Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11436 del 15/06/2020

Cassazione civile sez. VI, 15/06/2020, (ud. 22/11/2019, dep. 15/06/2020), n.11436

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1130-2018 proposto da:

M.G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato PAOLO ALESSI;

– ricorrente –

contro

B.D., B.F., in proprio e nella qualità di

eredi di C.R., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

DEI GRACCHI 187, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO MAGNANO DI

SAN LIO, rappresentati e difesi dall’avvocato MARCELLO IACA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1985/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 27/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 22/11/2019 dal Consigliere Relatore Dott.ssa

FALASCHI MILENA.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Tribunale di Siracusa, con sentenza n. 196/2010, in accoglimento della domanda proposta da M.G.A. nei confronti di C.R. accertava e dichiarava l’acquisto per intervenuta usucapione del fondo sito in Lentini contrada Dagala, distinto in catasto al foglio (OMISSIS), particelle (OMISSIS) e (OMISSIS), per averlo posseduto uti dominus da oltre 25 anni unitamente al defunto genitore M.B., il quale lo aveva condotto il predetto fondo a titolo di mezzadria.

A seguito di gravame interposto da C.R., giudizio poi riassunto da B.F. e B.D., nella qualità di eredi dell’appellante, la Corte di appello di Catania, nella resistenza dell’appellato, con sentenza n. 1985/2016, in accoglimento dell’impugnazione ed in riforma dell’impugnata sentenza di primo grado, rigettava l’originaria domanda attorea, non ritenendo raggiunta la prova del possesso, disconoscendo valore alla scrittura dell’1 ottobre 1983 poichè mancante di sottoscrizione, il cui contenuto non appariva in ogni caso risolutivo ai fini della maturazione dell’usucapione in capo all’appellato.

Avverso la sentenza della Corte di appello di Catania il M. propone ricorso per Cassazione, fondato su un due motivi, cui resistono B.D. e B.F. con controricorso.

Ritenuto che il ricorso potesse essere rigettato, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata ai difensori delle parti, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

In prossimità dell’adunanza camerale parte controricorrente ha curato il deposito di memoria illustrativa.

Atteso che:

con il primo motivo il M. denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1141 e 1158 c.c.. In particolare, ad avviso del ricorrente, la corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che la relazione di fatto con il fondo da parte dei M. non sarebbe mutata da detenzione in possesso e ciò per avere omesso l’esame di documenti decisivi ai fini dell’accertamento de quo.

Il motivo è manifestamente infondato.

Per consolidato orientamento di questa Corte, nei casi in cui il potere di fatto sulla cosa sia esercitato inizialmente come detenzione in presenza di valide ragioni – come nel caso di specie un regolare rapporto di mezzadria – occorre l’allegazione e la prova da parte del detentore della trasformazione della detenzione in possesso utile ad usucapionem, ex art. 1141 c.c., comma 2, cioè il compimento di idonee attività materiali di opposizione specificamente rivolte contro il proprietario (Cass. n. 7271 del 2003), non essendo sufficienti nè il prolungarsi della detenzione nè il compimento di atti corrispondenti all’esercizio del possesso, che di per sè denunciano unicamente un abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene (Cass. n. 14593 del 2011; Cass. n. 21252 del 2007; Cass. n. 4701 del 1999).

Nella specie, il M. invoca a fondamento dell’animus possidendi un titolo convenzionale, ossia la scrittura del 1 ottobre 1983, peraltro resa dalla proprietaria (intestataria del fondo) ad un terzo, ente pubblico, con cui comunicava allo S.C.A.U. di Siracusa si aver risolto i rapporti di mezzadria. D’altronde, come pure rilevato dal giudice del merito, l’atto della formalizzazione della cessione non sarebbe mai avvenuto, non avendo le parti mai stipulato l’atto definitivo di trasferimento. A giudizio della corte si tratta di dichiarazione resa al solo fine di ottenere lo sgravio dal pagamento dei contributi, secondo l’accertamento di fatto del giudice territoriale non sindacabile in questa sede.

Per ciò che invece riguarda l’omesso esame delle comunicazioni effettuate dalla C. tra gli anni 80 e gli anni 90 sempre allo SCAU di Siracusa, la Corte territoriale ha puntualmente chiarito che le asserite dichiarazioni, premesso che quella dell’1-10-1983 risulta priva di sottoscrizione, in ogni caso nel loro complessivo contenuto non apparivano risolutive ai fini della prova dell’usucapione; infine, per ciò che attiene i restanti documenti, si tratta di produzione tardiva, avvenuta solo in appello per cui non poteva trovare ingresso nel giudizio.

Ne consegue l’insussistenza, per le ragioni sopra illustrate, delle violazioni di legge dedotte;

– con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 e 116 c.p.c.. In particolare, secondo il M., la corte territoriale accertando la sussistenza nel caso di specie di un contratto di comodato di fatto istauratosi tra le parti, avrebbe illegittimamente rilevato d’ufficio un’eccezione in senso stretto.

Il motivo è privo di pregio.

E’ preliminare osservare che la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti e l’apprezzamento in concreto dei comportamenti tenuti dalle parti costituiscono oggetto di accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità.

Nel caso di specie, come accertato dal giudice distrettuale, dai documenti esaminati emerge l’esistenza di trattative in corso, tra la C. e gli ex mezzadri, per la cessione di parte del terreno, che però non si erano concluse positivamente per le difficoltà sorte per il frazionamento, per cui la corte territoriale ha ritenuto configurarsi un comodato precario, in attesa della definizione delle trattative in vista della stipula dell’atto di compravendita.

Per tali motivi, il giudice territoriale, non si è pronunciato ultra petitum, ma si è limitato, come è nei suoi poteri, a ricostruire la vicenda da un punto di vista fattuale, deducendo dai comportamenti delle parti una situazione materialmente esistente.

D’altronde, il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, la cui violazione determina il vizio di ultrapetizione, implica unicamente il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti di causa autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti.

Tale principio deve quindi ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell’ambito del “petitum”, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (“causa petendi”) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda.

Tale violazione, invece, non ricorre quando il giudice non interferisca nel potere dispositivo delle parti e non alteri nessuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione, come nel caso di specie (Cass. 13 novembre 2018 n. 29200);

– ciò posto, si osserva che i motivi di ricorso non superano neanche lo scrutinio di ammissibilità di cui all’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1, da svolgersi (relativamente ad ogni singolo motivo) con riferimento al momento della decisione (Cass. Sez. Un. 7155 del 2017), atteso che la condizione di ammissibilità del ricorso, indicata nella citata disposizione processuale, non è integrata dalla mera dichiarazione, espressa nel motivo, di porsi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, laddove non vengano individuate le decisioni e gli argomenti sui quali l’orientamento contestato si fonda (cfr. Cass. n. 3142 del 2011 e Cass. n. 19190 del 2017). Lo stesso, infatti, è da ritenere manifestamente infondato, limitandosi a menzionare altri precedenti e principi di diritto (peraltro in riferimento ad accertamenti di merito), ma omette del tutto qualsivoglia confronto critico proprio con la giurisprudenza di questa Corte relativa al caso specifico, e ciò rende inammissibile il ricorso ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, per come (re)interpretato dal recente arresto di Cass. Sez. Un. 7155 del 2017 cit.

In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali del giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI-2 Sezione Civile, il 22 novembre 2019.

Depositato in cancelleria il 15 giugno 2020

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