Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1141 del 19/01/2011

Cassazione civile sez. lav., 19/01/2011, (ud. 23/11/2010, dep. 19/01/2011), n.1141

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19675-2007 proposto da:

S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ETTORE

ROLLI 24, presso lo studio dell’avvocato SFORZA ARTURO, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE, già MIUR MINISTERO

DELL’ISTRUZIONE, UNIVERSITA’ E RICERCA, in persona del Ministro pro

tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6349/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/03/2007 r.g.n. 10253/04;

udita la relazione della causa svolta nella, pubblica udienza del

23/11/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato SFORZA ARTURO;

udito l’Avvocato ALESSANDRA BRUNI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI COSTANTINO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con semenza in data 26.9.2006/12.3.2007 la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza resa dal Tribunale di Roma l’1.7.2004, rigettava la domanda proposta da S.F., collaboratore scolastico presso una scuola elementare statale, nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per far accertare l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli con decreto dirigenziale dell’Ufficio scolastico del Lazio del 10.3.2003.

Osservava in sintesi la corte territoriale che l’accertamento dei fatti costituenti illecito disciplinare risultava basato non solo sulla sentenza ex art. 444 c.p.p., incentrata sulla assenza di elementi per il proscioglimento, ma pure sugli atti del processo penale, richiamati nell’ordinanza di rinvio a giudizio, e tenuti in considerazione sia nella fase della contestazione, che del provvedimento sanzionatorio.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso S.F. con due motivi.

Resiste con controricorso il Ministero della Pubblica Istruzione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 444, 445 e 653 c.p.p., come mod. dalla L. n. 97 del 2001 e dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 59, comma 3, nonchè dell’art. 60 comma 1 del CCNL del comparto scuola.

Osserva, al riguardo, che la corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che l’avvenuta conoscenza della sentenza irrevocabile, resa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., esonerasse l’organo procedente in sede disciplinare di esaminare, ai fini della determinazione della sanzione da applicare in concreto nel rispetto dei principi di proporzionalità e gradualità, le risultanze probatorie del giudizio penale. In subordine prospetta questione di costituzionalità della L. n. 97 del 2001, art. 1 (efficacia della sentenza penale ne giudizio disciplinare) e art. 2 (modifica dell’art. 445 c.p.p.) per contrasto con l’art. 3 Cost., ove interpretati nel senso di escludere, nel caso di sentenza di condanna patteggiata, l’obbligo dell’organo procedente di valutare, in sede di determinazione della sanzione disciplinare applicabile, gli atti del procedimento penale al fine di individuare il fatto, la sua illiceità penale e la responsabilità del dipendente, aventi efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare dinanzi alle pubbliche autorità, ai sensi degli artt. 445 e 653 c.p.p..

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione osservando che la corte territoriale aveva dato rilievo a circostanze, quali la conoscenza degli atti di indagine penale richiamati nell’ordinanza di rinvio a giudizio, non menzionati nel provvedimento di licenziamento disciplinare e dei quali l’amministrazione aveva avuto solo “conoscenza indiretta”, in quanto desunta dalla mera lettura della richiesta del rinvio a giudizio.

2. I motivi, che, stante la connessione, ben possono essere esaminati congiuntamente, in quanto essenzialmente incentrati sulla rilevanza che assume la sentenza patteggiata nel giudizio disciplinare del pubblico dipendente, sono infondati. Circa tale problematica si è già precisato nella giurisprudenza di questa Suprema Corte (v. in particolare Cass. n. 7071/2006) che il rapporto di reciproca implicazione fra responsabilità e pena, imposto dall’art. 27 Cost., comporta che il procedimento e la pronuncia sulla richiesta di applicazione della pena abbiano natura giurisdizionale e che al giudice è rimesso un controllo non solo di legittimità, ma anche di merito (Corte Cost. n. 213/1990).

Al giudice, infatti, compete accertare che dagli atti di indagine compiuti dal p.m. non risulti che “il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità”; il che significa che il giudice può rilevare non solo l’esistenza di prove positive dell’innocenza dell’imputato, ma anche la mancanza di prove della colpevolezza. Ne deriva che se tale accertamento negativo da parte del giudice non equivale ad una pronuncia positiva di responsabilità, certamente la presuppone (cfr. Corte Cost. n. 155/1996), proprio per la correlazione fra pena e responsabilità posta dall’art. 27 Cost.; se, infatti, vi è nell’istituto una componente negoziale e manca un accertamento pieno della responsabilità (Corte Cost. n. 499/1995), per converso, la componente negoziale non esaurisce i molteplici aspetti dell’istituto, che non diventa un negozio, ma rimane un giudizio, che si conclude con l’irrogazione della pena, il quale comporta, quale condizione imprescindibile di tale effetto, un accertamento di responsabilità penale, che non necessita di essere pieno, per l’accettazione dell’interessato, che implica ammissione del fatto storico.

Dal che discende, fra l’altro, che deve escludersi che gli effetti del patteggiamento debbano “ontologicamente” differenziarsi da quelli della sentenza ordinaria e che le più recenti scelte operate dal legislatore con riferimento ai rapporti fra le giurisdizioni risultino privi di valida giustificazione, in quanto volti a realizzare, dopo il definitivo tramonto, con l’avvento del nuovo codice di rito, del principio della prevalenza della giurisdizione penale, a vantaggio dell’autonomia dei procedimenti e delle giurisdizioni, una qualche “ricomposizione” del sistema nei rapporti fra la giurisdizione penale e quella amministrativa o disciplinare innanzi alle pubbliche autorità, al fine di prevenire contrasti tra giudicati e la dispersione di acquisizioni processuali, tali da incidere negativamente sull’economia dei giudizi (cfr. Corte Cost. n. 336/2009).

Più in particolare, con riferimento alle novità introdotte dalla L. n. 97 del 2001, che, modificando gli artt. 445 e 653 c.p.c., ha previsto che sia la sentenza penale irrevocabile di condanna, sia la sentenza di applicazione della pena su richiesta sono destinati a esplicare effetti nel giudizio disciplinare quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità e alla responsabilità dell’imputato, si è osservato che per tal modo si assicura una sostanziale coerenza tra sentenza penale ed esito del procedimento amministrativo, ma soprattutto una linea di maggior rigore per garantire il corretto svolgimento dell’azione amministrativa (cfr. Corte Cost. n. 186/2004) e che la circostanza che l’imputato, nello stipulare l’accordo sul rito e sul merito della regiudicanda, “accetti” una determinata condanna penale, chiedendone o consentendone l’applicazione, sta univocamente a significare che l’imputato medesimo ha ritenuto, a quei fini, di non contestare “il fatto” e la propria “responsabilità”: con l’ovvia conseguenza di rendere per ciò stesso coerente, rispetto ai parametri dell’art. 24 Cost., comma 2 e art. 111 Cost., comma 2, la possibilità che, intervenuto il giudicato su quel fatto e sulla relativa attribuibilità all’imputato, simili componenti del giudizio sì cristallizzano anche agli effetti del giudizio disciplinare (cfr. Corte Cost. n. 336/2009).

Se, pertanto, l’accertamento compiuto nella sentenza di applicazione della pena su richiesta vincola il giudice del procedimento disciplinare quanto alla ricostruzione del fatto storico e della relativa responsabilità (con un vincolo sul giudizio disciplinare che Cass. SU n. 9166/2008 qualifica come “effetto di giudicato” quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità e alla commissione dello stesso da parte dell’imputato, v. anche Cass. n. 17113/2009; per una più articolata valutazione Cass. n. 5806/2010), resta, nondimeno, da esaminare se tale accertamento precluda, comunque, una autonoma valutazione dell’incidenza degli stessi fatti sul rapporto di impiego, alla luce dei principi che regolano il rapporto contrattuale e che ispirano il procedimento disciplinare.

Da questo punto di vista, nessuna incompatibilità è rinvenibile fra la necessaria autonomia del procedimento disciplinare, che riflette garanzie fondamentali della persona del lavoratore, quali l’esigenza che nessuna sanzione venga adottata in violazione del principio audietur et altera pars e dei canoni di effettiva lesione dell’interesse del datore di lavoro (pubblico o privato) e di proporzionalità ed adeguatezza rispetto alla mancanza addebitata, e le connessioni che si instaurano con la giurisdizione penale, al fine di assicurare, per come si è detto, l’economicità dei giudizi e le finalità di pubblico interesse (e, quindi, di imparzialità, correttezza ed efficacia) che a tutt’oggi devono ispirano l’azione della pubblica amministrazione nella veste di datore di lavoro pubblico.

L’autonomia della valutazione disciplinare, per come ha da sempre ricordato il giudice delle leggi, si riporta, infatti, al criterio di razionalità, che è alla base del principio di eguaglianza e che postula sempre l’adeguatezza della sanzione al caso concreto, escludendo ogni automatismo disciplinare, e impone, pertanto, che la valutazione della compatibilità del comportamento del pubblico dipendente con le specifiche funzioni da lui svolte nell’ambito del rapporto di impiego sia sempre ricondotta, al fine di garantirne la necessaria adeguatezza e gradualità in rapporto al caso concreto, e, quindi, il rispetto dell’art. 3 Cost., alla naturale sede del procedimento disciplinare (cfr. Corte Cost. n. 197/1993), in difetto delle quali condizioni “ogni norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale” (così Corte Cost. n. 971/1988; v. anche Cons. Stato Ad. Plen. n. 2/2002)).

Il che implica, in definitiva, che pur nei procedimenti disciplinari instaurati a seguito di pronuncia di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p., il datore di lavoro è tenuto, con autonoma valutazione, a riscontrare, sulla base dei fatti materiali e della loro ascrivibilità al dipendente, per come accertati dal giudice penale, e svolgendo, se necessario, ogni ulteriore utile accertamento, se i medesimi siano idonei, alla luce dei principi e della disciplina contrattuale che regolano il rapporto d’impiego, a legittimare la violazione dei doveri di ufficio, garantendo la necessaria proporzionalità ed adeguatezza della sanzione al caso concreto.

3. A tali principi, si è attenuta la sentenza impugnata, pervenendo ad esiti ricostruttivi esenti da alcuna censura, sia sotto l’aspetto logico che giuridico. La corte territoriale ha, infatti, accertato, dopo aver puntualmente ricapitolato le emergenze più significative dell’indagine penale avviata nei confronti del ricorrente in ordine ai reati di favoreggiamento della prostituzione e pornografia minorile e conclusasi con la sentenza di condanna alla pena di mesi sei di reclusione ed Euro 600 di multa per il reato di favoreggiamento della prostituzione, che i fatti contestati trovavano puntuale riscontro negli atti del procedimento penale “richiamati in sede disciplinare, sia nella fase della contestazione che nel procedimento sanzionatorio” e che, pertanto, diversamente da quanto si prospetta in ricorso, l’accertamento dei fatti costituenti illecito disciplinare non risultava basato solo sulla sentenza ex art. 444 c.p.c., ma anche sugli atti di indagine penale, richiamati nell’ordinanza di rinvio a giudizio, posta a fondamento della sentenza di condanna patteggiata, in virtù della quale era stato successivamente adottato il provvedimento di licenziamento impugnato.

Ha osservato, quindi, la corte che, in difetto di allegazione da parte del lavoratore, nel corso del processo penale, di una diversa e plausibile ricostruzione dei fatti, legittimamente il datore di lavoro aveva ritenuto che la condotta accertata integrasse una grave violazione dei doveri di servizio “per il coinvolgimento di minori e trattandosi di fatti commessi dal lavoratore nell’edificio scolastico approfittando delle proprie funzioni di custode”.

Il ricorso va, pertanto, rigettato, risultando le censure prospettate contrastanti con l’accertamento correttamente svolto dal giudice di merito e prive di decisività alla luce dei principi dallo stesso correttamente applicati, non senza, infine, osservare che la questione di costituzionalità prospettata risulta superata dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 336 del 18 dicembre 2009, già ricordata, che ne ha dichiarato la infondatezza.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 21,00 per esborsi ed in Euro 3.000,00 per onorario di avvocato, oltre a spese generali.

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2011

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