROVINCIALE DEL LAVORO DI AVELLINO, in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA,

alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente –

nonchè contro

MINISTERO LAVORO POLITICHE SOCIALI, VIVAI C. DI

MI.CO. S.R.L. già Vivai C. S.a.S. Azienda Agricola di M.

Co. e figli, CO.MI.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3249/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 17/09/2013 R.G.N. 1929/2011.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Che:

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 3249/2013, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva respinto l’opposizione proposta da C.V. alla ordinanza ingiunzione emessa dalla Direzione provinciale del lavoro di Avellino in ragione di diverse irregolarità relative alla assunzione di manodopera agricola da parte della s.a.s. VIVAI C. di cui C.V. era socio accomandatario all’epoca dei fatti ((OMISSIS));

era intervenuto nel giudizio d’opposizione C.M., quale amministratore unico della Vivai C. & Figli di M. Co., ed aveva contestato quanto affermato dalla parte opponente e cioè che la condotta contestata fosse stata in realtà posta in essere dal medesimo Co., all’epoca socio accomandante, al quale l’opponente aveva ceduto la propria quota sin dal 31 dicembre 2004, con successiva formalizzazione notarile in data 25 gennaio 2005;

la Corte territoriale, dichiarato inammissibile l’appello proposto nei confronti del Co. in proprio, essendo lo stesso intervenuto in primo grado solo quale legale rappresentante della società e dato atto che non era stato impugnato il capo della sentenza che aveva dichiarato inammissibile l’intervento della società, rigettava l’appello in ragione del fatto che il primo giudice aveva correttamente ritenuto responsabile della condotta addebitata alla società il socio accomandatario all’epoca dei fatti, unico responsabile dell’attività societaria;

la sentenza d’appello ha, in particolare, rilevato che la responsabilità amministrativa, ai sensi della L. n. 689 del 1981, è di colui il quale commette l’illecito nell’esercizio delle proprie funzioni, come da costante giurisprudenza di legittimità, con consequenziale irrilevanza della prova per testi richiesta al fine di provare che, in concreto, le omissioni di denuncia dei lavoratori assunti fossero state compiute dal socio accomandante o che vi fosse stata la cessione della quota societaria in favore del medesimo; inoltre, la compensazione delle spese era stata adeguatamente motivata;

avverso tale sentenza, propone ricorso per cassazione C.V. sulla base di cinque motivi illustrati da memoria: 1) violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 324 c.p.c., alla L. n. 689 del 1981, art. 22 e ss. ed al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, in ragione del fatto che la Corte d’appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibile l’intervento in appello della società Vivai C. di Mi.Co. posto che il giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione non ammette intervento di terzi; 2) violazione dell’art. 2320 c.c. e della L. n. 689 del 1981, art. 6, in relazione alla circostanza che il socio accomandante, qualora compia concreti atti di gestione, diviene illimitatamente responsabile; 3) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, comma 11, in quanto l’opposizione avrebbe dovuto essere accolta per mancanza di prova della responsabilità; 4) violazione e o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c. in quanto la Corte d’appello aveva deciso senza ammettere la prova richiesta; 5) violazione dell’art. 92 c.p.c., in ragione dai fatto che il ricorrente appellante era stato condannato al pagamento delle spese in favore della società Vivai C. di Mi.Co. & figli s.a.s. nonostante l’intervento della stessa in primo grado fosse stato dichiarato inammissibile e non vi fosse stata impugnazione sul punto;

la Direzione Provinciale del lavoro di Avellino ha resistito con controricorso;

la Società Vivai C. di Mi.Co. s.r.l. e Co.Mi. sono rimasti intimati.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

il primo ed il quinto motivo sono inammissibili per plurime ragioni;

innanzi tutto, viene denunciato un vizio di violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3)) prospettandorealtà un vizio procedurale, che rientra nella diversa previsione del n. 4) del medesimo articolo;

tale vizio, in particolare, deriverebbe dalla violazione della – L. n. 689 del 1981, art. 22 e del D.Lgs. n. 15 del 2011, art. 6, posto che il rito relativo all’opposizione ad ordinanza ingiunzione non prevede l’intervento di terzi, per cui la sentenza impugnata avrebbe dovuto dichiarare inammissibile l’intervento della società Vivai C. di Mi.Co. s.a.s. in appello, anche perchè tale inammissibilità era stata dichiarata in primo grado e non era stata impugnata;

la formulazione in questi termini del motivo è logicamente contraddittoria e non tiene conto del fatto che è stato l’odierno ricorrente ad estendere il giudizio d’appello, oltre che a Co.Mi. in proprio, anche alla s.r.l. Vivai C. di M. Co. (già Vivai C. s.a.s. Azienda Agricola di M. Co. & Figli);

la sentenza della Corte territoriale- non contestata sul punto- ha rilevato l’inammissibilità della estensione del giudizio d’appello nei riguardi di Co.Mi., in proprio, in quanto lo stesso non era stato parte del giudizio di primo grado e che la declaratoria di inammissibilità dell’intervento della società di cui il Co. era legale rappresentante, dichiarata dal primo giudice, non era stata impugnata; i motivi, dunque, non si confrontano con tale contenuto della sentenza impugnata e rivelano un sostanziale difetto di interesse dell’odierno ricorrente posto che la sentenza impugnata ha confermato la inammissibilità dell’intervento accertata dal primo giudice e la regolazione delle spese nel giudizio d’appello, tenuto conto di quanto sopra, ha avuto riguardo alle parti cui l’appello, a torto o a ragione, era stato esteso; i restanti motivi, stante la loro connessione, vanno trattati congiuntamente e sono infondati;

il tema che i medesimi propongono è lo stesso fatto valere nel corso del giudizio di merito ed attiene alla individuazione del soggetto destinatario della ordinanza ingiunzione;

la sentenza impugnata ha correttamente richiamato l’orientamento di questa Corte di cassazione (Cass. n. 3871 del 2012; Cass. n. 30716 del 2018) secondo il quale nel sistema introdotto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, fondato sulla natura personale della responsabilità, autore dell’illecito amministrativo può essere soltanto la persona fisica che ha commesso il fatto, e non anche un’entità astratta, come società o enti in genere, la cui responsabilità solidale per gli illeciti commessi dai loro legali rappresentanti o dipendenti è prevista esclusivamente in funzione di garanzia del pagamento della somma dovuta dall’autore della violazione, rispondendo anche alla finalità di sollecitare la vigilanza delle persone e degli enti chiamati a rispondere del fatto altrui. Il criterio d’imputazione di tale responsabilità è chiaramente individuato dalla L. n. 689 cit., art. 6, il quale, richiedendo che l’illecito sia stato commesso dalla persona fisica nell’esercizio delle proprie funzioni o incombenze, stabilisce un criterio di collegamento che costituisce al tempo stesso il presupposto ed il limite della responsabilità dell’ente, nel senso che a tal fine si esige soltanto che la persona fisica si trovi con l’ente nel rapporto indicato, e non anche che essa abbia operato nell’interesse dell’ente” (Cass. n. 12264 del 2007);

più di recente si è anche precisato che “in tema di sanzioni amministrative, a norma della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3, è responsabile di una violazione amministrativa solo la persona fisica a cui è riferibile l’azione materiale o l’omissione che integra la violazione; ne consegue che, qualora un illecito sia ascrivibile in astratto ad una società di persone, non possono essere automaticamente chiamati a risponderne i soci amministratori, essendo indispensabile accertare che essi abbiano tenuto una condotta positiva o omissiva che abbia dato luogo all’infrazione, sia pure soltanto sotto il profilo del concorso morale” (Cass. n. 26238 del 2011);

orbene, nel caso di specie, correttamente la sentenza impugnata ha disatteso il motivo di opposizione con il quale l’opponente ha sostenuto di non poter essere considerato imputabile con riferimento ad una sostanziale gestione dell’attività da parte di Co.Mi., all’epoca socio accomandante, e ciò in quanto le omissioni delle formalità di assunzione della manodopera agricola non potevano che essere poste in essere dall’unico accomandatario;

invero, dalla qualità di socio illimitatamente responsabile, propria dell’accomandatario, discende la riserva in suo favore del potere di amministrare la società anche se tale attribuzione in via esclusiva non comporta peraltro, come nella società in accomandita per azioni, che essi siano necessariamente amministratori potendosi avere una diversa regolamentazione pattizia;

tale principio ha trovato conferma nella giurisprudenza di legittimità che ha avuto modo di chiarire che l’art. 2318, comma 22, non prevedendo il necessario conferimento a tutti gli accomandatari del potere di amministrazione, ammette che il socio possa assumere i diritti e gli obblighi dell’accomandatario con la esclusione di quelli inerenti alla posizione di amministratore e ne trae il corollario che, nell’ipotesi di dimissioni dell’accomandatario da amministratore, permane in esso la qualifica di accomandatario (Cass. n 5790 del 1997) e si è pure aggiunto che nell’ipotesi di ingerenza nell’amministrazione, gli accomandanti non acquisiscono poteri di rappresentanza della società Euro 6871/1994); da ciò consegue che un socio accomandatario può essere chiamato a rispondere delle obbligazioni sociali pur non avendo in concreto esercitato alcuna attività gestoria (Cass. n. 5428 del 2019);

per tali ragioni, il ricorso va rigettato;

le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura indicata in dispositivo in favore della Direzione Provinciale del lavoro di Avellino; non si deve, invece, provvedere sulle spese in relazione alle parti rimaste intimate.

PQM

La Corte dichiara inammissibili il primo ed il quinto motivo di ricorso, rigetta gli altri, condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della Direzione Provinciale del lavoro di Avellino che liquida in Euro 2800,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi; spese forfetarie nella misura del 1 5 % e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato D.P.R. art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020

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