Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11386 del 12/06/2020

Cassazione civile sez. I, 12/06/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 12/06/2020), n.11386

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Presidente di Sez. –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro M. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20996/2018 proposto da:

K.A., rappresentato e difeso dall’Avvocato Giordano Dorigo,

domiciliato in Roma, presso la cancelleria della Corte di

Cassazione;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno ((OMISSIS)), rappresentato e difeso

dall’Avvocatura Generale dello Stato, elettivamente domiciliato in

Roma Via Dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 3092 del TRIBUNALE di VENEZIA, Sezione

Specializzata in Materia di Immigrazione e Libera Circolazione dei

Cittadini dell’U.E., depositata il 04/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

01/10/2019 dal Rel. Pres. di Sez. FRASCA RAFFAELE.

Fatto

RILEVATO

che:

1. K.A., cittadino della Guinea, ha proposto ricorso per cassazione contro il Ministero dell’Interno avverso il decreto del 4 giugno 2018, con cui il Tribunale di Venezia, Sezione Specializzata in Materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’UE, ha respinto il suo ricorso contro il provvedimento della competente commissione del 24 maggio 2018 che – per quanto interessa in questa sede – aveva respinto la sua domanda principale di riconoscimento del diritto alla protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e quella subordinata al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari si sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

2. Il Ministero intimato ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Il ricorso articola cinque motivi, i primi tre dei quali relativi al rigetto della domanda di protezione sussidiaria e gli altri due relativi al rigetto della domanda di protezione umanitaria: ciò, per espressa indicazione del ricorrente.

2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia “violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e omesso esame circa uno e/o più fatti decisivi (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Mancata applicazione del principio del c.d. onere probatorio attenuato”.

Il motivo dichiara di censurare il decreto assumendo che esso si sarebbe limitato a citare il testo del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 ma senza applicare i criteri da esso previsi nel comma 5.

Peraltro, la motivazione in cui ciò sarebbe avvenuto non è identificata. Immeditatamente di seguito il ricorso, peraltro, afferma che “con questa motivazione” il tribunale avrebbe ritenuto di condividere i dubbi sulla credibilità del ricorrente sollevati dalla Commissione territoriale osservando che “”in assenza di rilievi puntuali da parte del ricorrente nel proprio atto introduttivo, ad essi possa esser fatto rinvio” (v. pag. 6, decreto di rigetto)”. Si sostiene di seguito che in tal modo il tribunale non avrebbe desunto dalla norma dell’art. 3 le “conseguenze giuridiche conformi alla sua corretta applicazione” e non avrebbe proceduto ad una “autonoma valutazione delle dichiarazioni (…) rese dal richiedente avanti la Commissione Territoriale”.

2.1. Il motivo già per il fatto di non identificare la motivazione con cui il Tribunale sarebbe incorso nell’errore denunciato si presenta inammissibile, in quanto non fornendo l’indicazione del suo oggetto non pone la Corte in condizione di procedere al suo vaglio.

Se una indiretta indicazione della motivazione criticanda si volesse cogliere sulla base del passo virgolettato sopra indicato, riferito alla pagina 6 del decreto impugnato, emergerebbe, peraltro, che il motivo, pur nella sua genericità non si correla alla motivazione resa dal decreto sulla c.d. protezione sussidiaria.

Infatti, se si passa dal ricorso alla lettura del decreto e si segue l’indicazione fatta dal ricorrente di quell’unico passo motivazionale che ha indicato come enunciato a pagina 6, si rileva che tale passo concerne il tenore della motivazione resa dal Tribunale non già a proposito della protezione sussidiaria, bensì riguardo allo status di rifugiato.

Invero, la motivazione del Tribunale in ordine alla protezione sussidiaria inizia con il quartultimo rigo della stessa pagina 6, il quale recita che espressamente che “va rigettata anche la domanda di protezione sussidiaria”. Detta motivazione si sviluppa, poi, fino al quindicesimo rigo della pagina 10 del decreto.

Il passo della stessa pagina 6 evocato dal ricorrente si rinviene invece nei righi dal terzo al quinto di quella pagina.

Si tratta di un passo che parrebbe far parte: a) o della motivazione espressa riguardo alla protezione umanitaria, che sembrerebbe iniziare al quintultimo rigo della pagina 4 e terminare al quintultimo rigo della pagina 6; b) o più verosimilmente – se si ritiene, valorizzando ciò che precede il passo de quo, cioè l’affermazione che “nel merito, si ritiene innanzitutto che i dubbi di credibilità sollevati dalla Commissione meritino condivisione…”, che i riferimenti che iniziano al detto rigo della pagina 4 siano solo ricognitivi della disciplina della protezione umanitaria e che la motivazione del Tribunale riguardo alle domande del ricorrente inizi appunto con detta affermazione – della motivazione concernente la domanda relativa al riconoscimento dello status di rifugiato: lo rivela, in particolare, la proposizione che precede l’affermazione che si coglie nel citato quartultimo rigo della pagina 6.

Tale proposizione, infatti, dice, in chiusura del discorso iniziato con le parole “nel merito”, sopra ricordate, che “ne consegue che, non essendo stato dimostrato il rischio di una persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate, lo status di rifugiato, che peraltro non era nemmeno stato richiesto”. Frase in cui manca il verbo indicante la conseguenza, ma che chiaramente si correla alla pur negata esistenza di una rivendicazione dello status di rifugiato.

Comunque, lo si ribadisce, è dopo la frase sopra citata del quartultimo rigo della pagina 6 circa la domanda di protezione sussidiaria che il decreto effettivamente motiva riguardo ad essa.

E’ dunque indiscutibile – quando pure si considerasse che dopo il quindicesimo rigo della pagina 9 il decreto riprende a svolgere considerazioni sulla protezione umanitaria – che l’unico passo del decreto che il ricorrente ha evocato è estraneo alla motivazione effettivamente resa sulla protezione sussidiaria nelle pagine indicate, sicchè il motivo non si preoccupa in alcun modo di sottoporre a critica tale motivazione.

Il motivo è, dunque, inammissibile, atteso che un motivo di ricorso per cassazione, come qualsiasi motivi di impugnazione, deve necessariamente criticare la motivazione resa dal provvedimento impugnato, essendo altrimenti inidoneo allo scopo (in termini, si veda Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017, che ribadisce il consolidato principio di diritto di cui a Cass. n. 359 del 2005 e numerose conformi).

3. Il secondo motivo denuncia “motivazione apparente e nullità del decreto di rigetto: art. 132 c.p.c., n. 4; art. art. 118 disp. att. c.p.c. e art. 111 Cost., comma 6: art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5”.

Anche questo motivo merita la stessa considerazione di quello precedente.

Infatti, nel sostenere la censura non evoca in alcun modo la motivazione resa dal decreto impugnato sulla protezione sussidiaria, siccome enunciata – secondo quanto sopra si è notato – dal quartultimo rigo della pagina 6 sino al quindicesimo rigo della pagina 9, ma nuovamente, come dimostrano plurimi riferimenti, quella enunciata alla pagina 6 prima del quartultimo rigo che ad essa non si riferisce.

Il motivo è, pertanto, inammissibile per ragioni analoghe a quelle indicate riguardo al primo motivo.

4. Mette conto di rilevare, comunque, che, se, per absurdum – dato che si tratterebbe di contraddire l’espressa precisazione del ricorso che a pagina 3 indica i due motivi fin qui esaminati come relativi al mancato riconoscimento della “protezione internazionale sussidiaria” – si volesse intendere i due motivi come relativi ad una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, dovrebbe comunque rilevarsi che non si sarebbe criticata l’affermazione del decreto sul non essere stata fatta quella domanda.

5. Con il terzo motivo si denuncia: “falsa applicazione circa l’insussistenza dei presupposti utili al riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e b). Art. 360, comma 1, nn. 3 e 5. E con riferimento alla lett. b) dell’art. 14: violazione della Convenzione di Istanbul del 11.05.2011, in vigore in Italia dal 01.08.2014, dell’art. 3 della Cedu, nonchè per entrambe le lett. b) e c), mancata verifica delle garanzie di giustizia in Guinea: art. 360, nn. 3 e 5”.

Anche questo motivo si segnala per l’assoluta mancanza di individuazione della motivazione che dovrebbe criticare: infatti, non contiene alcun minimo riferimento ad essa, sicchè nuovamente non è dato riconoscergli la consistenza di idoneo motivo di impugnazione.

Non solo: l’illustrazione non si fa carico proprio per tale ragione della motivazione resa dal Tribunale dal quartultimo rigo della pagina 6 sino al quindicesimo rigo della pagina 9. Le considerazioni svolte circa la situazione del paese di provenienza – evocative di un sito internet e di un articolo di una rivista (Internazionale) – nonchè la citazione di principi giurisprudenziali, risultano del tutto astratte e non appaiono nemmeno apprezzabili implicitamente – al di là della rilevata mancanza individuazione della motivazione criticanda e, quindi, di una correlazione ad essa individuata espressamente dal ricorrente – come in qualche modo relative ai passaggi motivazionali del decreto impugnato. Risultano, infatti, risultano del tutto assertorie e fra l’altro – là dove evocano le risultanze del sito e della rivista – anche fattuali e non idonee ad evidenziare falsa applicazione della norme evocate nell’intestazione del motivo.

Il motivo è, pertanto, inammissibile.

5. Il quarto motivo deduce: “violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3. Mancata valutazione autonoma dei presupposti utili alla protezione umanitaria ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6: art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Motivazione apparente e nullità del decreto di rigetto: art. 132 c.p.c., n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c. e art. 111 Cost., comma 6: art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5”.

Il quinto motivo prospetta: “Omesso esame di uno e/o più fatti decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 circa l’insussistenza dei presupposti utili al riconoscimento della protezione umanitaria (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 con riferimento alle strutture sanitarie e all’accesso alle cure in Guinea (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).”.

I due motivi sono relativi alla motivazione resa dal Tribunale sulla protezione umanitaria.

Tale motivazione è stata enunciata dal Tribunale in questi termini: “Quanto infine alla domanda di protezione umanitaria, la scarsa credibilità del ricorrente induce a ritenere non dimostrata l’esistenza di particolari profili di vulnerabilità che giustifichino il rilascio del permesso di soggiorno previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, dovendosi ricordare che “la non credibilità e genericità del racconto del ricorrente… costituiscono… motivi sufficienti anche per negare la protezione di cui trattasi, che deve ovviamente poggiare su specifiche e plausibili ragioni di fatto” (Cass. n. 27438/2016), La documentata esistenza di un disturbo post-traumatico da stress non consente di giungere a conclusioni diverse, posto che il permesso di soggiorno per motivi umanitari può essere rilasciato soltanto in presenta di problematiche di salute la cui gravità sia tale da non consentire il rimpatrio o che non possano essere adeguatamente curate, per la loro complessità, nel Paese di origine. Per quanto concerne l’intervenuto reperimento di un’attività lavorativa, essa non può essere di per sè considerata rilevante ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (Cass. 26641/2016). Questo è un istituto preordinato, come si è visto (n.d.r.: il Tribunale intende evidentemente fare riferimento alle considerazioni di natura normative svolte dalle ultime sei righe della pagine 4 fino al passo della pagina 6 evocato nell’illustrazione del primo motivo), a fornire una protezione in presenza di situazioni personali tale da ritenere che un rimpatrio del ricorrente potrebbe ledere quei diritti fondamentali che connotano la persona come tale, cosicchè estendere il suo ambito applicativo ad ipotesi in cui un soggetto abbia irregolarmente fatto ingresso nel territorio nazionale e abbia medio tempore trovato un impiego va al di là della ratio dell’istituto e comporterebbe un’elusione delle puntuali disposizioni dettate dal D.Lgs. n. 286 del 1998 in materia di visto di ingresso e di permesso di soggiorno per motivi lavorativi, che hanno diversa finalità e diverso ambito applicativo, non suscettibili di sovrapposizioni con il permesso di aggiorno per motivi umanitari”.

5.1. Il quarto motivo prospetta due censure.

5.1.1. La prima si appunta sull’affermazione della motivazione del decreto in ordine all’incidenza della scarsa credibilità del ricorrente in ordine al racconto delle ragioni anche al fine della dimostrazione delle condizioni di scarsa vulnerabilità rilevanti per la provvidenza in discorso.

La censura non riguarda, però, l’affermazione relativa a tale incidenza, che il Tribunale, peraltro, mostra di avere considerato solo come sintomo per non ritenere dimostrata la vulnerabilità. Si articola, invece, sull’esattezza della valutazione di scarsa credibilità effettuata dal Tribunale nell’ambito della valutazione svolta a proposito del riconoscimento dello status di rifugiato (sebbene prima di concludere che la relativa domanda nemmeno risultava formulata).

La censura, peraltro, è svolta con un rinvio a quanto argomentato nelle pagine 5, 6 e 7 del ricorso e, dunque, a proposito del primo e del secondo motivo. Per la verità è solo nella illustrazione del primo motivo che si svolgono considerazioni sulla valutazione concernente la credibilità, dato che nel secondo ci si occupa della valutazione del Tribunale sulle condizioni del paese di provenienza del ricorrente. Senonchè, nel primo motivo si critica solo una parte della motivazione sulla credibilità del c.d. “racconto” della vicenda personale. Nessuna considerazione invece si dedica alla parte di motivazione espressa dal decimo al quindicesimo rigo della pagina 6 ed anche a quella espressa di seguito fino al quintultimo rigo della stessa pagina.

Sicchè, la censura risulta priva di decisività perchè non coinvolge complessivamente la motivazione e ciò in disparte – circostanza comunque assorbente – che la critica alla parte di motivazione considerata si risolve in una censura alla ricostruzione della quaestio facti riguardo al tenore delle dichiarazioni rese dal ricorrente.

In ogni caso, ma lo si nota a questo punto ultroneamente, l’affermazione del Tribunale circa il rilievo della non credibilità è stata

anche enunciata in via soltanto preliminare ed è seguita da ulteriori ragioni motivazionali, sicchè non risulta decisiva di per sè.

5.1.2. La seconda censura svolta, quella di apparenza di motivazione, è manifestamente priva di fondamento: essa, infatti, si argomenta come mera conseguenza della critica svolta nella prima censura e, quindi, è anche in contraddizione con essa, giacchè se una motivazione c’è e viene criticata in iure (come fa la prima censura), non la si può poi censurare come apparente. Comunque, il rilievo di mancanza di decisività svolto in chiusura del sub paragrafo precedente non può che coinvolgere anche tale censura. D’altro canto, la motivazione del Tribunale, dopo l’accenno al valore della non credibilità si sviluppa ulteriormente, come emerge da quanto sopra riprodotta.

Inoltre, la stessa parte di motivazione evocata dal ricorrente con riferimento alla “documentata esistenza di un disturbo post-traumatico” non viene in alcun modo attinta da alcuna considerazione nella breve illustrazione del motivo.

5.2. Il quinto motivo si articola in primo luogo con la postulazione che il Tribunale avrebbe omesso di considerare il fatto storico della violenza da parte dei fratellastri come fonte del disturbo post-traumatico da stress certificato in Italia in strutture pubbliche.

Si tratta di censura priva di fondamento: è lo stesso ricorrente a riconoscerlo, là dove nel quarto motivo si è lamentato (infondatamente) di errori in iure e di apparenza di motivazione proprio riguardo alla credibilità della vicenda raccontata: è evidente allora che tale lamentela sottende allora un dissenso dalla valutazione del preteso fatto omesso, che, del resto, risulta dalla motivazione in punto di non credibilità a pagina 6 del decreto.

Quanto rilevato rende inutili le argomentazioni che successivamente, a pagina 13 del ricorso, il ricorrente svolge per sostenere che lo stato di stress in quanto ricollegato alla prospettata violenza familiare non troverebbe sufficienti cure in Guinea per lo stato del suo sistema sanitario, nonchè per lamentare che il Tribunale non abbia attivato poteri officiosi al riguardo.

D’altro canto, il Tribunale ha rilevato che la protezione umanitaria possa essere rilasciata solo per problematiche di salute la cui gravità sia tale da non consentire il rimpatrio o che non possano essere adeguatamente curate, così intendendo dire che il disturbo post-traumatico da stress non rivestisse tale carattere e ciò è un apprezzamento di fatto che non è censurabile in questa sede vigente l’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5.

Il motivo, del resto, nemmeno precisa i termini in cui gli era stato diagnosticato il disturbo post-traumatico, che resta del tutto oscuro, sicchè in esso non si può ritenere dedotto nemmeno un vizio di c.d. sussunzione per falsa applicazione dei paradigmi normativi indicati nella intestazione del motivo.

Sicchè il motivo in parte qua è del tutto privo della sostanza di una censura in iure.

Di seguito, a pagina 14 l’illustrazione del motivo svolge considerazioni che suppongo la credibilità del racconto sulla vicenda personale e, dunque, risentono della valutazione negativa effettuata al riguardo dal tribunale non incisa dal ricorso con il quarto motivo.

Sempre a pagina 14, di seguito, e fino alla pagina 15 si assume come fatto di cui si sarebbe omessa la considerazione la “provata capacità d’integrazione del ricorrente e del suo percorso di formazione culturale e lavorativo intrapreso in Italia”.

Senonchè, il Tribunale ha non solo considerato espressamente l’intervenuto reperimento da parte del ricorrente di un’attività lavorativa e, quindi, la censura di omesso esame è priva di fondamento.

Il ricorrente si duole, del resto, che il livello di integrazione non sia stato apprezzato a sufficienza (ultime sette righe della pagina 14 e pagina 15), ma tale valutazione pertiene all’apprezzamento di fatto.

Si aggiunga che il Tribunale ha affermato che l’avere reperito attività lavorativa non può essere di per sè sufficiente a giustificare la misura della protezione sussidiaria e tale affermazione è corretta in iure (si veda, di recente, Cass. Sez. Un., n. 29459 del 2019).

Poichè la motivazione del Tribunale sotto gli altri profili rilevanti per la valutazione della concedibilità della misura risulta consolidata, si deve anche rilavare che ogni considerazione della censura in questione si connoterebbe come carente di decisività.

6. Il ricorso è rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014.

Stante il tenore della pronuncia (di inammissibilità del ricorso), va dato atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto”. Spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione al resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro duemilacento, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2020

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