Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11412 del 12/06/2020

Cassazione civile sez. I, 12/06/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 12/06/2020), n.11412

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 2392/2019 proposto da:

M.I., elettivamente domiciliato presso l’avv. Anna Moretti la

quale la rappres. e difende, con procura speciale in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del legale rappres. p.t., elett.te

domic. presso l’Avvocatura Generale dello Stato che lo rappres. e

difende;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositata il 05/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’11/02/2020 dal Cons., Dott. CAIAZZO ROSARIO.

Fatto

RILEVATO

CHE:

Con decreto emesso il 5.12.18, il Tribunale di Milano rigettò il ricorso proposto da M.I. – cittadino del Senegal – avverso il provvedimento della Commissione territoriale di diniego della domanda di protezione internazionale, rilevando che: non era riconoscibile lo status di rifugiato in quanto la situazione narrata dall’istante – in ordine all’uccisione del padre da parte di banditi per finalità predatorie, fatto che lo aveva indotto a lasciare il Senegal – non configurava i presupposti della protezione internazionale; non sussistevano i presupposti della protezione sussidiaria, sub lett. a) e b) del D.Lgs. n. 251 del 2007, non emergendo nella fattispecie come narrata un grave rischio di danno alla persona o di trattamenti inumani, nè di quella di cui alla lett. c) in quanto dalle COI esaminate non si desumeva una situazione nel paese di violenza generalizzata derivante da conflitto armato; non era riconoscibile la protezione umanitaria, sia perchè non era emersa una specifica situazione personale di vulnerabilità, ovvero un vissuto traumatico permanente causato dal transito in Libia ove il ricorrente lamenta di aver subito maltrattamenti, sia perchè la situazione che il ricorrente ritroverebbe in caso di rimpatrio paragonata con la situazione attuale in Italia – ove l’istante svolge attività lavorativa agricola a tempo determinato – non fa emergere indici di grave sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali.

Il Mane ricorre in cassazione con tre motivi.

Resiste il Ministero con controricorso.

Diritto

RITENUTO

CHE:

Con il primo si denunzia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), comma 1, artt. 5, 6 e 14 per non aver il Tribunale riconosciuto la protezione internazionale pur sussistendo nella regione del Casamance una situazione di attacchi violenti nei confronti degli allevatori e contadini da parte di banditi, avendo escluso un grave rischio per l’incolumità fisica del ricorrente in caso di rientro in Senegal.

Con il secondo motivo si denunzia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, avendo il Tribunale escluso la sussistenza in Senegal di una situazione di violenza indiscriminata sulla base di fonti informative – utilizzate dalla Commissione – non aggiornate al momento del decreto impugnato, mentre dal sito ministeriale si desumeva che nella regione meridionale del Casamance era diffuso un trentennale conflitto di matrice indipendentista, caratterizzato da scontri armati tra forze di sicurezza nazionali e ribelli.

Con il terzo motivo si denunzia violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, nonchè insufficiente motivazione circa l’esistenza di condizioni di vulnerabilità del ricorrente, dato che i presupposti del permesso umanitario erano desumibili sia dall’integrazione sociale inerente all’attività lavorativa del ricorrente, sia dalla situazione di grave pericolo per l’incolumità dei cittadini in Senegal.

Il primo motivo è inammissibile poichè non coglie la ratio decidendi – ravvisabile nell’aver il Tribunale escluso lo status di rifugiato in quanto la vicenda narrata, pur veritiera, non configurava la fattispecie della protezione internazionale, trattandosi di vicenda di criminalità predatoria subita dal padre del ricorrente, avendo invece genericamente il ricorrente invocato la situazione di violenza diffusa nella regione del Casamance.

Il secondo motivo è inammissibile in quanto diretto al riesame dei fatti circa l’esame delle fonti sulla situazione generale socio-politica del Senegal. Invero, il Tribunale ha deciso utilizzando varie COI abbastanza recenti rispetto alla data del decreto (marzo 2017 e 2016), mentre il ricorrente si è limitato a richiamare quanto emerge dal solo sito ministeriale da cui non è dato però evincere una situazione difforme da quella citata nelle predette COI, il cui esame ha indotto ad escludere che nella regione di provenienza del ricorrente sussistesse una situazione di violenza generalizzata derivante da conflitto armato.

Il terzo motivo è inammissibile, essendo la doglianza diretta al riesame dei fatti inerenti alla condizione di vulnerabilità del ricorrente ai fini del permesso umanitario, non essendo state allegate specifiche, individuali situazioni di vulnerabilità afferenti a seri motivi umanitari o alla violazione di diritti fondamentali. Al riguardo, si richiama l’orientamento di questa Corte – cui il collegio ritiene di dare continuità – secondo il quale, la valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (Cass., n. 9304/19; SU, n. 29459/19).

Nel caso concreto, il ricorrente ha genericamente fatto richiamo all’attività lavorativa svolta in Italia, e alla situazione esistente nella regione di sua provenienza, senza però allegare fatti afferenti alla sproporzione tra le condizioni di vita attuali e quelle che ritroverebbe in riferimento alla sua situazione personale in caso di rientro in Senegal.

Parimenti inammissibile è la doglianza sul vizio motivazionale, declinato rispetto alla fattispecie legale abrogata dell’insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, inapplicabile ratione temporis. Le spese seguono la soccombenza.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Ministero controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di Euro 2100,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2020

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