Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1140 del 18/01/2018


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Civile Ord. Sez. 5 Num. 1140 Anno 2018
Presidente: BRUSCHETTA ERNESTINO LUIGI
Relatore: LUCIOTTI LUCIO

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 795/2013 R.G. proposto da
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,
rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la
quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– ricorrente contro
CO.M.P.ES.

s.p.a.,

in persona del legale rappresentante

pro

tempore, Angelo Giustinelli, rappresentata e difesa, per procura
speciale a margine del controricorso, dagli avv.ti Giuseppe Donati ed
Ettore Romagnoli, ed elettivamente domiciliata presso lo studio legale
del secondo difensore, in Roma, alla via Livio Andronico, n. 24;
– controricorrenteavverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della
Lombardia, Sezione staccata di Brescia, n. 55/65/2012, depositata in
data 10 maggio 2012.
Udita la relazione svolta dal Cons. Lucio Luciotti nella camera di
consiglio del 24 ottobre 2017.

Data pubblicazione: 18/01/2018

RILEVATO

che con sentenza n. 55 del 10 maggio 2012 la Commissione

tributaria regionale della Lombardia, Sezione staccata di Brescia,
accoglieva l’appello proposto dalla società contribuente avverso
l’avviso di accertamento ai fini IVA relativo all’anno di imposta 2006
con cui l’Agenzia delle entrate aveva recuperato a tassazione le

regime di non imponibilità ai sensi dell’articolo 41 d.l. n. 331 del
1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 427 del 1993,
ritenendole irregolari perché i codici identificativi delle aziende
cessionarie aventi sede nella U.E. erano cessati (nella specie, quella
della società tedesca Erbsloeh Aluminium GMBH) ovvero attivati in
epoca successiva alla cessione dei beni (nella specie, con riferimento
alla società spagnola Alugroup Extrusion SA);
– che i giudici di appello sostenevano che la società appellante
aveva dimostrato l’esistenza delle società estere e l’effettività delle
operazioni commerciali e documentato che la società spagnola aveva
ottenuto il codice identificativo ai fini IVA in data 15/12/2006 ma con
retrodatazione

dell’iscrizione

nel

registro

degli

operatori

intracomunitari sin dal gennaio dello stesso anno, e che la società
tedesca non era cessata ma aveva semplicemente modificato il
numero di codice identificativo;
– che avverso tale statuizione l’Agenzia delle entrate propone
ricorso per cassazione affidato ad un motivo, cui la società intimata
ha replicato con controricorso;
CONSIDERATO
– che con il motivo di ricorso l’Agenzia ricorrente deduce, ai sensi
dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa
applicazione degli artt. 41, 46 e 50 d.l. n. 331 del 1993, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 427 del 1993, censurando la
sentenza impugnata laddove ha ritenuto illegittimo l’avviso di

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cessioni intracomunitarie effettuate dalla predetta contribuente in

accertamento sul presupposto dell’effettività delle operazioni
commerciali, pur difettando l’indicazione in fattura del numero di
identificazione attribuito alle società cessionarie estere, da ritenersi
condizione essenziale ai sensi delle citate disposizioni;
– che il motivo è infondato e va rigettato in quanto si pone in

Corte, alla quale deve darsi continuità, secondo cui «In tema di IVA, e
con riguardo alle “cessioni intracomunitarie”, introdotte dal d.l. 30
agosto 1993, n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427,
allo scopo di evitare doppie imposizioni e affinché l’imposta fosse
pagata nello Stato della Comunità europea nell’ambito del quale il
bene è destinato al consumo, la non imponibilità dell’operazione ai
sensi dell’art. 41 non è condizionata all’indicazione in fattura del
codice identificativo del cessionario estero, atteso che la legge si
limita a prescrivere, per il non assoggettamento ad imposta sul
territorio italiano, che il detto cessionario estero intracomunitario
abbia trasmesso al cedente il proprio numero di partita IVA, e cioè
che quello si identifichi come soggetto passivo del tributo nel proprio
Stato di residenza (art. 50, comma 1). Va pertanto esclusa
l’imponibilità delle operazioni di cessione per il solo fatto che la
società cedente abbia omesso di indicare in fattura il codice
identificativo del cessionario estero intracomunitario, perché una
siffatta sanzione si pone in contrasto sia con gli artt. 41, comma 1,
lettera a), e 50, comma 1, della legge, che una esplicita
comminatoria in tal senso non contengono, sia con i principi del
diritto comunitario, secondo i quali non può la medesima operazione
essere assoggettata ad imposizione tanto nel paese di origine dei beni
che in quello di destinazione degli stessi, con un’inammissibile
duplicazione d’imposta» Cass. n. 12455 del 2007; in senso conforme
Cass. n. 20575 del 2011, in cui si è precisato che quelli prescritti dagli
artt. 46, comma 1, e 50, commi 1 e 2, del decreto legge citato

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insanabile contrasto con la consolidata giurisprudenza di questa

costituiscono adempimenti di obblighi solo formali, «previsti per
agevolare il successivo controllo ed evitare atti elusivi o di natura
fraudolenta», mentre, per fruire della deroga agevolativa rispetto al
normale regime impositivo, occorre «invece – avuto riguardo alla
espressa previsione dell’art. 41, comma 1, lett. a), del d.l. n. 331 del

trasporto o la spedizione dei beni nel territorio di un altro Stato
membro – la prova dell’effettiva destinazione dei beni ceduti nel
territorio dello Stato membro in cui il cessionario è soggetto di
imposta»);
– che, in buona sostanza, nel caso di cessioni intracomunitarie
l’omessa o erronea indicazione del codice identificativo del cessionario
non può essere ritenuta ragione che faccia venir meno la possibilità di
applicazione del regime di non imponibilità di cui alla normativa
citata, non essendo requisito sostanziale (in termini, Cass. n. 15871
del 2016), che è invece costituito dall’effettività dell’operazione, che
nel caso di specie non è messa in dubbio;
– che, pertanto, il motivo di ricorso va rigettato e la ricorrente
condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle
spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in
dispositivo:
P.Q.M.
rigetta il motivo di ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio
di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre al
rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15 per cento ed agli
accessori di legge.
Così deciso in Roma il 24/10/2017
Il Presidente

1993, secondo cui la cessione non imponibile si realizza mediante il

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