Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11435 del 15/06/2020

Cassazione civile sez. VI, 15/06/2020, (ud. 22/11/2019, dep. 15/06/2020), n.11435

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 753-2018 proposto da:

D.C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ROCCO

PRIZZI 7, presso lo studio dell’avvocato SIMONETTA TELLONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato GABRIELE D’UGO;

– ricorrente –

contro

D.P.L., I.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1274/2016 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 25/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 22/11/2019 dal Consigliere Relatore Dott.ssa

FALASCHI MILENA.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Tribunale di Vasto, con sentenza n. 497 del 2000, rigettava la domanda proposta dai coniugi D.P.L. e I.M. nei confronti di D.C.S. – con il quale avevano concluso un contratto di cessione parziale del preliminare di vendita intercorso tra il convenuto e D.B.A. – con la quale chiedevano dichiararsi la risoluzione o, comunque, l’inefficacia dell’accordo per l’avverarsi della condizione risolutiva di cui alla cessione medesima del 05.08.1988 ed al preliminare del 25.05.1988 (previsto espressamente già nel preliminare che ove la lottizzazione avente ad oggetto il terreno venduto non fosse stata approvata entro il termine massimo del 31 luglio 1989, il contratto sarebbe rimasto privo di effetti), per non essere stato inserito nel contratto di cessione alcun termine entro cui la condizione risolutiva avrebbe dovuto avverarsi e li condannava al pagamento delle spese di lite.

In virtù di gravame interposto dai coniugi D.P., la Corte di appello L’Aquila, nella resistenza dell’appellato, che proponeva anche appello incidentale, con sentenza n. 118/2005, in accoglimento dell’impugnazione principale, respinta quella incidentale, e in riforma della decisione del primo giudice, dichiarava risolto il contratto, con condanna del convenuto alla restituzione della caparra. Per la cassazione della sentenza di secondo grado proponeva ricorso il D.C. e la Suprema Corte, con sentenza n. 1237/2012, annullava la sentenza impugnata limitatamente alle prime tre doglianze relative alla omessa motivazione dalle circostanze pertinenti la controversa questione dell’avverarsi della condizione contrattuale ovvero in merito alla previsione di un termine essenziale o meno ed ancora se in effetti il “progetto” fosse andato (o meno) a buon fine come previsto nel contratto.

La Corte di Appello di L’Aquila, adita a seguito di riassunzione, dichiarava nuovamente risolto il contratto stipulato in data 5 agosto 1988 e condannava il D.C. a restituire ai coniugi D.P.- I. la somma di Euro 3.098,74, ritenuta la natura risolutiva della condizione de qua.

Avverso la sentenza della Corte di appello di L’Aquila, propone ricorso per cassazione ancora il D.C., fondato su due motivi.

I coniugi D.P. sono rimasti intimati.

Ritenuto che il ricorso potesse essere rigettato, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata al difensore del ricorrente, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

In prossimità dell’adunanza camerale parte ricorrente ha curato il deposito di memoria illustrativa.

Atteso che:

con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti. In particolare, ad avviso del ricorrente, la corte territoriale avrebbe adottato una motivazione apparente, omettendo di spiegare il motivo per cui il progetto non sarebbe andato a buon fine, oltre a non valutare in concreto la volontà del curatore del fallimento di D.B. sia in ipotesi avesse dichiarato di subentrare nel contratto in luogo del fallito sia nel caso avesse manifestato l’intenzione di sciogliersi dal vincolo negoziale. Il motivo è privo di pregio, in quanto non coglie la ratio decidendi dell’impugnata sentenza.

E’ preliminare affermare che l’interpretazione di un contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in Cassazione soltanto per violazione delle regole ermeneutiche di cui agli art. 1362 c.c. e s.s., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, oppure per omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 14 luglio 2016 n. 14355).

Allorchè il ricorrente denunci che l’interpretazione dell’atto negoziale, compiuta dal giudice di merito, abbia violato le fattispecie legislative di cui agli artt. 1362 c.c. e s.s. egli deve non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma anche precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato. Ove invece il ricorrente voglia lamentare che il giudice, nell’accertare il reale contenuto del programma contrattuale, sia incorso nel vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, egli deve, in osservanza degli oneri di ammissibilità e di procedibilità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, indicare specificamente quale “fatto”, ovvero quale dato materiale, o episodio fenomenico, non sia stato preso in considerazione nel provvedimento impugnato, sempre che tale “fatto” sia munito di un tale rilievo interpretativo da prospettarsi come “decisivo”, nel senso che, se esaminato, avrebbe portato con certezza ad altra ricostruzione del contenuto del contratto e quindi determinato un esito opposto della controversia.

Ne consegue che non è ammissibile la censura che si risolva, in realtà, nella prospettazione della astratta ipotizzabilità di interpretazioni del contratto diverse da quella prescelte dal giudice di merito e più favorevoli al ricorrente, neppur dovendo la sentenza dar conto di tutte le argomentazioni difensive che delineano ulteriori plausibili qualificazioni dell’operazione contrattuale.

Ciò precisato, la sentenza impugnata della Corte d’appello di L’Aquila, dopo aver ricostruito la composita vicenda contrattuale, ha tenuto conto non solo delle clausole contrattuali, e quindi della volontà dei contraenti, ma anche degli scopi che questi intendevano soddisfare attraverso la cessione del preliminare, al fine di individuare correttamente a cosa si riferissero le parti con la locuzione “progetto”.

In particolare, premesso che le parti individuavano l’area promessa in vendita con riferimento alla “sezione di terreno di circa mq 750 di superficie sita in località Sant’Onofrio del Comune di Vasto, rappresentata in catasto dalla particella (OMISSIS), foglio (OMISSIS)”, prevedendo poi la necessità della previa approvazione da parte del Comune di “un piano di lottizzazione”, hanno quindi definito l’oggetto del preliminare, correttamente inferito dalla Corte territoriale nel senso che lo scopo del trasferimento era rappresentato dall’edificazione e da ciò ha fatto discendere la natura risolutiva della condizione prevista nella clausola, accertamento che costituisce un’indagine di fatto, riservata al giudice di merito, sul cui fondamento è stata accolta la domanda di risoluzione degli attori.

Altrettanto convincentemente la Corte di L’Aquila ha ritenuto sussistente l’avveramento dell’evento dedotto in condizione, ed anche siffatto accertamento implica un giudizio di mero fatto, da compiersi attraverso la valutazione delle risultanze di causa, il cui esito è insindacabile in sede di legittimità, se non ricorre l’omesso esame di un fatto storico decisive e controverso, nei limiti sopra precisati.

Del resto per giurisprudenza consolidata, in ipotesi di preliminare di vendita di un terreno la clausola che ne preveda la risoluzione, in caso di mancata approvazione dalle competenti autorità comunali di un progetto di lottizzazione, è da qualificare proprio come condizione risolutiva, la quale postula che le parti subordinino la risoluzione del contratto, o di un singolo patto, ad un evento, futuro ed incerto, il cui verificarsi priva di effetti il negozio “ab origine” (Cass. 2 ottobre 2014 n. 20854).

Nel caso di specie, dunque, correttamente la corte territoriale, rilevato il decorso di quasi dieci anni dalla stipula, ha evidenziato come l’interesse dei coniugi a vedere realizzato il progetto – oltre a presupporre la piena realizzazione delle condizioni previste nella scrittura preliminare di compravendita e, quindi, l’avvenuta realizzazione delle condizioni ivi poste della definitiva approvazione del piano di lottizzazione nel quale il terreno era situato, costituente presupposto logico-giuridico per la successiva presentazione ed approvazione del progetto di costruzione e di domanda di concessione edilizia, che altrimenti mai sarebbero potute essere presentate era venuto meno.

Nè su detta valutazione può assumere rilevanza la astratta possibilità della presentazione (o meno) da parte dei coniugi D.P. di istanza di rilascio di permesso ad edificare il terreno, circostanza su cui insiste il ricorrente anche nella memoria illustrativa, in difetto di approvazione – in un lasso di tempo ragionevole – di un piano di lottizzazione;

– con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione dell’art. 91 c.p.c. In particolare, il ricorrente assume che la corte territoriale, ponendo a carico di D.C. le spese del giudizio di Cassazione, avrebbe negato i presupposti per porre le spese del giudizio a carico dei coniugi ovvero per disporne la compensazione.

Il motivo è inammissibile.

E’ preliminare l’enucleazione di un principio generale, secondo cui in materia di procedimento civile il potere del giudice d’appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, in quanto il relativo onere deve essere attribuito e ripartito in relazione all’esito complessivo della lite mentre, in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere dal giudice del gravame modificata soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione (Cass. 1 giugno 2016 n. 11423; Cass. 11 giugno 2008 n. 15483; Cass. 17 gennaio 200, n. 974; Cass. 7 luglio 2006 n. 15557).

Orbene, nella vicenda in esame, è sufficiente l’argomentazione che l’esito complessivo del giudizio di legittimità ha comportato la totale soccombenza dell’odierno ricorrente per giustificare la condanna al pagamento delle spese di lite;

– ciò posto, si osserva che i motivi di ricorso non superano neanche lo scrutinio di ammissibilità di cui all’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1, da svolgersi (relativamente ad ogni singolo motivo) con riferimento al momento della decisione (Cass. Sez. Un. 7155 del 2017), atteso che la condizione di ammissibilità del ricorso, indicata nella citata disposizione processuale, non è integrata dalla mera dichiarazione, espressa nel motivo, di porsi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, laddove non vengano individuate le decisioni e gli argomenti sui quali l’orientamento contestato si fonda (cfr. Cass. n. 3142 del 2011 e Cass. n. 19190 del 2017). Lo stesso, infatti, è da ritenere manifestamente infondato, limitandosi a menzionare altri precedenti e principi di diritto (peraltro in riferimento ad accertamenti di merito), ma omette del tutto qualsivoglia confronto critico proprio con la giurisprudenza di questa Corte relativa al caso specifico, e ciò rende inammissibile il ricorso ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, per come (re)interpretato dal recente arresto di Cass. Sez. Un. 7155 del 2017 cit..

In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Non essendo state svolge difese dalla controparte rimasta intimata, non vi è pronuncia sulle spese processuali.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI-2 Sezione Civile, il 22 novembre 2019.

Depositato in cancelleria il 15 giugno 2020

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