Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11464 del 03/06/2016

Cassazione civile sez. I, 03/06/2016, (ud. 11/12/2015, dep. 03/06/2016), n.11464

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALVAGO Salvatore – Presidente –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.A., IN PROPRIO E QUALE PROCURATORE DI C.F.

– C.G. – C.E., QUALE EREDE DI C.D.

– L.M. elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DI VILLA

MASSIMO, N. 36, nello studio dell’avv. DELLA BELLA Renato, che li

rappresenta e difende, unitamente all’avv. COSSI Raffaella, giusta

procura speciale in calce al ricorso.

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI URBINO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SALARIA, N.

95, nello studio dell’avv. GALVANI Andrea, che lo rappresenta e

difende, giusta procura speciale a margine del controricorso.

– controricorrente –

nonchè sul ricorso proposto in via incidentale da:

COMUNE DI URBINO, come sopra rappresentato;

contro

C.A., IN PROPRIO E QUALE PROCURATORE DI C.F.

– C.G. – C.E., QUALE EREDE DI C.D.

– L.M. come sopra rappresentati;

– controricorrenti a ricorso incidentale –

nonchè sul ricorso proposto in via incidentale da:

C.A., IN PROPRIO E QUALE PROCURATORE DI C.F.

– C.G. – C.E., QUALE EREDE DI C.D.

ricorrenti in via incidentale;

contro

COMUNE DI URBINO, come sopra rappresentato;

– controricorrente a ricorso incidentale –

avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona, n. 336,

depositata in data 22 maggio 2009.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’11

dicembre 2015 dal Consigliere Dott. CAMPANILE Pietro;

sentiti per i ricorrenti l’avv. DELLA BELLA Renato;

sentito per il Comune l’avv. GALVANI Andrea;

udito il P.M., nella persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – Con la sentenza indicata in epigrafe la corte di appello di Ancona ha determinato le indennità di espropriazione spettanti ai signori C.A., F. e G. in Euro 98.024;

nonchè in Euro 246.974 per i terreni appartenenti a C.A., D., F. e G. ed espropriati dal Comune di Urbino. Ha altresì determinato in Euro 11.004,00 l’indennità spettante ai sensi della L. n. 865 del 1971, art. 17 agli affittuari coltivatori diretti L.M. ed E., precisando che tale importo andava sottratto dalle somme riconosciute a titolo di indennità di espropriazione in favore dei proprietari dei terreni concessi in affitto.

1.1 – Per quanto in questa sede maggiormente rileva, la corte distrettuale, ribadita la necessità di commisurare l’indennità al valore di mercato dei terreni, e rilevata l’inapplicabilità, ratione temporis, delle disposizioni che prevedevano tanto l’incremento del 10 per cento quanto la decurtazione del 25 per cento, ha affermato la natura edificabile delle aree, in quanto ubicate in zona destinata ad insediamenti produttivi. Ha quindi aderito alle conclusioni cui era pervenuto, applicando il c.d. metodo sintetico comparativo, il consulente tecnico d’ufficio, così determinando i valori sopra indicati.

1.2 Sono stati rigettati i rilievi del Comune fondati sul D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 16 nonchè quelli dei proprietari relativi sia alla perdita di valore delle parti non espropriate, escluse sulla base delle risultanze peritali, sia alla valutazione di determinate costruzioni, o perchè non comprese nelle zone espropriate, o in quanto abusive.

1.3 – E’ stata inoltre rigettata la domanda avanzata dagli attori ai sensi dell’art. 1224 c.c., in quanto non ritenuta adeguatamente provata.

1.4 – Per la cassazione di tale decisione propongono ricorso i signori C. con sette motivi, nonchè L.M., contitolare dell’azienda agricola affittuaria dei terreni, con due motivi, cui resiste il Comune di Urbino, che propone ricorso incidentale con unico motivo, illustrato da memoria, a sua volta resistito da controricorso con ricorso incidentale, cui l’ente territoriale ulteriormente replica.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2 – Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità del ricorso incidentale proposto dai proprietari dei terreni ablati, già ricorrenti in via principale, con il controricorso con il quale hanno resistito al ricorso avanzato in via incidentale dal Comune di Urbino. Deve infatti trovare applicazione il principio secondo cui la proposizione del ricorso principale per cassazione determina la consumazione del diritto di impugnazione, con la conseguenza che il ricorrente, ricevuta la notificazione del ricorso proposto da un’altra parte, non può introdurre nuovi e diversi motivi di censura con i motivi aggiunti, nè ripetere le stesse censure già avanzate con il proprio originario ricorso mediante un successivo ricorso incidentale, che, se proposto, va dichiarato inammissibile, pur restando esaminabile come controricorso nei limiti in cui sia rivolto a contrastare l’impugnazione avversaria (Cass., Sez. un. 22 febbraio 2012, n. 2568).

3 – Con il primo motivo del ricorso principale, deducendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa motivazione in ordine a un punto decisivo della controversia, i proprietari dei terreni espropriati sostengono che la corte distrettuale avrebbe erroneamente valutato come un’unica espropriazione due distinte ablazioni per altro parziali, di fondi distinti, senza per altro considerare, anche tramite rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio, il loro deprezzamento.

3.1 – Con il secondo mezzo la questione relativa all’espropriazione parziale viene dedotta, con formulazione di idoneo quesito di diritto, sotto il profilo della violazione della L. n. 2359 del 1865, artt. 39 e 40.

3.2 – Con la terza censura si denuncia vizio di omessa motivazione in relazione al minor valore degli immobili residui, per aver la sentenza impugnata recepito, senza alcuna valida spiegazione, il parere del consulente tecnico d’ufficio circa l’insussistenza di detti danni.

3.3 – Con il quarto mezzo si denuncia omessa motivazione in merito all’esclusione del ristoro degli impianti relativi alla coltivazione di funghi e tartufi.

3.4 – Con il quinto motivo si sostiene, con indicazione di valido quesito di diritto, che la Corte di appello, ritenendo che l’indennità aggiuntiva spettante al coltivatore diretto doveva dedursi da quella complessivamente spettante per l’ablazione della proprietà dei terreni, avrebbe violato la norma contenuta della L. n. 865 del 1971, art. 17.

3.5 – Con il sesto mezzo si denuncia la violazione di una non meglio specificata “norma di diritto”, per essersi considerata l’indennità di esproprio debito di valuta e non di valore.

3.6 – La settima censura attiene alla violazione dell’art. 1224 c.c.:

con formulazione di idoneo quesito di diritto ci si duole dell’esclusione del maggior danno derivante dal ritardo, senza considerare il ricorso a criteri di natura presuntiva.

4 – Nell’interesse dell’impresa agricola L. con un primo motivo si deduce vizio di omessa motivazione in ordine alla determinazione dell’indennità aggiuntiva.

4.1 – Con il secondo mezzo gli affittuari deducono vizio di motivazione in relazione all’esclusione del ristoro del pregiudizio correlato alla perdita del raccolto.

5 – Il primo, il terzo e il quarto motivo del ricorso principale, così come le censure proposte dall’impresa L., sono inammissibili.

5.1 – Deve invero rilevarsi come nel presente giudizio di legittimità, avente ad oggetto un provvedimento emesso nel mese di maggio dell’anno 2009, debbano applicarsi le disposizioni del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (in vigore dal 2.3.2006 sino al 4.7.2009), e in particolare l’art. 6, che ha introdotto l’art. 366 bis c.p.c..

Alla stregua di tali disposizioni la cui peculiarità rispetto alla già esistente prescrizione della indicazione nei motivi di ricorso della violazione denunciata consiste nella imposizione di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto al fine del miglior esercizio della funzione nomofilattica l’illustrazione dei motivi di ricorso, nei casi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, deve concludersi, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto che, riassunti gli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito e indicata sinteticamente la regola di diritto applicata da quel giudice, enunci la diversa regola di diritto che ad avviso del ricorrente si sarebbe dovuta applicare nel caso di specie, in termini tali che per cui dalla risposta che ad esso si dia discenda in modo univoco l’accoglimento o il rigetto del gravame.

5.2 – Analogamente, nei casi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 l’illustrazione del motivo deve contenere (cfr., ex multis: Cass. S.U. n. 20603/2007; Sez. 3 n. 16002/2007; n. 8897/2008) un momento di sintesi omologo del quesito di diritto – che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità.

5.3 – I motivi sopra indicati non sono conformi a dette disposizioni, atteso che manca del tutto, a corredo degli stessi, tanto il quesito di diritto, quanto l’indicazione del fatto controverso attraverso quel momento di sintesi omologo del quesito di diritto, nel senso sopra evidenziato.

5.4 – Al rilievo di inammissibilità non è ostativa la circostanza che il ricorso venne presentato in epoca successiva all’abrogazione dell’art. 366-bis c.p.c..

Infatti i criteri elaborati per la valutazione della rilevanza dei quesiti vanno applicati anche dopo la formale abrogazione della disposizione testè richiamata, attesa l’univoca volontà del legislatore di assicurare ultra-attività alla norma stessa (per tutte, v. espressamente Cass. 27 gennaio 2012, n. 1194; Cass. 24 luglio 2012, n. 12887; Cass. 8 febbraio 2013, n. 3079).

6 – Il secondo e il sesto motivo del ricorso principale sono infondati.

6.1 – Quanto alla censura concernente il dedotto deprezzamento delle aree non espropriate, la Corte di appello ha richiamato le conclusioni cui è prevenuto il consulente tecnico d’ufficio, il quale, anche in sede di audizione per chiarimenti, aveva escluso la ricorrenza di alcun pregiudizio, per altro dedotto dagli attori in relazione alle possibilità di sfruttamento agricolo pur in presenza di terreni edificabili, precisando che la consistenza della proprietà residua era di tale ampiezza da consentire “un più che razionale sfruttamento agricolo”. A fronte di tale motivazione, che investe anche il fabbricato colonico, in relazione al quale, anzi, si è affermata, in virtù di una eventuale conversione ad usi funzionali alla nuova destinazione dell’area, una possibilità di incremento del valore, il ricorso non contiene alcun riferimento al un positivo accertamento dell’esistenza di un intimo collegamento fra le parti residue dei fondi con quelle espropriate mediante un vincolo strumentale ed obiettivo (tale, cioè, da conferire all’intero immobile unità economica e funzionale), in modo tale da far ritenere che il distacco di una parte di esso abbia influito oggettivamente in modo negativo sulla parte residua e da far riconoscere ai proprietari il diritto ad un’unica indennità, da calcolarsi o sulla base della differenza tra il giusto prezzo dell’immobile prima dell’occupazione ed il giusto prezzo (potenziale) della parte residua dopo l’occupazione dell’espropriante, ovvero attraverso la somma del valore venale della parte espropriata e del minor valore della parte (cfr. Cass., 11 febbraio 2008, n. 3175). Invero con il motivo in esame sembra volersi affermare il principio, così come, del resto, indicato nel quesito di diritto, totale, chiamati,che ogni espropriazione parziale, in quanto a prescindere dai presupposti testè ricomporti l’applicazione dei criteri indennitari sanciti dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40.

6.2 – La doglianza espressa con il sesto mezzo si pone in contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, che si intende in questa sede ribadire, secondo cui l’obbligazione di corrispondere l’indennità di espropriazione costituisce debito di valuta e non di valore (Cass., 28 novembre 2014, n. 25302, Cass., 9 ottobre 2013, n. 22923; Cass., 12 giugno 2013, n. 14763; Cass., 9 marzo 2012, n. 3738).

7 – La censura inerente all’indennità aggiuntiva, posta a carico dei proprietari espropriati, appare fondata, dovendosi ritenere che l’orientamento recepito nella decisione impugnata, secondo il quale l’importo a tal fine determinato andrebbe detratto dall’indennità spettante ai proprietari, debba essere rimeditato.

7.1 – Deve in linea generale porsi in evidenza come il quadro complessivo inerente alla determinazione dell’indennità di esproprio, sia per quanto concerne la disciplina positiva, sia con riferimento agli orientamenti giurisprudenziali, sia notevolmente mutato rispetto a quello esistente all’epoca in cui venne emessa la nota decisione del Giudice delle leggi (Corte cost., 9 novembre 1988, n. 1022), nella quale si afferma, per quanto qui interessa, che non sarebbe “ipotizzabile una maggiorazione che conduca l’indennizzo al di la del valore venale, nel caso di cessione volontaria, non soltanto perchè lo impedisce l’art. 42 Cost., comma 3, ma anche perchè viene a mancare un interesse del proprietario, costituzionalmente rilevante. Il proprietario non può, infatti, pretendere dall’espropriante.. un prezzo maggiore del valore di scambio del bene in una vendita tra privati” (cfr., sia pure in un’ipotesi relativa alla legislazione della Provincia di Bolzano, Corte cost., 12 maggio 1988, n. 530).

7.2 – Non può tuttavia omettersi di rilevare che lo stesso Giudice delle leggi, in un precedente arresto (Corte cost., 24 febbraio 1988, n. 262), aveva dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale della L. n. 865 del 1971, art. 17, comma 2, sollevata in relazione agli artt. 3 e 42 Cost., affermando che all’espropriante spettava la valutazione “degli aspetti economici e finanziari” del ricorso alla procedura espropriativa mentre, d’altra parte, doveva riconoscersi che era “meritevole di tutela la condizione di chi abbia impiegato il proprio lavoro nella coltivazione di un fondo e sia costretto ad abbandonarlo a seguito dell’espropriazione”.

7.2 – Sulla base del riferimento contenuto nella citata decisione n. 1022 del 1988 della Corte costituzionale si formò un orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’indennità aggiuntiva avrebbe dovuto essere detratta da quella spettante al proprietario allorchè quest’ultima dovesse essere determinata in base al valore venale del bene espropriato (da ultimo, Cass., 30 giugno 2014, n. 14782; Cass., 12 ottobre 2007, n. 21434, in cui si afferma trattarsi di “un’aggiunta premiale in considerazione del valore costituzionale del lavoro, che semmai trova un limite a favore dell’espropriante, costituito dal valore venale del bene (Corte cost. 9.11.1988, n. 1022)”; Cass., 11 marzo 2006, n. 5381; Cass. 29 luglio 2005, n. 15936;

7.3 – Deve quindi osservarsi che, collocandosi tale impostazione in un’ottica che, in un certo senso, privilegia la posizione dell’espropriante (nel senso che il valore del bene ablato costituirebbe un limite garantito dall’art. 42 Cost.), la somma effettivamente corrisposta a titolo di indennità di espropriazione, ove decurtata dell’importo spettante agli affittuari a titolo di indennità aggiuntiva, verrebbe ad essere inferiore a quel valore venale cui deve l’indennità di espropriazione deve tendenzialmente corrispondere nell’attuale quadro normativo, delineatosi in conformità ai principi e alla giurisprudenza Cedu, soprattutto a seguito dell’abrogazione della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, per effetto delle note decisioni della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007.

7.4 – In tale contesto, poi, deve richiamarsi la decisione in data 11 aprile 1992 Lellement c. Francia della Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo cui è ammissibile un indennizzo superiore al valore venale del bene, in presenza della necessità di tener conto della particolare posizione del coltivatore espropriato. Non può quindi escludersi che l’espropriante, in determinate ipotesi, possa andare incontro ad esborsi – preventivamente valutabili – che complessivamente superino il valore di mercato del bene ablato, soprattutto ove si consideri che in tali casi la procedura espropriativa incide su diritti del tutto autonomi rispetto al diritto di proprietà. Ne consegue che l’eventuale corresponsione di un indennizzo complessivamente superiore al valore del bene, non può ritenersi corrisposto in violazione del limite individuato, sulla base del citato orientamento, nell’art. 42 Cost., allorquando detto limite sia superato non dall’indennità di espropriazione, bensì al fine di corrispondere un’indennità, non a caso definita “aggiuntiva”, destinata a ristorare un pregiudizio ulteriore, ritenuto dallo stesso legislatore meritevole di tutela, che – potendo per altro riguardare, come nella specie, anche soggetti diversi dal proprietario – è comunque da annoverare fra le conseguenze del procedimento ablativo.

7.5 – Per i fini che qui interessano assume decisivo rilievo l’autonomia che l’indennità aggiuntiva ha avuto sin dall’inizio, nel senso che, indipendentemente dal diritto di proprietà e dagli altri diritti reali sul fondo espropriato, per i quali appare appropriato il riferimento al principio dell’unicità dell’indennità di esproprio, essa, al contrario, trova fondamento nella diretta attività di prestazione d’opera sul terreno espropriato e nella situazione privilegiata che l’art. 35 Cost. e s.s. assicurano alla posizione del lavoratore, garantendo fra l’altro che la sua retribuzione sia in ogni caso sufficiente ad assicurare a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (Corte cost., 2 luglio 1972, n. 155).

Di tale autonomia, del resto, è rinvenibile una diffusa eco nella giurisprudenza di questa Corte, a partire dal riferimento al suo carattere premiale nella citata Cass. n. 21434 del 2007 fino alla recente decisione (Cass., 24 aprile 2014, n. 9269), nella quale si è precisato che, essendo la norma contenuta nella L. n. 865 del 1971, art. 17 diretta a tutelare la dignità del lavoro, la sua portata non può considerarsi intaccata dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 181 del 2011.

La stessa evoluzione del quadro normativo depone nel senso sopra indicato, come del resto posto in evidenza da autorevole dottrina, per altro in posizione critica rispetto alla tesi della detraibilità dell’indennità aggiuntiva da quella di espropriazione: nel modificare con la L. n. 244 del 2007, l’art. 37 del D.P.R. n. 327 del 2001, nel senso di prevedere la determinazione dell’indennità di espropriazione in misura pari al valore venale del bene, il legislatore ha lasciato inalterato il comma 9, il cui tenore letterale (“spetta anche un’indennità pari al valore agricolo medio”), non consente dubbi sulla natura “aggiuntiva” dell’indennità in esame (la cui entità nella specie non è oggetto di alcun rilievo), da porsi a carico dell’espropriante.

8 – Il settimo motivo, con cui i ricorrenti lamentano che la Corte d’Appello abbia negato la spettanza del maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, è parzialmente fondato.

8.1 – La Corte territoriale ha rigettato la proposta domanda di risarcimento di detto maggior danno, affermando che la “natura del debito esclude, in difetto di prova del maggior danno ex art. 1224 c.c., la rivalutazione monetaria”.

8.2 – Così opinando, la sentenza si pone in contrasto col principio posto dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 19499 del 2008, secondo cui in caso di inadempimento di una obbligazione di valuta, come quella in esame, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, spetta a qualunque creditore ne chieda il risarcimento, senza necessità di inquadrarlo in una apposita categoria, ed è determinato in via presuntiva nel parametro – che i ricorrenti hanno appunto invocato – relativo all’eventuale differenza, durante la mora, tra il tasso di rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e il saggio degli interessi legali.

8.3 – Va tuttavia rilevato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il riconoscimento di tale maggior danno presuppone la mora dell’espropriante e, quindi, un suo comportamento colpevole ai sensi degli artt. 1218 e 1176 c.c.. Detta mora debendi si configura solo a partire dalla data dell’inizio del giudizio di opposizione alla stima o di determinazione dell’indennità (o, come nella specie, del conguaglio), poichè prima di ciascuno di detti procedimenti l’ente espropriante non ha alcuna facoltà di interferire nelle determinazioni amministrative, siano esse accettate dall’espropriato ovvero impugnate, in quanto completamente estranee alla sua sfera giuridico-economica e attribuite per legge a organi terzi. Soltanto quando ciascuno di questi procedimenti giudiziari a carattere contenzioso inizia il suo corso, l’amministrazione espropriante può comportarsi come qualunque parte convenuta in un processo e, quindi, a seconda dei casi, prestare adesione alla domanda negli esatti termini in cui è stata posta dall’attore o offrire un accordo transattivo. Per cui, in mancanza di iniziative di questo genere atte a risolvere il contrasto e dunque ad addivenire sollecitamente al pagamento al privato di quanto a esso dovuto come equo indennizzo, può configurarsi una responsabilità colpevole, per ritardo nell’adempimento, dell’ente pubblico espropriante, che può quindi essere condannato al risarcimento del maggior danno ove come nella specie, sia riconosciuto un valore maggiore rispetto a quello determinato in sede amministrativa (Cass. Sez. un., n. 4669 del 1991;

Cass., n. 2764 del 1994; Cass., n. 3415 del 1996; Cass., n. 258 del 2004; Cass., n. 4885 del 2006; Cass., n. 10929 del 2008,Cass., n. 3794 del 2015).

9 – Con il ricorso incidentale il Comune di Urbino denuncia, con formulazione di idoneo quesito di diritto, violazione della L. n. 244 del 2007, art. 2, commi 89 e 90, nonchè vizio motivazionale (del quale va rilevata l’inammissibilità tanto per mancata formulazione del c.d. momento di sintesi, quanto per la natura squisitamente giuridica della questione), per aver la corte distrettuale omesso di applicare la decurtazione del 25 per cento in relazione alla finalità dell’esproprio di attuare un intervento di riforma economico sociale.

9.1 – La censura è infondata. Secondo il costante orientamento di questa Corte, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale del criterio di indennizzo di cui al D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 5-bis, convertito, con modifiche, nella L. 8 agosto 1992, n. 359 ed al D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 37, commi 1 e 2, da parte della sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale, lo “jus superveniens” costituito dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, comma 89, lett. a) si applica retroattivamente per i soli procedimenti espropriativi in corso, e non anche per i giudizi in corso (Cass., Sez. un., 28 febbraio 2008, n. 5265).

Il giudizio di opposizione alla stima, al quale non si applica la disciplina sopra richiamata, venne intrapreso nel marzo del 1998, ed era quindi già pendente allorchè venne emanata la novella del 2007.

9.2 – A prescindere da tale rilievo di diritto intertemporale, va in ogni caso ribadito che, affinchè sussista il presupposto dell’intervento di riforma economico-sociale, che giustifica la riduzione del 25 per cento del valore venale del bene ai fini della determinazione dell’indennità, esso deve riguardare l’intera collettività o parti di essa geograficamente o socialmente predeterminate ed essere, quindi, attuato in forza di una previsione normativa che in tal senso lo definisca (Cass., 23 febbraio 2012, n. 2774, in tema di edilizia convenzionata; Cass., 28 gennaio 2011, n. 2100, relativa a terreno inserito in zona P.i.p.).

10 – La decisione impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di appello di Ancona che, in diversa composizione, applicherà i principi sopra enunciati, provvedendo altresì in merito al regolamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte dichiara inammissibili il primo, il terzo e il quarto motivo del ricorso principale, nonchè i motivi proposti da L.M. ed E. ed il secondo ricorso, avanzato in via incidentale, dai proprietari C.; rigetta il secondo e il sesto motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale del Comune di Urbino.

Accoglie il quinto e il settimo motivo del ricorso principale, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 11 dicembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2016

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