Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11383 del 24/05/2011

Cassazione civile sez. III, 24/05/2011, (ud. 28/04/2011, dep. 24/05/2011), n.11383

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. LEVI Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.L.F. (OMISSIS), D.L.E.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BARBERINI

86, presso lo studio dell’avvocato MARUCCHI GIAN LUCA (STUDIO LEGALE

CARDIA), che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato SCOTA

SILVIA giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

B.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA SABOTINO 22, presso lo studio dell’avvocato TARDELLA CARLO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROMANO CORSI

giusta delega in calce al controricorso;

Z.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, V.LE DELLE MILIZIE 22, presso lo studio dell’avvocato TURCO

IGOR, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati FELISETTI

DINO LUIGI, FELISETTI SIMONA giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 300/2008 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA –

SEZIONE 2A CIVILE, emessa il 12/12/2006, depositata il 13/02/2008,

R.G.N. 716/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/04/2011 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito l’Avvocato GIAN LUCA MARUCCHI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio che ha concluso per il rigetto.

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

1. I dottori E. e D.L.F. propongono ricorso per cassazione, sulla base di due motivi, illustrati con memoria, avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna del 13 febbraio 2008, che riformando quella di primo grado, ha ridotto la condanna agli stessi inflitta a titolo di risarcimento alla metà di Euro 120.175,75. Così facendo, la Corte territoriale ha parzialmente accolto l’appello degli stessi, escludendone la responsabilità solidale per le conseguenze dannose arrecate alla B. riferibili alla condotta del solo dott. Z.. Invero, si trattò, secondo la Corte, di due distinti eventi dannosi: del primo, causato solo dal dott. Z., non potevano rispondere soggetti del tutto estranei al suo verificarsi; mentre del secondo, benchè qualificabile come complicazione ed aggravamento del primo, dovevano rispondere “tutti”. La Corte ha stabilito che i D.L. rispondono nella misura del 50% del danno complessivamente liquidato: pur non potendo la percentuale desumersi da elementi determinabili con assoluta precisione, in assenza di motivate contestazioni, era sicuramente prudente fare riferimento, sia pure con ricorso al criterio equitativo ex art. 1226 c.c., alla valutazione proposta da consulenti d’ufficio altamente qualificati. Resistono con controricorso lo Z., che ha prodotto anche memoria, e la B., deducendo l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza del ricorso.

2.1. Il ricorrente deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 2055 c.c., commi 2 e 3, artt. 1226 e 1227 c.c., con riferimento al concorso del fatto colposo del creditore, ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto decisivo in ordine alla diversa efficienza causale nella determinazione dell’evento, chiedendo alla Corte se:

1.a. in ipotesi di due diversi eventi dannosi in cui un danno – evento venga ascritto al distinto comportamento di più agenti, (se la condanna dei soggetti coobbligati debba tenere conto, in riferimento all’art. 2055 c.c., commi 2 e 3 e alla sua uniforme applicazione, della diseguale efficienza causale delle azioni ai fini della rilevanza della ripartizione interna del peso del risarcimento del danno tra i corresponsabili, (se) si debba attribuire all’autore della condotta dannosa la sola parte di responsabilità correlata al suo distinto operato;

1.b. in ipotesi di concorso del danneggiato nella causazione del danno, ai sensi dell’art. 1227 c.c., la misura del danno a questi riconosciuta debba essere ridotta;

I.c. in ipotesi di un evento dannoso a cui concorra il comportamento di più persone il giudicante possa applicare il criterio equitativo ex art. 1226 c.c. in relazione alla valutazione della ripartizione delle singole responsabilità dei soggetti, laddove dagli atti emerga una diversa ripartizione delle medesime.

2.2. Col secondo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. e sulla prova del danno non patrimoniale; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, su punto decisivo in riferimento all’art. 2059 c.c., chiedendo alla Corte se, in ipotesi di comportamento illecito di più agenti, (se) il danno ex art. 2059 c.c. debba essere riconosciuto con riferimento alle singole condotte, e possa essere riconosciuto con riferimento ad una condotta non grave, ed in assenza di specifica allegazione e prova da parte del danneggiato, se dalle risultanze processuali non emerga un pregiudizio di natura seria.

3. I motivi si rivelano inammissibili per inidoneità dei quesiti formulata, alla fine di essi e dell’assenza del “momento di sintesi” che avrebbe dovuto corredare il profilo del vizio motivazionale dedotto nel secondo, come emerge chiaramente da quanto sopra riportato. Essi sono privi dei requisiti a pena di inammissibilità richiesti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile nella specie nel testo di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essendo stata l’impugnata sentenza pubblicata successivamente alla data (2 marzo 2006) di entrata in vigore del medesimo.

3.1. Il quesito, come noto, non può consistere in una domanda che si risolva in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni illustrate nel motivo e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere al quesito con l’enunciazione di una regula iuris (principio di diritto) che sia suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. A titolo indicativo, si può delineare uno schema secondo il quale sinteticamente si domanda alla corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata (Cass. S.U., ord. n 2658/08). E ciò quand’anche le ragioni dell’errore e della soluzione che si assume corretta siano invece – come prescritto dall’art. 366 c.p.c., n. 4 adeguatamente indicate nell’illustrazione del motivo, non potendo la norma di cui all’art. 366 bis c.p.c. interpretarsi nel senso che il quesito di diritto possa desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo, poichè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (Cass. 20 giugno 2008 n. 16941). Una formulazione del quesito di diritto idonea alla sua funzione richiede, pertanto, che, con riferimento ad ogni punto della sentenza investito da motivo di ricorso la parte, dopo avere del medesimo riassunto gli aspetti di fatto rilevanti ed averne indicato il modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe viceversa risolto, formulato in modo tale da circoscrivere la pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto (v.

Cass., 17/7/2008 n. 19769; 26/3/2007, n. 7258). Occorre, insomma che la Corte, leggendo il solo quesito, possa comprendere l’errore di diritto che si assume compiuto dal giudice nel caso concreto e quale, secondo il ricorrente, sarebbe stata la regola da applicare.

3.2.1. Non si rivelano, pertanto, idonei i tre quesiti formulati alla fine del primo motivo proposto nel presente ricorso, dato che non contengono precisi riferimenti in fatto (non si comprende se le ipotesi che si propongono all’inizio di ogni quesito corrispondano alla fattispecie sottoposta ai giudici, oppure alla ricostruzione asserita dal ricorrente o, ancora, alla soluzione data dal giudicante), nè espongono chiaramente le regole di diritto che si assumono erroneamente applicate e, quanto a quelle di cui s’invoca l’applicazione, si esauriscono in enunciazioni di carattere generale ed astratto che, in quanto prive di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, non consentono di dare risposte utili a definire la causa (Cass. S.U. 11.3.2008 n. 6420). Del resto, il quesito di diritto non può risolversi – come nell’ipotesi – in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta, ovvero in cui la risposta non consente di risolvere il caso sub iudice (Cass. S.U. 2/12/2008 n. 28536).

3.2.2. Senza contare che la censura rivela ulteriori profili d’inammissibilità, dal momento che:

a) la questione del concorso del fatto colposo del danneggiato ex art. 1227 c.c. è formulata in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo in esso specificato se, come e quando sia stata sottoposta nei precedenti gradi;

b) quella della diversa efficienza causale dell’apporto dei danneggianti concorrenti di cui al primo quesito – non cogliendo correttamente il decisimi – impugna un’asseritamente illegittima mancata ripartizione delle “colpe”, senza tenere conto dell’accertamento in fatto, operato dalla Corte territoriale, circa la condotta negligente di “tutti” i concorrenti nel secondo distinto evento dannoso e della conseguente quantificazione in armonia con le risultanze degli accertamenti peritali d’ufficio;

c) la liquidazione in via equitativa del danno del secondo evento dannoso va inquadrata nell’interpretazione estensiva, di cui è suscettibile la norma di cui all’art. 1226, ritenuta ammissibile da questa S.C. allorchè si tratti di identificare la parte di danno riferibile a ciascuna autonoma serie causale (Cass. 11 agosto 1982 n. 4544, secondo cui, qualora la produzione di un evento dannoso risalga al concorso di cause autonome e si configurino difficoltà probatorie in ordine all’identificazione della parte di danno rapportabile a ciascuna delle stesse, è legittima la valutazione della diversa efficienza delle varie concause con criteri equitativi, alla stregua di un1interpretazione estensiva dell’art. 1226 c.c. (ammissibile per qualsiasi norma) che risponde a ragioni di giustizia sostanziale ed impedisce di addossare tutto il risarcimento del danno al responsabile di una sola parte – talvolta anche minima – di esso; per applicazioni del medesimo principio in caso di concorso tra azione dell’uomo e fattori naturali, v. Cass. n. 975/09; 3133/74).

3.3. Quanto alla parte del secondo motivo con cui si deducono vizi di motivazione, a completamento della relativa esposizione, esso avrebbe dovuto indefettibilmente contenere la sintetica e riassuntiva indicazione: a) del fatto controverso; b) degli elementi di prova la cui valutazione avrebbe dovuto condurre a diversa decisione; c) degli argomenti logici per i quali tale diversa valutazione sarebbe stata necessaria (Cass. 17/7/2008 n. 19769, in motivazione). Orbene, nel caso con riferimento alle predette censure con le quali vengono denunziati vizi di motivazione, il ricorrente formula un “quesito” che non contiene alcun momento di sintesi, cosi esprimendosi secondo un modello difforme da quello normativamente delineato nei termini sopra esposti, sostanziandosi invero in meramente generiche ed apodittiche asserzioni non rispettose del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. La censura non reca, invero, la “chiara indicazione” del “fatto controverso” e delle “ragioni” che rendono inidonea la motivazione a sorreggere la decisione, l’art. 366 bis c.p.c., che come da questa Corte precisato richiede un quid pluris rispetto alla mera illustrazione del motivo, imponendo un contenuto specifico autonomamente ed immediatamente individuabile (v. Cass. 18/7/2007 n. 16002). L’individuazione dei denunziati vizi di motivazione (sia in ordine alla quantificazione del risarcimento in ordine al secondo evento dannoso, che in relazione alla parte di esso attribuito a titolo di danno morale) risulta perciò impropriamente rimessa all’attività esegetica del motivo da parte di questa Corte, oltre che consistere in un’inammissibile “diversa lettura” delle risultanze probatorie, apprezzate con congrua motivazione nella sentenza impugnata.

4. Pertanto, il ricorso è inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in favore di ciascuna dei controricorrenti in Euro 1.600,00=, di cui Euro 1.400,00= per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2011

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