Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11399 del 12/06/2020

Cassazione civile sez. I, 12/06/2020, (ud. 08/01/2020, dep. 12/06/2020), n.11399

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 3640/2019 proposto da:

R.A.A., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Cavour

presso la cancelleria della Corte di cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Luigi Migliaccio per procura speciale in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., elettivamente

domiciliato per legge presso l’Avvocatura Generale dello Stato in

Roma, Via dei Portoghesi, 12;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1251/2018 della Corte di appello di Catanzaro

depositata il 20.06.2018.

udita la relazione della causa svolta dal Cons. Laura Scalia nella

pubblica udienza del 08/01/2020;

udito il P.m., in persona del Sostituto Procuratore Generale Alberto

Cardino, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il difensore, Avvocato Luigi Migliaccio, che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Catanzaro con la sentenza n. 1251 del 2018 ha rigettato l’impugnazione proposta da R.A.A., cittadino del Pakistan, avverso l’ordinanza del locale tribunale che aveva respinto l’opposizione promossa dal primo promossa avverso il diniego frapposto dalla competente Commissione territoriale al riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ed umanitaria.

Ricorre per la cassazione dell’indicata sentenza R.A.A. con un unico motivo.

Il Ministero dell’Interno si è costituito tardivamente al dichiarato fine della partecipazione all’udienza di discussione della causa alla quale il rappresentante cella difesa erariale non era presente.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente, di etnia punjabi, originario di Sarghoda, che ha dichiarato di aver lasciato il Pakistan, paese di origine, all’esito di violenze e minacce sofferte per la fede sciita professata, deduce la violazione di legge e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, art. 3, comma 3, artt. 4 e 5 e art. 8, comma 1, lett. b), art. 14, lett. b) e c), D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in cui sarebbe incorsa la Corte di appello con l’impugnata sentenza denegando ogni forma di protezione, maggiore, ed umanitaria, in violazione dell’obbligo di cooperazione istruttoria.

La Corte di merito non avrebbe attivato i poteri istruttori ufficiosi nonostante il ricorrente avesse richiesto di essere sentito personalmente con l’ausilio di un interprete di madrelingua e l’eventuale traduzione dei documenti.

I giudici di appello avrebbero escluso il pericolo di persecuzione ed il rischio dedotto D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. b) con il valorizzare, di contro, piccole incongruenze ed imprecisioni del racconto, senza mettere in discussione la fede sciita dichiarata dal richiedente, elemento, questo, decisivo e rilevante al fine del riconoscimento delle forme di protezione richieste.

Come evidenziato dalla stessa impugnata motivazione infatti i problemi alla sicurezza della popolazione sarebbero derivati dagli atti terroristici di matrice settaria e religiosa che colpivano in prevalenza la minoranza musulmana sciita, essendo rari invece atti terroristici avverso soggetti estranei alla rivalità tra sunniti e sciiti.

La Corte di merito avrebbe dovuto acquisire informazioni sulla condizione della minoranza in Pakistan e sulla possibilità del richiedente protezione di avvalersi della protezione effettiva concreta e non temporanea della polizia.

I giudici di appello avrebbero dovuto utilizzato per valutare la credibilità del dichiarante il solo criterio della credibilità interna o soggettiva – diretto a valutare le dichiarazioni intese come descrizioni dei fatti occorsi quali l’atto persecutorio, le modalità di tempo e di luogo e le persone coinvolte – e non quello della credibilità esterna, criterio volto a valutare, invece, la coerenza di quanto dichiarato con le informazioni relative al paese di origine in tal modo violando il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

Il richiedente avrebbe fatto ogni sforzo per circostanziare la domanda allegando la denuncia per la morte del padre ed il relativo certificato ed una lettera dell’Imam ed avrebbe presentato domanda appena giunto in Italia. Le eventuali lacune e contraddizioni del racconto avrebbero dovuto determinare la Corte territoriale a disporre l’esame diretto del dichiarante come dallo steso richiesto sin dal giudizio di primo grado.

La Corte di merito avrebbe altresì in modo illogico stimato la documentazione prodotta dal richiedente come di incerta provenienza e di dubbia autenticità senza procedere alla traduzione della stessa, attività che sarebbe stata prodromica rispetto agli apprezzamenti invece svolti.

In presenza di contestazioni sulla conformità dei documenti prodotti dal richiedente, il giudice, prescindendo da preclusioni o impedimenti processuali, avrebbe dovuto d’ufficio svolgere attività istruttoria attivando canali diplomatici e rogatorie.

2. Il motivo nelle sue plurime articolazioni è infondato.

2.1. Quanto al giudizio formulato dalla Corte territoriale sulla non credibilità soggettiva del racconto, vero è che lo stesso non si fonda su circostanze secondarie e di nessun rilievo ai fini della credibilità del fatto narrato, risultando esso, piuttosto, formulato in ragione della mancata descrizione, neppure sommariamente dal primo assolta, dei due aggressori che avrebbero sparato sui partecipanti della festa sciita tra i quali vi era anche il richiedente protezione ed il padre di questi, che avrebbe in tal modo trovato la morte.

Si valorizza nell’impugnata sentenza la mancata indicazione delle armi dagli aggressori utilizzate e dell’ora in cui si sarebbe verificato l’episodio e di come gli aggressori sarebbero riusciti a dileguarsi nella pure evidenziata mancata indicazione della ragione dell’aggressione che è stata congruamente apprezzata in siffatto quadro dai giudici di appello come solo ipoteticamente riferita a questioni religiose.

La Corte di merito ritiene altresì il carattere inverosimile della dedotta evidenza per la quale gli aggressori ed i loro complici avrebbe avuto il numero di cellulare del richiedente. che costoro per tale via avrebbero minacciato e ancora la non credibilità della circostanza che il dichiarante si sarebbe allontanato dal proprio paese lasciandovi i familiari in balia di ritorsioni.

In tema di protezione internazionale ed umanitaria, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non è affidata alla mera opinione dei giudice ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, e, inoltre, tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente” (di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), D.Lgs. ult. cit.), con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolato quando si ritiene sussistente l’accadimento sicchè è compito dell’autorità amministrativa e del giudice dell’impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorandosi dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l’esercizio di poteri-doveri d’indagine officiosi e l’acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale (Cass. 14/11/2017 n. 26921).

La Corte di appello di Catanzaro con l’impugnata decisione ha fatto applicazione dell’indicato principio scrutinando quelle circostanze sulle quali, debitamente qualificate come relative a fatti principali e non secondari, ha fondato il giudizio sulla non credibilità soggettiva del racconto di cui ha apprezzato l’inverosimiglianza nella sua obiettiva realizzazione.

Nè il giudizio sulla credibilità soggettiva del racconto risente di equivocità e perplessità sicchè possa dirsi violato l’obbligo di cooperazione istruttoria ufficiosa che il giudice del merito è tenuto ad attivare a fronte di lacunosità della trama del racconto superabile attraverso chiarimenti resi dal dichiarante o acquisizione aliunde operate.

L’ulteriore profilo della credibilità esterna del racconto, intesa come diretta ad apprezzare la coerenza di quanto dichiarato con le condizioni del Paese di origine è passaggio successivo della valutazione cui è tenuto il giudice del merito nello scrutinio delle dichiarazioni del richiedente protezione internazionale ed umanitaria.

Solo nel caso in cui le dichiarazioni del richiedente protezione siano dotate di una loro intrinseca coerenza, valendo a dare conto di un fatto e del suo obiettivo verificarsi, il giudice del merito è tenuto successivamente a stimare delle prime la credibilità esterna, intesa come coerenza di quanto dichiarato con le informazioni relative al paese di origine.

Del pari il vaglio condotto sula genuinità delle prove documentali prodotte (denuncia dell’accaduto; certificato di morte del padre; lettera dell’Imam) a fronte di un quadro istruttorio che all’esito di un esame attivo è apparso alla Corte di merito, per circostanze rilevanti e non secondarie, lacunoso nella inattendibilità oggettiva del fatto accaduto come denunciato a sostegno della protezione richiesta, non deve spingersi ad acquisire la traduzione di quei documenti e tanto là dove i loro contenuti sono comunque diretti a dar conto dell’occorso dichiarato, già apprezzato nella sua oggettività come inverosimile.

Come ritenuto dalla Corte di merito valgono allora, e piuttosto, in senso contrario non tanto i contenuti di quei documenti, oggetto di traduzione negata, ma la loro provenienza e genuinità.

Il mezzo proposto è poi generico là dove denuncia l’erroneità del vaglio del racconto senza poi dedurre in modo puntuale se i contenuti del primo debbano valere a sostegno di forme di protezione maggiore o umanitaria.

2. In via conclusiva il ricorso è pertanto inammissibile.

Nulla sulle spese nella impropria costituzione dell’Amministrazione intimata.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, ove dovuto, a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, ove dovuto, a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile, il 8 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2020

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