Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11384 del 12/06/2020

Cassazione civile sez. I, 12/06/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 12/06/2020), n.11384

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Presidente di Sez. –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro M. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17876/2018 proposto da:

D.S., rappresentato e difeso dall’avvocato Tartini

Francesco ed elettivamente domiciliato in Roma Via Torino, 7 presso

lo studio dell’avvocato Barberio Laura;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno ((OMISSIS)), rappresentato e difeso

dall’Avvocatura Generale Dello Stato, elettivamente domiciliato in

Roma Via Dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VENEZIA, depositata il

15/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

01/10/2019 dal rel. Pres. di Sez. FRASCA RAFFAELE.

Fatto

RILEVATO

che:

1. D.S., cittadino senegalese, ha proposto ricorso per cassazione contro il Ministero dell’Interno avverso il decreto del 15 maggio 2018, con cui il Tribunale di Venezia, Sezione Specializzata in Materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’UE, ha respinto il suo ricorso contro il provvedimento di detta commissione del 7 agosto 2017 che aveva respinto la sua domanda principale di riconoscimento del diritto alla protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e quella subordinata al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari si sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

1.1. Davanti alla Commissione Amministrativa il ricorrente, assumendo di essere cittadino senegalese di religione musulmana e di avere iniziato ad insegnare, come predicatore aiutante dell’imam, presso una scuola coranica, deduceva: a) che nel dicembre del 2014, allorchè, essendo stato interrogato sulla liceità o meno della pratica dell’infibulazione femminile, aveva nella successiva predicazione affermato che tale pratica era vietata dalla legge statale, ma non dal Corano e dagli altri testi dell’Islam; b) che, a seguito di quella predicazione poliziotti avevano chiesto informazioni al capo del suo villaggio e si erano presentati a casa sua, mentre egli si trovava per il fine settimana in altro villaggio; c) che era stato avvertito di ciò da un amico e gli era stato consigliato di non rientrare a casa perchè avrebbe potuto essere arrestato; d) che temendo di essere arrestato aveva abbandonato la Nigeria e, passando attraverso il Burkina Fasto e la Nigeria, era arrivato in Libia, da dove, dopo avervi lavorato per circa 10 mesi, si era imbarcato per l’Europa nel dicembre del 2015.

2. Il, Ministero intimato ha resistito con controricorso. Considerato che:

1. Il ricorso prospetta in via pregiudiziale due questioni di legittimità costituzionale, indicandole nei punti A) e B) e nel contempo ne fa motivi di ricorso.

La prima questione concerne “illegittimità costituzionale del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13 – art. 6, comma 1, lett. g) che introduce il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis e segnatamente il nuovo comma 13 che esclude la reclamabilità in appello del decreto che definisce il giudizio di primo grado”, nonchè “violazione del principio di ragionevolezza e del divieto di discriminazione – violazione dell’art. 14 CEDU, dell’art. 21 della carta di Nizza e degli artt. 3 e 117 Cost.”.

La seconda questione concerne “illegittimità costituzionale del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13 – art. 6, comma 1, lett. g) che introduce del D.Lgs. n. 25 del 2008, l’art. 35-bis e segnatamente il nuovo comma 13 che esclude la reclamabilità in appello del decreto che definisce il giudizio di primo grado”, nonchè “assenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza e conseguente violazione dell’art. 77 Cost.”.

1.1. La prima questione di costituzionalità è stata già ritenuta priva del requisito della non manifesta infondatezza da questa Corte con l’ord. n. 27700 del 2018, seguita da numerose conformi (allo stato della stesura della motivazione vi sono 140 decisioni che richiamano tale precedente).

1.2. La seconda questione di legittimità costituzionale è stata già esaminata da questa Corte e ritenuta carente del requisito della non manifesta infondatezza disattesa con la sentenza n. 17717 del 2018, le cui ragioni, peraltro, più volte ribadite da decisioni successive, fra cui, ex multis, Cass. (ord.) n. 28119 del 2019.

Nell’archivio Italgiureweb la sentenza del 2018 è richiamata alla data della stesura della presente da 104 decisioni.

2. Con il primo motivo di ricorso, con cui si deduce “nullità del provvedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su domanda o eccezione formulata dal ricorrente e segnatamente per la mancata pronuncia sulle questioni di legittimità costituzionale del D.L. n. 13 del 2007 sollevate nel ricorso di primo grado – error in procedendo”.

Tali questioni concernevano la stessa normativa sopra indicata, cioè l’art. 35-bis sopra citato, ma con riferimento all’applicazione del rito camerale ai ricorsi in materia di protezione internazionale.

L’omesso esame delle questioni di costituzionalità, secondo parte ricorrente, avrebbe integrato omissione di pronuncia con conseguente nullità del decreto impugnato.

2.2. Il motivo è inammissibile, in quanto la doglianza è inidonea ad evidenziare in astratto un’omissione di pronuncia ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ..

E’ stato, infatti, condivisibilmente e reiteratamente affermato che “La questione di legittimità costituzionale di una norma, in quanto strumentale rispetto alla domanda che implichi l’applicazione della norma medesima, non può costituire oggetto di un’autonoma istanza rispetto alla quale, in difetto di esame, sia configurabile un vizio di omessa pronuncia, ovvero (nel caso di censure concernenti le argomentazioni svolte dal giudice di merito) un vizio di motivazione, denunciabile con il ricorso per cassazione: la relativa questione è infatti deducibile e rilevabile nei successivi stati e gradi del giudizio che sia validamente instaurato, ove rilevante ai fini della decisione” (Cass. n. 26319 del 2006, ex multis).

E’, poi, appena il caso di rilevare che, se il motivo si volesse apprezzare come ripropositivo della questione di costituzionalità non esaminata, dovrebbe rilevarsi che sempre la citata Cass. n. 17717 del 2018 ebbe a ritenere che essa non sia assistita dal requisito della non manifesta infondatezza.

3. Con il secondo motivo si denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – art. 360 c.p.c., n. 5 in relazione alla pronuncia sulla domanda di protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. b)”.

L’illustrazione del motivo inizia con il riportare la motivazione resa dal Tribunale nelle pagine 6-7 e, dopo avere sostenuto di non volerla e non poterla contestare nel merito dati i limiti del giudizio di legittimità, si duole che il Tribunale avrebbe tuttavia omesso l’esame del fatto decisivo rappresentato dalla sollecitazione ad esaminare il timore del ricorrente di poter essere perseguito per i reati di cui agli artt. 179 e 180 c.p. senegalese.

3.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Parte ricorrente, infatti, non ha indicato come e dove nella sua domanda avrebbe evocato le due norme, sicchè non risulta osservato l’onere di puntuale indicazione del relativo fatto.

E’ da notare che tale onere non risulta assolto non solo nell’illustrazione del motivo, ma nemmeno nell’esposizione del fatto, giacchè a pagina 10 si fa riferimento in modo assolutamente generico alle pagine 21-23 del ricorso introduttivo, così demandando alla Corte di ricercare che cosa in esso potrebbe corrispondere all’allegazione svolta.

Il ricorrente avrebbe dovuto riprodurre direttamente il contenuto del ricorso di merito evocativo dei due articoli del codice senegalese oppure, in alternativa, specificare in quale parte delle pagine indicate l’evocazione fosse stata articolata, mentre, come si è detto, il rinvio alle pagine del ricorso stesso è del tutto generico.

Inoltre, ma lo si rileva ad abundantiam, avendo lo stesso ricorrente riferito di aver detto nel suo sermone che la pratica dell’infibulazione era vietata dalla legge statale ed essendosi limitato a dire che nessun divieto si rinveniva nel Corano e negli altri testi dell’Islam, si dovrebbe rilevare che la stessa prospettazione della rilevanza delle due norme non risultava decisiva, atteso che il contenuto del sermone non risultava in alcun modo, per come riferito dal ricorrente, idoneo ad evidenziare i comportamenti previsti dalle due norme.

Sicchè l’ipotetico omesso esame avrebbe riguardato un fatto che non risultava decisivo agli effetti dell’art. 360 c.p.c., invocato n. 5.

4. Con il terzo motivo si denuncia “violazione ed erronea interpretazione e/o applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Il motivo censura l’affermazione finale della motivazione evocata a proposito del motivo precedente, cioè quella con cui il Tribunale ha imputato al ricorrente di non avere fornito alcun elemento di prova circa l’essere ricercato o indagato per istigazione all’infibulazione.

4.1. Ora tale affermazione è stata fatta in modo del tutto aggiuntivo: a) perchè risulta enunciata fatta non solo dopo quella (ultime otto righe della pagina 6 e prime due della pagina 7) con cui il Tribunale ha affermato la contraddittorietà del racconto del ricorrente, per coerenziare la valutazione di non credibilità già effettuata dalla Commissione Territoriale, rilevando che in un paese come il Senegal, dove vi è libertà di religione ed il 96.1% della popolazione è di religione musulmana, risultava inverosimile che un uomo potesse subire condanne per essersi solo fatto portavoce dell’insegnamento coranico; b) ed anche perchè risulta fatta dopo quella che la mera dichiarazione del non essere vietata l’infibulazione dal Corano non potesse rappresentare istigazione ad essa.

La censurata affermazione circa gli elementi di prova risulta allora formulata in via del tutto aggiuntiva e non decisiva: la motivazione sulla non credibilità risulta, infatti, enunciata in modo decisivo già sulla base delle prime due argomentazioni, sicchè non risulta rilevante controllare se quella sul piano probatorio sia stata corretta. Se anche non lo fosse stata, resterebbe l’assorbenza delle due ragioni enunciate in precedenza.

5. Con il quarto motivo si denuncia “omesso esame circa in fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – art. 360 c.p.c., n. 5 in relazione alla pronuncia sulla domanda di protezione umanitaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 5, comma 6”.

Il motivo si duole che, ai fini della valutazione della domanda di concessione della misura della c.d. protezione umanitaria, il Tribunale non abbia dato rilievo al soggiorno in Libia nel clima di violenza e di guerra civile colà esistente, e ciò ancorchè esso si fosse protratto per 11 mesi. L’illustrazione del motivo evoca la decisione di questa Corte di cui all’ord. n. 2861 del 2018, assumendo di esserne consapevole e, tuttavia, rilevando che nel caso di specie la durata della sua permanenza avrebbe dovuto essere valutata dal Tribunale, che invece nessuna considerazione nella sua motivazione riguardo al beneficio avrebbe enunciato.

5.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Il ricorrente si limita a dire che “alle pagg. 33 e 34 del ricorso introduttivo (…) affermava la rilevanza del prolungato soggiorno in Libia ricordando che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, prescrive” che la domanda di protezione umanitaria dev’essere esaminata, “ove occorra”, anche alla luce di informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale esistente nei paesi di transito, e di avere altresì richiamato plurime pronunce di merito, anche dello stesso Tribunale di Venezia, che nell’ultimo biennio avevano riconosciute la “protezione umanitaria sulle disavventure personali subite in Libia”.

Anche in tal caso, queste deduzioni rimangono del tutto generiche ed inosservanti dell’onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, dato che omettono di riprodurre direttamente il contenuto delle allegazioni svolte e nemmeno lo indicano indirettamente rinviando a precise parti delle indicate pagine del ricorso introduttivo.

Sicchè, non risulta in alcun modo precisato come ed in che termini il Tribunale fosse stato investito della questione e, pertanto, nella descritta situazione la motivazione del Tribunale, là dove a proposito della forma di protezione umanitaria, ha rilevato l’assenza di indicazione di particolari profili di vulnerabilità, non appare in alcun modo espressiva – come sostiene il ricorrente – della mancata considerazione del transito in Libia, atteso che non è dato sapere se il Tribunale di tanto fosse stato investito.

Non solo: il ricorrente dice – in manifesta contraddizione intrinseca con il suo assunto e con quanto riferito nell’esposizione del fatto – che la sua vicenda sarebbe stata esposta nella domanda giudiziale solo con riferimento al timore di essere imprigionato in Senegal, ma nell’esposizione del fatto egli, alla pagina 6 del ricorso, ha invece indicate circostanze che si sarebbero narrate proprio riguardo alla permanenza in Libia.

Sicchè la sua prospettazione risulta, all’interno del ricorso nel suo complesso anche intrinsecamente contraddittoria.

Tali profili rendono il motivo inammissibile e ciò a prescindere dall’assoluta carenza di spiegazioni sul come sul perchè il transito e la permanenza in Libia fosse stato giustificativo di una particolare condizione di vulnerabilità originata da quella permanenza, ostativa ad un rientro nel suo paese di origine.

Il motivo risulta, dunque, anche del tutto generico, sì da impingere comunque nella ulteriore causa di inammissibilità affermata da consolidata giurisprudenza, risalente a Cass. n. 4741 del 2055, il cui principio di diritto è stato confermato, in motivazione non massimata, da Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017.

Si ricorda, in proposito che è stato affermato che: “Il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (nella disciplina previgente al D.L. n. 113 del 2018, conv., con modif., in L. n. 132 del 2018) costituisce una misura atipica e residuale, volta ad abbracciare situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento di una tutela tipica (“status” di rifugiato o protezione sussidiaria), non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità, da valutare caso per caso, anche considerando le violenze subite nel Paese di transito e di temporanea permanenza del richiedente asilo, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva negato la sussistenza dei presupposti per il rilascio del menzionato permesso di soggiorno, senza compiere alcuna valutazione in ordine alle violenze sessuali che la richiedente asilo, cittadina nigeriana, aveva allegato di avere subito in Libia, Paese di transito e di permanenza per un biennio)”.

Nel caso di specie parte ricorrente, i evidente violazione della necessaria specificità del motivo di ricorso per cassazione, nulla ha dedotto – come si è rilevato – circa un’eventuale condizione di vulnerabilità originata dalle modalità della sua permanenza in Libia, giustificativa della invocata protezione umanitaria.

6. Il ricorso è rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014.

Stante il tenore della pronuncia (di rigetto del ricorso), va dato atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto”. Spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione al resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro duemilacento, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2020

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