Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11524 del 30/04/2021

Cassazione civile sez. I, 30/04/2021, (ud. 29/01/2021, dep. 30/04/2021), n.11524

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 1264-2019 r.g. proposto da:

O., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso, giusta

procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Antonio

Almiento, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Oria

(Brindisi), Vico Torre S. Susanna n. 18;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore il Ministro, rappresentato e difeso, ex

lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici in

Roma, Via dei Portoghesi n. 12 è elettivamente domiciliato;

– controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Lecce, depositato in data

23.11.2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/1/2021 dal Consigliere Dott. Amatore Roberto.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

CHE:

1. Con il decreto impugnato il Tribunale di Lecce ha respinto la domanda di protezione internazionale ed umanitaria avanzata da O., cittadino nigeriano (Edo State), dopo il diniego di tutela da parte della locale commissione territoriale, confermando, pertanto, il provvedimento reso in sede amministrativa.

Il tribunale ha ricordato, in primo luogo, la vicenda personale del richiedente asilo, secondo quanto riferito da quest’ultimo; egli ha infatti narrato: 1) di essere originario di Ekemwa Road (Edo State, Nigeria) e di appartenere al gruppo etnico benin e di essere di religione cristiana; li) di essere stato costretto a fuggire dalla Nigeria perchè vittima di minacce da parte degli zii paterni per questioni ereditarie.

Il tribunale ha ritenuto che: a) non erano fondate le domande volte al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, sub il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a e b, in quanto non ricorrevano i presupposti applicativi per il riconoscimento del predetto status e, quanto alla richiesta protezione sussidiaria, anche in ragione della complessiva valutazione di non credibilità del racconto, che risultava, per molti aspetti, non plausibile, generico e contraddittorio, non ricorrendo neanche, in caso di rimpatrio, un pericolo collegato all’epidemia da febbre di Lassa in Nigeria, come documentato dalla nota del Ministero della Salute del 23.3.2018; b) non era fondata neanche la domanda di protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c, del D.Lgs. n. 251 del 2007, in ragione dell’assenza di un rischio-paese riferito all’Edo State, stato nigeriano di provenienza del richiedente, collegato ad un conflitto armato generalizzato; c) non poteva accordarsi tutela neanche sotto il profilo della richiesta protezione umanitaria, perchè il ricorrente non aveva dimostrato un saldo radicamento nel contesto sociale italiano nè una condizione di soggettiva vulnerabilità determinata dalla compressione in Nigeria dei diritti umani fondamentali della persona.

2. Il decreto, pubblicato il 23.11.2018, è stato impugnato da O. con ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, contro cui il Ministero dell’Interno si è difeso con controricorso.

La parte ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 per omesso esame del ricorrente, con conseguente nullità del decreto impugnato e del relativo procedimento.

1.1 Il motivo è inammissibile.

1.1.1 Sul punto, giova ricordare che, secondo un orientamento espresso recentemente da questa Corte (cui anche questo Collegio intende fornire continuità applicativa, condividendone le ragioni), in riferimento alla mancata audizione del richiedente in sede giurisdizionale in caso di procedimento D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis “nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso non vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda (sufficientemente distinti da quelli allegati nella fase amministrativa, circostanziati e rilevanti); b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) il richiedente faccia istanza di audizione nel ricorso, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire chiarimenti e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile” (Sez. 1, Sentenza n. 21584 del 07/10/2020; in senso conforme, anche Sez. 1, Sentenza n. 22049 del 13/10/2020, secondo cui verbatim “il corredo esplicativo dell’istanza di audizione deve risultare anche dal ricorso per cassazione, in prospettiva di autosufficienza; in particolare il ricorso, col quale si assuma violata l’istanza di audizione, implica che sia soddisfatto da parte del ricorrente l’onere di specificità della censura, con indicazione puntuale dei fatti a suo tempo dedotti a fondamento di quell’istanza”).

1.1.2 Ciò posto, le doglianze articolate dal ricorrente sul punto qui in discussione sono inammissibili perchè formulate in modo del tutto generico, non avendo il richiedente spiegato e specificato, nel presente ricorso per cassazione, i fatti a suo tempo dedotti a fondamento dell’istanza di audizione avanzata innanzi ai giudici del merito e non avendo neanche dedotto la rilevanza ed utilità del predetto mezzo istruttorio.

2. Con il secondo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e della dir. 2004/83/CE, in relazione al dovere officioso di acquisire informazioni e documenti rilevanti, nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, vizio di motivazione per irriducibile contrasto di affermazioni contenute nel provvedimento impugnato in riferimento al rischio collegato alla situazione epidemica della febbre di Lassa.

2.1 La doglianza, per come prospettata dal ricorrente, è inammissibile, posto che il decreto impugnato – con valutazione in fatto (qui non più censurabile, se non nei ristretti limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – ha escluso il rischio alla salute del richiedente in caso di rimpatrio in Nigeria collegato alla situazione pandemica della febbre di Lassa, evidenziando, sulla base della documentazione acquisita (nota del 23.3.2018 del Ministero della salute), l’andamento decrescente della epidemia e l’avvenuta predisposizione di idonee misure di profilassi e di centri di cura attrezzati.

Ogni ulteriore riflessione, sul punto qui da ultimo in esame, farebbe scivolare inevitabilmente il giudizio di questa Corte sull’inammissibile terreno delle valutazioni di merito che sono inibite invece al giudice di legittimità.

3. Con il terzo motivo si censura il provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 14 in riferimento al diniego della invocata protezione sussidiaria.

3.1 La censura, per come prospettata dal ricorrente, è invero inammissibile.

3.1.1 Quanto al profilo di censura declinato in relazione alla mancata considerazione del possibile agente di danno “privato”, inquadrabile nel paradigma applicativo di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c, occorre chiarire come la doglianza così prospettata sia completamente decentrata rispetto alla ratio decidendi della motivazione impugnata che, in ordine al diniego della richiesta protezione internazionale, si fonda principalmente sul giudizio di non credibilità del racconto del richiedente, ratio neanche censurata da parte di quest’ultimo così rendendo superfluo l’esame delle ulteriori deduzioni difensive articolate sul punto qui da ultimo in esame.

3.1.2 In relazione, poi, al diniego della richiesta protezione sussidiaria e alla dedotta violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), denunciata con riguardo al mancato approfondimento istruttorio officioso relativo alla situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, giova ricordare che, alla stregua delle indicazioni ermeneutiche impartite da questa Corte, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014; C-542/13, par. 36; C-285/12; C-465/07), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 6 1, Ordinanza n. 13858 del 31/05/2018).

Il motivo – così articolato in relazione al diniego della reclamata protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c, – è inammissibile perchè volto a sollecitare questa Corte ad una rivalutazione delle fonti informative per accreditare, in questo giudizio di legittimità, un diverso apprezzamento della situazione di pericolosità interna della Nigeria (Edo State), giudizio quest’ultimo inibito alla corte di legittimità ed invece rimesso alla cognizione esclusiva dei giudici del merito, la cui motivazione è stata articolata – sul punto qui in discussione – in modo adeguato e scevro da criticità argomentative, avendo specificato, sulla base della consultazione di qualificate fonti di informazione, che nell’Edo State non si assiste ad un conflitto armato generalizzato, tale da integrare il pericolo di danno protetto dalla norma sopra ricordata.

4. Il ricorrente censura inoltre il decreto impugnato, prospettando una quarta doglianza con la quale declina vizio di violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, anche in relazione alle previsioni di cui al D.P.R. n. 349 del 1999, art. 28, comma 1, alla L. n. 110 del 2017, nonchè all’art. 10 Cost. e 3Cedu, per non aver riconosciuto il tribunale la richiesta protezione umanitaria in presenza di condizioni ostative all’espulsione dello straniero collegate al rischio di persecuzione nel paese di provenienza.

4.1 Anche in questo caso le censure – peraltro formulate in modo generico e rivolte ad una rivalutazione in fatto dei presupposti applicativi dell’invocata tutela – non si confrontano con le rationes dedidendi poste a sostegno del diniego dell’invocata protezione umanitaria, e cioè l’accertamento, con scrutinio in fatto non più censurabile in questa sede se non nei ristretti termini di cui al novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, della mancanza sia del requisito dell’integrazione socio-lavorativa del ricorrente nel contesto italiano sia del requisito di una condizione di soggettiva vulnerabilità collegata ad una possibile situazione di deprivazione dei diritti umani fondamentali nel paese di provenienza, con ciò escludendo che il giudizio di comparazione richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. ss.uu. n. 29459/2019 e Cass. 4455/2018) si potesse risolvere in senso favorevole al richiedente con l’accertamento di una condizione di vulnerabilità qualificata in vantaggio di quest’ultimo.

5. Con il quinto motivo si articola, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, vizio di violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dell’art. 8 Cedu e, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di omesso esame di un fatto decisivo, sempre in relazione al mancato riconoscimento della protezione umanitaria. La censura, per come prospettata dal ricorrente, è inammissibile.

5.1 E’ necessario premettere che la giurisprudenza di vertice espressa da questa Corte, negli arresti già sopra ricordati (v. ss.uu. n. 29459/2019) ha fissato il principio secondo cui “In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato”. Tale approdo interpretativo costituisce la conferma del precedente orientamento giurisprudenziale rappresentato dalla nota sent. n. 4455/2018, secondo la quale il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza”.

5.1.1 Ciò posto in termini generali, va subito osservato come il tribunale salentino non si sia invero sottratto al giudizio comparativo sopra ricordato, escludendo in radice che tale bilanciamento si potesse risolvere in senso favorevole al richiedente già solo per la mancata dimostrazione da parte di quest’ultimo di un’adeguata integrazione sociale nel paese di accoglienza e comunque per l’assenza di una condizione di soggettiva vulnerabilità collegata ad una situazione di deprivazione del nucleo fondamentale dei diritti umani nel paese di provenienza.

5.2 Sotto altro profilo, la censura è inammissibile anche perchè vorrebbe far ripetere alla Corte di legittimità un nuovo scrutinio sui presupposti fattuali che presidiano il giudizio comparativo sopra evocato, e cioè il grado di integrazione del richiedente nel contesto sociale italiano e la condizione di soggettiva vulnerabilità nel senso sopra chiarito, scrutinio che – come è noto – è inibito a questo giudice.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

Per quanto dovuto a titolo di doppio contributo, si ritiene di aderire all’orientamento già espresso da questa Corte con la sentenza n. 9660/2019.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2021

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