Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11439 del 15/06/2020

Cassazione civile sez. VI, 15/06/2020, (ud. 22/11/2019, dep. 15/06/2020), n.11439

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2449-2018 proposto da:

L.A., in persona dell’omonima Impresa di costruzioni,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PORTUENSE 10, presso la

Sig.ra D.A.A., rappresentato e difeso dall’avvocato

MICHELE GAETA;

– ricorrente –

contro

IL CONDOMINIO DI (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 549/2017 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 06/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 22/11/2019 dal Consigliere Relatore Dott. FALASCHI

MILENA.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Tribunale di Salerno, con sentenza n. 367/2010, accogliendo la domanda proposta da L.A. nei confronti del Condominio sito in (OMISSIS), dichiarava risolto il contratto di appalto relativo ai lavori di riparazione e di risanamento conservativo del fabbricato condominiale per inadempimento del convenuto committente che non aveva provveduto a mettere a disposizione dell’appaltatore gli immobili liberi da cose e da persone con condanna dello stesso committente al risarcimento dei danni nella misura di Euro 74.354,22 oltre rivalutazione monetaria, interessi e spese di lite.

A seguito di appello interposto dal Condominio la Corte d’appello di Salerno, con sentenza n. 549/2017 depositata il 6 giugno 2017, accoglieva parzialmente il gravame per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, quantificava il danno subito dell’appaltatore in Euro 38.889,98 oltre rivalutazione monetaria ed interessi ed alle spese di giudizio.

Avverso la sentenza della Corte d’appello di Salerno L.A. propone ricorso per cassazione, fondato su quattro motivi.

E’ rimasto intimato il Condominio.

Ritenuto che il ricorso potesse essere rigettato, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata al difensore del ricorrente, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

Atteso che:

– con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 342 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. In particolare il ricorrente lamenta che la sentenza appellata sia stata riformata in punto di liquidazione equitativa del mancato guadagno nonostante il difetto di una specifica censura implicante la rinnovazione del giudizio equitativo fatto dal Tribunale.

La censura è priva di pregio.

Secondo consolidato orientamento di questa Corte gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati dalla sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando una parte volitiva ad una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, ovvero la trascrizione totale o parziale della sentenza appellata, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (v. Cass. n. 27199 del 2017; Cass. n. 13535 del 2018; Cass. n. 7675 del 2019).

Ciò posto in diritto, facendo applicazione di detti principi, si rileva in fatto che l’appello proposto dal Condominio indicava in modo non equivoco le doglianze proposte, sintetizzate nella sentenza impugnata nei seguenti termini: “la quantificazione dei danni è stata effettuata erroneamente sia per quanto riguarda il danno emergente, in quanto la prova delle spese considerate consisterebbe in una documentazione depositata tardivamente, sia in relazione al lucro cessante, essendo applicato il criterio previsto dall’art. XII del contratto, il quale è invece previsto non per l’ipotesi di risoluzione del contratto per grave inadempimento, bensì per quella di recesso del committente”.

Ne consegue che la rideterminazione degli importi liquidati a titolo di danni era stata ampiamente richiesta sia per danno emergente sia per lucro cessante. La Corte distrettuale, dunque, analizzando la fattispecie in oggetto ha fatto buon governo dei principi affermati da questa Corte;

– con il secondo e con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 1671 e 1384 c.c., oltre che della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, art. 345, nonchè degli artt. 1375,1453 e 1655 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; deduce, altresì, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Nella sostanza il ricorrente sostiene che la disciplina del recesso del committente, anche in materia di appalti pubblici, ritenuta applicabile dalla Corte di appello, non rapporta il conseguente onere economico a suo carico all’inizio dei lavori, come avvenuto nella specie, nè è facoltà del giudice nei contratti sinallagmatici ridurre equitativamente la penale nel caso in cui la prestazione non abbia avuto inizio. Inoltre, il dovere del committente di cooperare per l’adempimento della prestazione dovutagli implica di rendere disponibile l’immobile sin dalla conclusione del contratto di appalto.

Con il quarto motivo è lamentato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la Corte distrettuale riformato la statuizione relativa al lucro cessante ritenendo che il Tribunale l’avesse disposta in applicazione di clausola contrattuale, ritenuta dai giudici di secondo grado non applicabile all’ipotesi di lavori già eseguiti, mentre – ad avviso del ricorrente – il giudice di prime cure aveva liquidato il danno in via equitativa ex art. 1226 c.c.

I tre motivi – che per evidenti ragioni di connessione argomentativa, rappresentata dall’interpretazione e dalla valutazione delle risultanze istruttorie, possono essere trattati congiuntamente – sono infondati e pertanto le censure non possono trovare ingresso.

Occorre osservare che secondo un consolidato orientamento di questa Corte il potere di riduzione ad equità è stato attribuito al giudice a tutela di un interesse generale dell’ordinamento e può essere esercitato d’ufficio, subordinatamente all’assolvimento degli oneri di allegazione e prova incombenti sulla parte circa le circostanze rilevanti per la valutazione dell’eccessività della penale che dovrebbe risultare ex actis, ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo (Cass. n. 21646 del 2010; Cass. n. 2431 del 2015). La Corte sostiene, altresì, che il giudice dovrebbe valutare l’interesse del creditore anche riguardo al momento in cui la prestazione è stata eseguita o è rimasta definitivamente ineseguita.

Il potere di riduzione del giudice è stato ritenuto sussistente anche verso la penale prevista a favore della P.A. per contrasto con la norma primaria ed inderogabile dettata dall’art. 1384 c.c. (Cass. n. 25334 del 2017; Cass. n. 9366 del 1992).

Del resto, la ratio della norma non è di proteggere la parte più debole del negozio ma tutelare e ricostituire l’equilibrio contrattuale assicurando l’equo contemperamento degli interessi contrapposti (Cass. n. 13902 del 2016).

Pertanto, la Corte distrettuale in applicazione dei suddetti principi, nel valutare tutte le prove prodotte ed acquisite al giudizio, ha chiarito che nella valutazione del quantum doveva distinguersi l’ipotesi dell’appalto già iniziato rispetto a quella in cui la prestazione non aveva ancora avuto inizio, in quanto le due ipotesi portavano a quantificazioni diverse: nel primo caso, l’aspettativa di portare a termine la prestazione è maggiore; di converso, nel secondo caso tale aspettativa è ridotta, pertanto, il risarcimento è quantificato in misura inferiore e ridotto al 5%.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Non essendo state svolte difese dalla controparte rimasta intimata, non vi è pronuncia sulle spese processuali.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI-2^ Sezione Civile, il 22 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020

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