Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11428 del 10/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 10/05/2017, (ud. 22/02/2017, dep.10/05/2017),  n. 11428

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25543/2011 proposto da:

M.A., C.F. (OMISSIS), quale titolare della Ditta individuale

M.D.L. PROMOZIONI DI M.A., elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA FLAMINIA 109, presso lo studio dell’avvocato BIAGIO

BERTOLONE, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS)

in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore,

in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. Società di

Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S. C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA N. 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati

ANTONINO SGROI, CARLA D’ALOISIO, ENRICO MITTONI, LELIO MARITATO,

giusta delega in calce alla copia notificata del ricorso;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 545/2011 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 27/05/2011 R.G.N. 519/2010.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

1. la Corte d’appello di Genova, con sentenza pubblicata il 27/5/2011, ha rigettato l’appello proposto da M.A., quale titolare dell’impresa individuale M.D.L. Promozioni di M.A., contro la sentenza del tribunale di rigetto delle sue domande di opposizione alla cartella di pagamento emessa dall’Inps, a seguito di accertamento ispettivo disposto dalla Direzione provinciale del lavoro, con cui si chiedeva il pagamento di contributi per gli anni 2004-2008 relativi alla posizione di alcuni lavoratori subordinati, con i quali erano stati stipulati contratti di lavoro a progetto;

2. la Corte territoriale ha osservato, in primo luogo, che l’appello proposto dalla M. riguardava esclusivamente le conseguenze tratte dal tribunale dalla ritenuta carenza, nei contratti di lavoro sottoscritti dalle parti, di un progetto avente i requisiti previsti dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 62, comma 1, lett. b); in secondo luogo, che il disposto dell’art. 69 del D.Lgs. cit., prevede che, in tutti i casi di riscontrata irregolarità del contratto, il rapporto di lavoro deve considerarsi di natura subordinata, senza che sia ammessa la possibilità per la parte di provare le concrete modalità di espletamento delle prestazioni lavorative; di conseguenza non ha ammesso i mezzi istruttori dedotti dall’appellante; infine, decidendo sull’appello incidentale dell’Inps, ha rilevato che le sanzioni connesse al mancato pagamento della contribuzione erano state calcolate correttamente sulla base del regime previsto per l’evasione e che non dovesse di conseguenza modificarsi la statuizione del giudice di primo grado il quale, nel dispositivo, si era limitato a rigettare il ricorso in opposizione;

3. la ricorrente ha proposto ricorso per cassazione sostenuto da tre motivi, al quale ha resistito l’Inps depositando procura in calce alla copia del ricorso notificato.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

1. ragioni di priorità logica impongono di esaminare dapprima il terzo motivo di ricorso, con cui la parte si duole della violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, dell’art. 111 Cost., comma 6, nonchè dell’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, osservando che, a fronte dello specifico motivo di appello con cui aveva censurato il giudizio del tribunale sull’inesistenza di specifici progetti (aventi ad oggetto l’attività di televendita in un call center cosiddetto out bound), la Corte aveva ritenuto che non vi fosse alcuna doglianza sul punto.

1.2. Il motivo si presenta inammissibile perchè la parte non trascrive nei suoi esatti termini il motivo di appello; non deposita contestualmente al ricorso l’atto di gravame, nè fornisce precise indicazioni per una sua facile reperibilità negli atti di parte o d’ufficio delle precedenti fasi del giudizio (cfr. Cass. 11/01/2016, n. 195; Cass. Sez. Un. 3/11/2011, n. 22726): al riguardo appare del tutto insufficiente a rispettare il disposto dell’art. 366, comma 1, n. 6 (previsto a pena di inammissibilità) e art. 369, comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità), il rinvio all'”atto di appello, motivi, lettera A” contenuto nel ricorso per cassazione, in mancanza dell’integrale trascrizione del motivo di appello e di precise indicazioni circa l’attuale collocazione dell’atto.

1.3. Si attaglia pertanto alla fattispecie in esame la pronuncia di questa Corte secondo cui è inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass. 20/08/2015, n. 17049).

2. Non sussiste la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 69, denunciata nel primo motivo di ricorso. Questa Corte si è già pronunciata sulla corretta interpretazione della norma in esame ed ha statuito che “In tema di lavoro a progetto, del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1 (ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 23, lett. f), si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso” (Cass. 31/8/2016, n. 17448; Cass. 17/08/2016, n. 17127; Cass. 21/6/2016, n. 12820; Cass. 10/5/2016, n. 9471).

2.1. Nei precedenti citati si è precisato che a) dell’art. 69, comma 1, introduce una vera e propria disposizione sanzionatoria per il caso di mancata riconducibilità del rapporto coordinato e continuativo ad uno specifico progetto o programma, disponendo tout court che il rapporto “è considerato” di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dall’origine, espressione tipica dei casi di c.d. “conversione” del rapporto ope legis (quali ad es. le fattispecie interpositorie o di illegittima apposizione del termine finale di durata al contratto di lavoro); b) una diversa interpretazione, volta a ritenere ammissibile la prova diretta a dimostrare l’insussistenza della subordinazione “presunta” finirebbe per legittimare la perpetuazione delle collaborazioni coordinate e continuative anche in assenza di uno specifico progetto e programma, ogni qualvolta il committente riuscisse a dimostrare il carattere autonomo del rapporto contrattuale, che è proprio l’effetto che il legislatore del 2003 intendeva scongiurare; c) questa opzione interpretativa spiega anche la differenza tra la previsione del comma 1 di cui all’art. 69, rispetto al meccanismo sancito dal comma 2 di detta disposizione: benchè, invero, entrambe siano sanzionate con l’applicazione della disciplina propria dei rapporti di lavoro subordinato, si tratta di fattispecie strutturalmente differenti, giacchè nella prima rileva il dato formale della mancanza di uno specifico progetto a fronte di una prestazione lavorativa che, in punto di fatto, rientra nello schema generale del lavoro autonomo, laddove nella seconda rilevano le modalità di tipo subordinato con cui, nonostante l’esistenza di uno specifico progetto, è stata di fatto resa la prestazione lavorativa (vedi in tal senso, in motivazione Cass. 10/5/2016 n. 9471).

2.2. Questa interpretazione della norma non induce i dubbi di legittimità costituzionale prospettati dalla parte, con riguardo sia agli artt. 3 e 38 Cost., che con riguardo agli artt. 101 e 104 Cost.. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 399 del 5 dicembre 2008, pervenendo alla declaratoria di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, ha rimarcato come la novità introdotta dagli artt. 61 e segg. del D.Lgs. cit., risieda proprio nel divieto di instaurare rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che, pur avendo ad oggetto genuine prestazioni di lavoro autonomo, non siano riconducibili ad un progetto, divieto che risulta giustificato dalla contrarietà di detti rapporti alla norma imperativa che prescrive l’obbligo di utilizzare il nuovo tipo legale di contratto (ex art. 1418 c.c.).

2.3. In altri termini, la conversione del contratto di lavoro autonomo continuativo, instaurato senza progetto, in rapporto di lavoro subordinato è la conseguenza della valutazione legale tipica compiuta dal legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, attraverso la previsione del D.Lgs. n. 386 del 2003, art. 69, comma 1. Come è stato osservato anche in dottrina, la tecnica usata è quella della nullità del contratto, che sia stato in concreto posto in essere senza progetto (o senza un progetto specifico), accompagnata dalla sua cd. conversione o trasformazione ope legis mediante la sostituzione di diritto delle clausole invalide con la disciplina inderogabile del rapporto (cd. nullità – sanzione come conseguenza della violazione di norme imperative: cfr. art. 1419 c.c., comma 2, relativo alla conservazione del contratto affetto da nullità parziale).

2.4. Appaiono altresì manifestamente infondati anche i dubbi di legittimità costituzionale prospettati con riguardo alla regola dell’indisponibilità del tipo contrattuale che siffatta qualificazione ope legis violerebbe, in contrasto con i principi espressi dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 115 del 1994 e 121 del 1993: con tali sentenze, infatti, la Corte costituzionale ha stabilito il principio secondo cui “spetta al legislatore stabilire la qualificazione giuridica dei rapporti di lavoro, pur non essendo allo stesso consentito negare la qualifica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura”. L’indisponibilità del tipo contrattuale dunque costituisce un limite alla discrezionalità del legislatore e all’autonomia negoziale, ma solo nel senso di ritenere indisponibili le tutele del rapporto di lavoro subordinato, avuto riguardo all’esigenza di “dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato”: essa dunque può operare soltanto nella direzione della indisponibilità delle tutele del lavoro subordinato e non – come sarebbe nel caso in esame – in senso inverso.

3. Infine, è inammissibile il secondo motivo di ricorso, con cui la parte lamenta la violazione o falsa applicazione della L. n. 248 del 2006, art. 36 bis, comma 7, nonchè dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 111 Cost., comma 6, nella parte in cui la Corte ha ritenuto corretta, senza un’adeguata motivazione, l’applicazione delle sanzioni connesse all’evasione contributiva, laddove la norma in esame si riferisce alle sole fattispecie di lavoro nero, ossia alle ipotesi di evasione contributiva per il caso di registrazioni contabili o denunce obbligatorie false.

3.1. Il motivo è infondato oltre che inammissibile, non risultando che la questione sia stata devoluta dalla odierna ricorrente alla Corte territoriale nei termini sopra prospettati. Dalla sentenza impugnata risulta infatti che il regime delle sanzioni ha costituito oggetto del solo appello incidentale dell’Inps, il quale si è doluto dell’affermazione del Tribunale circa l’applicazione nel caso in esame delle sanzioni previste per le omissioni contributive. La Corte ha condiviso la tesi dell’Inps optando per la determinazione delle sanzioni sulla base del regime previsto per la evasione – ma ha ritenuto di non dover riformare la sentenza di primo grado dando prevalenza al suo dispositivo, nella parte in cui il tribunale, nel rigettare il ricorso in opposizione, ha confermato in toto la cartella impugnata, anche nella parte relativa alle sanzioni.

3.2. La decisione appare corretta alla luce dei principi ripetutamente affermati da questa Corte, secondo cui, nel rito del lavoro, nelle ipotesi in cui vi è contrasto tra dispositivo e motivazione occorre dare prevalenza al dispositivo (Cass. 21/06/2016, n. 12841; Cass. 8/8/1997, n. 7380). Tale orientamento trova, infatti, la propria ragione giustificativa nella peculiarità del rito del lavoro, in cui, a differenza di quanto avviene nel rito ordinario, il dispositivo letto in udienza e depositato in cancelleria “ha una rilevanza autonoma poichè racchiude gli elementi del comando giudiziale che non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione; ne consegue che le proposizioni contenute nella motivazione e contrastanti col dispositivo devono considerarsi come non apposte” (Cass. 15 gennaio 1996, n. 279; Cass., ord. 21885 del 26/10/2010). La motivazione, sia pur sintetica, è chiaramente enucleabile sicchè non sussiste il lamentato difetto motivazionale.

3.3. Quanto alla violazione di legge, la censura è inammissibile prospettando la falsa applicazione di una norma (L. n. 248 del 2006, art. 36 bis, comma 7, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza del 13 novembre 2014, n. 254, nella parte relativa alla sanzione civile per contrasto con l’art. 3 Cost.), che non è stata oggetto di esame nelle precedenti fasi del giudizio, nè la parte ha dimostrato, attraverso la produzione in giudizio della cartella esattoriale opposta, se e in che termini di essa è stata data applicazione al caso concreto, dovendosi considerare che il credito contributivo è relativo agli anni 2004-2008 e che la norma in esame, di cui deve escludersi l’applicazione retroattiva, è entrata in vigore il 12 agosto 2006.

4. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato. In applicazione del principio della soccombenza, le spese del presente giudizio devono essere poste a carico della ricorrente nei limiti dell’attività difensiva svolta dall’istituto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 2.000,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali e altri accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2017

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