Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11519 del 15/06/2020

Cassazione civile sez. I, 15/06/2020, (ud. 05/02/2020, dep. 15/06/2020), n.11519

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18374/2014 proposto da:

Bulfaro s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, viale Parioli, 180, presso lo

studio dell’avvocato Sanino Mario, che la rappresenta e difende,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Anas s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12, presso

l’Avvocatura Generale Dello Stato, che la rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3380/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 21/05/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

05/02/2020 dal Cons. Dott. DE MARZO GIUSEPPE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata il 21 maggio 2014 la Corte d’appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado, ha dichiarato la nullità del lodo arbitratile sottoscritto il 18 giugno 2010 e depositato il 19 giugno 2010, con il quale erano state accolte alcune delle domande proposte nei confronti dell’ANAS s.p.a. (d’ora innanzi, ANAS) dalla Bulfaro s.p.a. (già Bulfaro s.r.l.), in relazione al contratto concluso tra di loro.

2. La Corte territoriale si confrontava con la seguente clausola (art. 21 del contratto d’appalto, riprodotto nel capitolato speciale): “tutte le controversie tra l’Amministrazione appaltante e l’Impresa che potrebbero insorgere in conseguenza dell’appalto di lavori restano disciplinate dalla L. 10 febbraio 1994, n. 109 come modificata dal D.L. 3 aprile 1995, n. 101, convertito nella L. 2 giugno 1995, n. 216”.

La Corte d’appello ha osservato: a) che il motivo di appello con il quale si denunciava l’inesistenza della clausola compromissoria si sottraeva alle censure di genericità e di contraddittorietà; b) che al tempo della conclusione del contratto (12 dicembre 1999), l’originaria formulazione della L. n. 109 del 1994, art. 32, come visto richiamata, dall’art. 21 del medesimo contratto e dall’art. 21 del capitolato speciale, era stata modificata dalla D.L. n. 415 del 1998, art. 10, comma 1, che aveva previsto la facoltatività dell’arbitrato; c) che la L. n. 109 del 1994 aveva sostanzialmente rinnovato la previsione obbligatoria dell’arbitrato, talchè doveva ritenersi operante la regola interpretativa individuata da Cass. n. 6921 del 2003, a proposito delle conseguenze della sentenza n. 152 del 1996 della Corte costituzionale, nel senso che il richiamo negoziale delle parti ad una legge (la L. n. 741 del 1981, art. 16, che prevedeva appunto l’obbligatorietà dell’arbitrato), alla cui osservanza esse siano tenute, va inteso come meramente ricognitivo della volontà del legislatore e non come manifestazione di volontà avente ad oggetto la clausola compromissoria; d) che l’ANAS, quale organismo di diritto pubblico, è tenuta all’osservanza della L. n. 109 del 1994, alla stregua dell’art. 2 della stessa legge, conseguenza che il richiamo operato dall’art. 21 del contratto e del capitolato speciale non poteva essere inteso come espressivo di una clausola compromissoria; e) che, pertanto, legittimamente l’ANAS, prima della costituzione del collegio arbitrale, aveva declinato la competenza di quest’ultimo.

3. Avverso tale sentenza la Bulfaro s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui l’ANAS ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli art. 829 c.p.c., comma 1, n. 1; art. 823 c.p.c., comma 2, n. 5; art. 829 c.p.c., comma 1, n. 5; nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c..

Rileva la ricorrente: a) che nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo arbitrale trova applicazione la regola della specificità della formulazione dei motivi; b) che l’ANAS, nell’impugnazione del lodo, aveva eccepito nella rubrica del primo motivo la nullità dello stesso “ai sensi dell’art. 823 c.p.c., punto 5, e art. 829 c.p.c.” e, successivamente, nel corpo della censura, aveva sostenuto che il lodo sarebbe stato privo di un sia pur minimo supporto motivazionale in modo tale da “concretizzare il vizio ex art. 823, comma 2, punto 6 in combinato disposto con l’art. 829 c.p.c., punto 5”; c) che da tali rilievi emergeva che la censura aveva riguardo all’assenza di motivazione del lodo in ordine alla ritenuta efficacia della declinatoria; d) che la norma valorizzata dalla sentenza impugnata (l’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 1), quanto all’invalidità della convenzione di arbitrato, non era stata assolutamente richiamata dall’ANAS e aveva anche precluso la decisione della controversia nel merito.

La doglianza è infondata.

Come ricordato dalla stessa ricorrente, l’ANAS aveva sostenuto, nel suo atto di impugnazione dinanzi alla Corte d’appello: a) che il collegio arbitrale sarebbe stato “privo del potere di decidere la controversia a fronte della declinatoria espressa da questo Patrocinio per conto dell’ANAS, giammai rinunziata neppure esplicitamente”; b) che il contratto “non prevedeva alcuna clausola compromissoria operando un mero rinvio alla L. n. 109 del 1994…”; c) che era palese la contraddittorietà della motivazione che “ammette l’inesistenza dell’arbitrato obbligatorio, ma poi statuisce l’inammissibilità della declinatoria”; d) che il lodo era “del tutto privo di una sia pur minimo supporto motivazionale sì da concretizzare il vizio ex art. 823, comma 2, punto 6 in combinato disposto con l’art. 829 c.p.c., punto 5”.

Ne discende che l’esame complessivo delle censure, al di là del generico cenno alle norme del codice di rito contenuto nella rubrica, consente di evidenziare una puntuale doglianza avente ad oggetto l’assenza di una clausola compromissoria.

La presenza di altre censure non priva la prima della sua specificità ed esclude il vizio attribuito alla sentenza impugnata.

2. Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 109 del 1994, art. 32, come modificato dalla L. n. 216 del 1995 e ulteriormente modificato dalla L. n. 415 del 1998; violazione e falsa applicazione dell’art. 12 preleggi; violazione e falsa applicazione dell’art. 1367 c.c. e del D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 47.

La prima articolazione del motivo investe l’interpretazione operata dalla Corte d’appello della clausola contrattuale, nella sostanza rilevando che, poichè l’art. 21 richiama una disciplina che, all’epoca della conclusione del contratto, già prevedeva la facoltatività dell’arbitrato, essa deve essere intesa, alla stregua del principio di conservazione di cui all’art. 1367 c.c. e del principio di buona fede di cui all’art. 1366 c.c., nel senso di una clausola compromissoria.

In realtà, come la stessa ricorrente riconosce, non è in questione la portata applicativa delle norme di legge richiamate, ma il significato del loro richiamo all’interno della clausola negoziale.

Ciò posto, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg.. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (v., ad es., Cass. 15 novembre 2017, n. 27136).

Nel caso di specie, la Corte territoriale, preso atto della circostanza che all’epoca della conclusione del contratto, la norma richiamata era stata ulteriormente modificata dal legislatore, nel senso di prevedere la mera facoltatività dell’arbitrato, ne ha tratto la conseguenza ermeneutica, che non si espone ad alcuna censura di illogicità, che le parti non avevano inteso prevedere la devoluzione agli arbitri delle controversie che fossero insorte in relazione al contratto tra di loro concluso, ma solo operare un rinvio meramente ricognitivo alla disciplina generale applicabile all’ANAS.

E il richiamo alla menzionata Cass. 28 febbraio 2014, n. 4809 va apprezzato non tanto con riguardo alla specifica clausola contrattuale esaminata nel caso di specie (sicchè del tutto irrilevante appare il particolare contenuto di quest’ultima), quanto nell’affermazione di carattere generale, per la quale, in caso di dubbio sulla interpretazione della portata della clausola, deve preferirsi un’interpretazione affermativa della giurisdizione statuale.

Infondata è la seconda articolazione del motivo.

La Corte territoriale ha rilevato che non sussisteva alcuna tardività dell’iniziativa dell’ANAS di sottrarsi al giudizio degli arbitri, in quanto, al tempo della domanda di arbitrato, l’art. 47 del D.P.R. n. 1063 del 1952 era stato abrogato.

La ricorrente concorda su tale profilo e ne trae spunto per sostenere che la Corte territoriale ha determinato la reviviscenza di un istituto soppresso.

Ma così facendo non coglie che la Corte d’appello si è occupata dell’art. 47 cit. solo per escludere qualunque tardività, laddove la rilevanza della volontà manifestata dall’ANAS di ricorrere alla giurisdizione ordinaria è fondata, come esplicitamente riconosce la sentenza impugnata, sul potere di ciascun contraente di non consentire la devoluzione della controversia ad arbitri, tutte le volte in cui, come nella specie, non sia ravvisabile una specifica volontà contrattuale di derogare alla regola generale della statualità della giurisdizione.

3. Con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per avere la Corte territoriale omesso di esaminare l’eccezione, sollevava dalla Bulfaro s.p.a. nella comparsa di costituzione e risposta, di invalidità o inefficacia della declinatoria della competenza arbitrale, in quanto proveniente non dal legale rappresentante dell’ANAS, ma direttamente dall’Avvocatura dello Stato.

Il motivo è infondato, dal momento che, alla stregua di quanto sopra osservato, la cd. declinatoria non rappresenta, nel caso di specie, un atto sostanziale della parte, ma esprime l’esercizio del potere processuale di rilevare che, non esistendo una clausola compromissoria, un giudizio arbitrale non poteva svolgersi per la mancanza di una volontà della parte stessa.

4. In conseguenza, il ricorso va rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, alla luce del valore e della natura della causa nonchè delle questioni trattate.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020

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