Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11485 del 30/04/2021

Cassazione civile sez. VI, 30/04/2021, (ud. 11/02/2021, dep. 30/04/2021), n.11485

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Rel. Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22151-2019 proposto da:

O.R., elettivamente domiciliato presso la cancelleria

della CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentato e

difeso dall’Avvocato BENEDETTO SCHIMMENTI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE UNIVERSITA’ E RICERCA (OMISSIS), in persona

del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1192/2018 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 16/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di Consiglio non

partecipata dell’11/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. PONTERIO

CARLA.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. il Tribunale di Palermo, con sentenza n. 2849/16, premesso che il ricorrente, O.R., dipendente del Comune di Palermo quale “esecutore addetto ai servizi scolastici”, era transitato alle dipendenze dello Stato, ai sensi della L. n. 124 del 1999, art. 8, nei ruoli del personale scolastico A.T.A., con inquadramento nel livello B/2, ha escluso che nel passaggio si fosse verificato un peggioramento retributivo, accertando che al predetto spettassero, sulla differenza di Euro 596,41 già corrisposta, gli interessi nella misura di Euro 162,96; il ricorso era pertanto accolto limitatamente a tale aspetto, con condanna del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca al pagamento degli interessi;

2. la Corte d’appello di Palermo, con sentenza n. 1192 pubblicata il 16.1.2019, ha respinto l’appello del lavoratore, confermando la decisione di primo grado;

3. avverso tale sentenza O.R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi; il Ministero dell’Università, dell’Istruzione e della Ricerca ha resistito con controricorso;

4. la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

5. con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della direttiva 77/187/CEE, art. 3, comma 1, come interpretato dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 6.9.11, proc. 108/10, in relazione alla L. n. 124 del 1999, art. 8, comma 2, e alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218;

6. addebita alla sentenza d’appello di non avere fatto corretta applicazione della direttiva 77/187/CEE e dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia nella sentenza richiamata nella rubrica del motivo in esame; assume che l’accertamento relativo al peggioramento retributivo avrebbe dovuto essere effettuato tenendo conto dell’anzianità maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo;

7. con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 6 par. 1 della CEDU, dell’art. 1 del protocollo n. 1 della CEDU nella interpretazione datane dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con le sentenze del 7.6.2011 Agrati ed altri contro Italia, dell’11.12.2012 De Rosa contro Italia, del 14.1.2014 Montalto contro Italia, in relazione alla L. n. 124 del 1999, art. 8, comma 2, e alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218; violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30;

8. addebita alla Corte di merito di non avere disapplicato la disposizione contenuta nella L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, della che aveva modificato la norma contenuta nell’art. 8 della L. n. 124 del 1999, in violazione dei principi della CEDU nella lettura data dalla Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo nella sentenza Agrati; assume che la sentenza è in contrasto con i principi affermati dalla CEDU nelle sentenze richiamate nella rubrica del motivo in esame e sostiene che la fattispecie dedotta in giudizio deve ritenersi disciplinata dalla disposizione contenuta nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30, che garantisce la continuità giuridica del rapporto di lavoro ed il mantenimento del trattamento economico in caso di passaggio da una Pubblica Amministrazione ad altra Pubblica Amministrazione;

9. con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 3 Cost. e del principio di non discriminazione di cui alla direttiva 1999/70/CEE, clausola 4.4 dell’Accordo Quadro allegato, in relazione alla L. n. 124 del 1999, art. 8, comma 2, e alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218;

10. assume che la sentenza impugnata avrebbe dovuto interpretare, in maniera costituzionalmente e comunitariamente orientata, la L. n. 124 del 1999, art. 8, e dichiarare il diritto al riconoscimento dell’anzianità maturata nell’Ente di provenienza ai fini dell’inquadramento stipendiale ed economico nella nuova classificazione del personale dell’Amministrazione statale secondo il c.c.n.l. ivi vigente; sostiene, inoltre, che la disciplina contenuta nella L. n. 266 del 2005, contrasta con l’art. 3 Cost. in quanto viola il diritto acquisito da esso ricorrente alla conservazione dell’anzianità maturata nella successione dei rapporti giuridici svoltisi senza alcuna soluzione di continuità e formula istanza di rimessione alla Corte Costituzionale, anche ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 1, in riferimento all’art. 6 convenzione EDU;

11. il ricorso è infondato, dovendo questo Collegio dare continuità all’orientamento già più volte espresso da questa Corte in argomento (v., ex plurimis, Cass. n. 29935/2018, Cass. n. 4435/2019; Cass. n. 4956/2019, Cass. n. 5630/2019, Cass. n. 7592/2019; Cass. n. 24387/2020, in fattispecie del tutto analoghe a quella in esame sia in ordine alle questioni dedotte, sia quanto ai motivi di ricorso; v. pure Cass. n. 7715/2016);

12. in materia di trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. n. 124 del 1999, art. 8, questa Corte (Cass. nn. 7980/2018, 7698/2018, 7566/2018, 7310/2018), ha osservato che: il decreto del Ministro della pubblica istruzione 5 aprile 2001 recepì l’accordo stipulato tra I’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000 in ordine ai criteri applicativi della L. n. 124 del 1999, art. 8, e che il legislatore con la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, ha elevato a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva;

13. l’incostituzionalità della disposizione innanzi richiamata (cui è stata riconosciuta efficacia retroattiva: v. Cass. S.U. n. 17076/2011, Corte Costituzionale n. 234/2007) è stata esclusa dal Giudice delle leggi (v. Corte Cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009);

14. la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande sezione) con la sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C-108/10, Scattolon), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, nel rispondere alle quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia, ha ritenuto che: – la riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/18//CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro; – quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187/CEE porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo; – è compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo;

15. in motivazione la Corte di giustizia ha rilevato che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187/CEE, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame) ed ha ritenuto che il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza);

16. la Corte di Giustizia ha precisato anche che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo “scopo della direttiva”, consistente “nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento” (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva non può “essere validamente invocata per ottenere un miglioramento delle condizioni lavorative in occasione di un trasferimento di impresa… questa direttiva non osta a che sussistano talune disparità di trattamento retributivo tra i lavoratori trasferiti e quelli che, all’atto del trasferimento, erano già al servizio del cessionario; detta direttiva… ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente”);

17. questa Corte nelle decisioni innanzi richiamate ha, inoltre, osservato che la Corte di Giustizia ha evidenziato che nella definizione delle singole controversie, il giudice nazionale deve osservare i seguenti criteri: a. quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (cfr. nn. 75, 77, 82 e 83) e, al contrario, non rilevano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77); b. quanto alle modalità, si deve trattare di “peggioramento retributivo sostanziale” (così il dispositivo) e la comparazione tra le condizioni deve essere “globale” (n. 76: “condizioni globalmente meno favorevoli”; n. 82: “posizione globalmente sfavorevole”), quindi non limitato allo specifico istituto; c. quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto “all’atto del trasferimento” (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: “all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza”);

18. va osservato che la Corte di Giustizia, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (sentenza Agrati), ha statuito che “vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi di cui alle norme su indicate”;

19. in sintesi, la Corte di giustizia ha ritenuto che: si verte nell’ambito del diritto dell’Unione Europea; di conseguenza, la normativa nazionale in esame deve essere interpretata alla luce del diritto dell’Unione Europea; l’interpretazione orientata alla luce del diritto Europeo comporta che il passaggio alle dipendenze dello Stato non può determinare per il lavoratore condizioni meno favorevoli; la relativa verifica spetta al giudice nazionale;

20. ulteriore conseguenza di questa impostazione è l’assorbimento del problema della conformità della norma in questione all’art. 6 del TUE in combinato disposto con le norme della CEDU e della Carta di Nizza, come recepite nel Trattato di Lisbona, problema esaminato dalla sentenza Agrati della CEDU, precedente alla sentenza della Corte di giustizia e da quest’ultima considerata;

21. la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea incide sul presente giudizio in quanto in base all’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione Europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (per tutte, Corte Cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011);

22. l’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme Europee direttamente applicabili (cfr. Corte Cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000);

23. la decisione della presente controversia deve avvenire, in conclusione, sulla base della suindicata interpretazione della normativa nazionale orientata dal diritto Europeo (in tal senso le già richiamate decisioni di questa Corte nn. 7980/2018, 7698/2018, 7566/2018 7310/2018, 7715/2016);

24. l’esegesi della norma che regola la materia in senso conforme al diritto Europeo esclude la possibilità di disapplicarla o di sottoporla nuovamente al giudizio della Corte di giustizia dell’Unione Europea, che si è espressa, su tutti i profili della sua compatibilità con il diritto Europeo, compreso quello, posto con il quarto quesito dal Tribunale di Venezia valutato dalla CGUE considerando espressamente anche il giudizio e gli argomenti formulati dalla Corte EDU nella sentenza Agrati;

25. va osservato che la pronuncia della CGUE si colloca in ambiente normativo già caratterizzato dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ed è stata seguita dalla sentenza 24 aprile 2012, nella causa C-571.10, Servet Kamberaj c. Istituto per l’edilizia sociale della provincia autonoma di Bolzano e altri, che si è espressa sul rapporto tra norme nazionali e convenzione Europea affermando: “il rinvio operato dall’art. 6, par. 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa”;

26. analogamente, la Corte costituzionale italiana ha escluso che l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona abbia comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti (Corte Cost. n. 80 del 2011, Cass., Sez. Un., n. 9595 del 2012), sicchè il giudice comune non ha il potere di disapplicare direttamente norme interne ritenendole contrastanti con la convenzione;

27. come evidenziato, la Corte costituzionale italiana, su sollecitazione di questa Corte, si è già espressa sulla specifica questione con la decisione n. 311 del 2009, che, sebbene antecedente alla sentenza Agrati, considera i medesimi problemi, prendendo posizione non solo sulla sussistenza nel caso in esame dei “motivi imperativi di interesse generale”, ma anche, più in generale, sulla competenza a valutarli;

28. sulla base delle considerazioni che precedono si deve escludere la fondatezza dei motivi di ricorso perchè la domanda proposta dal ricorrente può trovare accoglimento nei soli limiti indicati dalla Corte di Giustizia, ossia garantendo ai lavoratori coinvolti nel trasferimento la conservazione del medesimo trattamento economico in precedenza goduto mentre è da escludere che il ricorrente, facendo leva sull’anzianità di servizio maturata ed applicata ai diversi istituti contrattuali previsti dal c.c.n.l. del comparto di destinazione, possa pretendere un aumento della retribuzione;

29. la Corte d’appello, nella definizione della controversia, ha fatto corretta applicazione dei principi innanzi affermati in quanto ha dapprima escluso la rilevanza di elementi accessori della retribuzione percepita presso l’ente a quo in ragione di specifiche modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, e poi rilevato, con accertamento in fatto che non è stato oggetto di alcuna censura, che l’odierno ricorrente per effetto del trasferimento nei ruoli del personale ATA del Ministero, non aveva subito all’atto del passaggio nei ruoli statali alcun decremento economico avendo il Consulente tecnico di ufficio escluso che vi fosse stato un peggioramento del trattamento retributivo globale, avuto riguardo alle condizioni godute prima del trasferimento;

30. quanto al terzo motivo del ricorso, questa Corte ha già ritenuto non manifestamente fondata tale questione (Cass. n. 4049/2013 e fra le più recenti Cass. n. 6780, 7053, 7698 del 2018), pur apprezzando le pronunce della Corte E.D.U. successive alla sentenza della Corte Costituzionale n. 311 del 2009, in quanto il Giudice delle leggi, nell’escludere la violazione dell’art. 117 Cost. per contrasto della L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, con l’art. 6 CEDU, ha ritenuto sussistenti i “motivi imperativi d’interesse generale”, valorizzati anche dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ed ha evidenziato che la decisione al riguardo implica una valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali che la Convenzione Europea lascia alla competenza degli Stati contraenti, e, quindi, un bilanciamento di interessi che può essere compiuto solo dalla Corte Costituzionale (principio poi ribadito da Corte Cost. n. 264 del 2012 e da Corte Cost. n. 166 del 2017);

31. sulla scorta delle considerazioni svolte il ricorso va respinto;

32. l’onere delle spese del giudizio di legittimità resta a carico di parte ricorrente, in applicazione della regola generale della soccombenza, con liquidazione come in dispositivo;

33. si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 11 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2021

 

 

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