Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1137 del 19/01/2011

Cassazione civile sez. lav., 19/01/2011, (ud. 09/11/2010, dep. 19/01/2011), n.1137

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 22909-2007 proposto da:

F.P., elettivamente domiciliato in ROMA, L.G. FARAVELLI

22, presso lo studio dell’avvocato MORRICO ENZO, che lo rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

SOCIETA’ EDITRICE ESEDRA S.L.R., persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GREGORIO VII 396,

presso lo studio dell’avvocato GIUFFRIDA ANTONIO, che la rappresenta

e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4975/2006 della CORTE D’APPELLO ai ROMA,

depositata il 05/09/2006 r.g.n. 5999/03;

udita .la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/11/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato MONICA GRASSI per delega ENZO MORRICO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA MARCELLO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, respingeva la domanda di F.P., direttore editoriale, proposta nei confronti della società editrice Esedra d’impugnativa del licenziamento intimatogli da detta società oralmente in data 23 novembre 1999 e per iscritto il 4 settembre 2000.

La Corte del merito rilevava, preliminarmente, che le circostanze, relative rispettivamente all’avvenuto cambio del direttore responsabile e alla mancata corresponsione della retribuzione nel periodo successivo al 23 gennaio 1999, non costituivano indizi sufficienti per ritenere la sussistenza di un licenziamento orale in quanto la sostituzione di un direttore di testata non significava licenziamento del precedente e nulla il ricorrente aveva replicato in ordine all’assunto della società secondo la quale la retribuzione era stata sempre a disposizione del T. il quale non si era mai presentato a ritirarla.

Sottolineava, poi, la predetta Corte che i testi escussi avevano smentito che il F. fosse stato licenziato oralmente. Anzi, precisava la Corte territoriale, risultando pubblicati due testi a firma dello stesso F. veniva a cadere la tesi della cessazione del rapporto di lavoro.

Il successivo licenziamento, intimato per assenza ingiustificata, era considerato dalla Corte del merito legittimo in quanto la irrogazione era stata preceduta da regolare procedimento di contestazione, non appariva tardivo in considerazione alla specifica posizione del ricorrente ed alla particolare struttura aziendale, ecc., ed era proporzionato alla prolungata assenza senza giustificazione.

Avverso questa sentenza il F. ricorre in cassazione sulla base di sette censure illustrate da memoria.

Resiste con controricorso la parte intimata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con la prima censura il ricorrente deduce vizio di motivazione nella parte in cui la Corte di Appello ha ritenuto l’insussistenza del licenziamento intimato oralmente, senza, però, escludere attraverso adeguata critica, la rilevanza degli elementi esterni al percorso logico seguito e che conducevano ad una soluzione diversa da quella adottata.

La censura è infondata.

Va premesso che per costante giurisprudenza costituisce principio del tutto pacifico che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) (in tal senso Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267 e 27 luglio 2008 n. 2049).

In tale ottica si è ribadito da questa Corte che la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito: le censure poste a fondamento del ricorso non possono pertanto risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito (Cass. 30 marzo 2007 n. 7972).

Sulla base di tali principi non possono trovare ingresso in questa sede le censure in esame che – a fronte di una valutazione delle risultanze istruttorie sorretta da congrua motivazione, la quale da conto del percorso logico seguito dai giudici di appello per addivenire alla conclusione che non vi è la prova della sussistenza di un licenziamento orale, bensì quella contraria che il rapporto non era cessato – mirano sostanzialmente a meramente contestare, e la scelta del giudice del merito, tra le complessive risultanze del processo, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, e la concludenza delle emergenze valutate. Le critiche, quindi, si risolvono, nella prospettazione di una diversa e più favorevole lettura delle emergenze istruttorie che, in quanto tali non sono ammissibili in sede di legittimità.

Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 416, 420 e 437 c.p.c. e art. 2697 c.c., formula, ex art. 366 bis c.p.c., i seguenti quesiti di diritto: 1.

“se incorre nella violazione e falsa applicazione degli artt. 416, 420 e 437 c.p.c. la sentenza che acconsenta, in secondo grado, a che entrino in giudizio temi d’indagine tardivamente introdotti, rappresentati nella specie, dalla messa a disposizione del F. della retribuzione anche nel periodo successivo al 23.11.99; dal mancato ritiro della stessa; dal fatto che il F. era solito prima del 23.11.99 recarsi in Società per ritirare la retribuzione”;

2. “se incorre in violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. la sentenza che ritenga non provato un fatto negativo (mancata erogazione della retribuzione) sulla base, non già della prova del fatto positivo impeditivo eliminativo avvenuta erogazione della retribuzione), ma, per converso sulla base della mera allegazione, non provata, di aver messo a disposizione del lavoratore la retribuzione e che quest’ultimo non si sarebbe presentato in Società per il ritiro della stessa”.

La censura è infondata.

La sentenza impugnata risulta ancorata a due distinte rationes decidendi, autonome l’una dalla altra, e ciascuna, da sola, sufficiente a sorreggerne il dictum: da un lato, all’affermazione della inidoneità degli indizi a suffragare la tesi della sussistenza di un licenziamento orale; dall’altro, al rilievo che la prova testimoniale ha escluso l’avvenuta cessazione del rapporto di lavoro.

Infatti è ius receptum, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio per il quale l’impugnazione di una decisione basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sè solo, idoneo a supportare il relativo dictum, per poter essere ravvisata meritevole di ingresso, deve risultare articolata in uno spettro di censure tale da investire, e da investire utilmente, tutti gli ordini di ragioni cennati, posto che la mancata critica di uno di questi o la relativa attitudine a resistere agli appunti mossigli comporterebbero che la decisione dovrebbe essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato e priverebbero l’impugnazione dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (cfr., in merito, ex multis, Cass. 26 marzo 2001 n. 4349, Cass. 27 marzo 2001 n 4424 e da ultimo Cass. 20 novembre 2009 n. 2454).

Orbene nel caso di specie la censura del ricorrente attiene alla ritenuta mancanza d’indizi per la sussistenza di un licenziamento orale e non investe in alcun modo l’affermata ricorrenza di elementi di prova atti a dimostrare che il rapporto di lavoro non era cessato.

Con il terzo motivo il ricorrente allega vizio di motivazione laddove il Collegio non si è pronunciato sulla tardività della contestazione.

Il motivo non è accoglibile.

Invero, per correttamente investire questa Corte della questione dell’omessa motivazione – rectius pronuncia – sulla questione della tardività della contestazione, il ricorrente avrebbe dovuto allegare non solo di aver devoluto siffatta tematica dinanzi al giudice di appello, come in effetti ha puntualmente precisato, ma anche e soprattutto di aver ritualmente dedotto la stessa innanzi al giudice di primo grado.

Il principio acquisito alla giurisprudenza di questa Corte, infatti, che affinchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronuncia, è necessario, da un lato, che al giudice del merito fossero state rivolte una domanda o un’eccezione autonomamente apprezzabili, e, dall’altro, che tali domande o eccezioni siano state riportate puntualmente, nei loro esatti termini, nel ricorso per cassazione, per il principio dell’autosufficienza, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le une o le altre erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività (Cass. S.U. 28 luglio 2005, n. 15781).

Nella specie difetta proprio l’allegazione di aver ritualmente dedotto ed in quali termini la questione dinanzi al giudice di primo grado.

Con la quarta censura il F. denuncia omessa motivazione circa la ravvisata tempestività della erogazione della sanzione espulsiva.

La censura è infondata.

E’ sufficiente al riguardo richiamare quanto osservato in relazione allo scrutinio del primo motivo del ricorso e ribadire che: in sede di legittimità non è consentita una rivalutazione degli elementi probatori essendo il sindacato di legittimità limitato al controllo della coerenza ed adeguatezza della motivazione posta a base del decisum.

Sul punto in questione i giudici di appello forniscono una esauriente e congrua motivazione priva di vizi logici che si basa su di un apprezzamento di fatto circa le circostanze che giustificano il lasso di tempo trascorso tra l’addebito e l’intimazione del licenziamento.

Con il quinto motivo il ricorrente, denunciando violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, pone, ex art. 366 bis c.p.c., il seguente quesito di diritto: “se incorre nella violazione della L. n. 300 del 1970 la sentenza che ritenga tempestiva l’irrogazione di un licenziamento decorsi cinque mesi dalla contestazione di un fatto, l’accertamento della cui relativa verificazione non richiede accertamenti complessi, motivando nel senso che, nella specie non vi siano state nè una concreta compromissione del diritto di difesa del lavoratore, nè l’esistenza di una implicita rinuncia datoriale al proprio potere di recesso”.

La censura per come articolata non è esaminabile in questa sede.

Infatti il ricorrente con il motivo in esame ripropone la stessa questione di cui al precedente motivo sotto il profilo non del vizio di motivazione, ma di violazione di legge che si risolve però in una inammissibile contestazione dell’apprezzamento di fatto operato dal giudice del merito.

In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge, infatti, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall’art. 65 ord. giud.); viceversa, L’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 15499/04, 16312/05, 10127/06).

Nella specie vi è appunto deduzione di erronea applicazione di legge in relazione alla valutazione degli elementi probatori.

Con il sesto motivo il F. allega omessa motivazione sulla giustificatezza delle assenze.

Sostiene che queste sarebbero state determinate dalle gravi inadempienze poste in essere dal datore di lavoro che non gli aveva più conferito incarico, nè assegnato una postazione di lavoro, nè gli aveva più (Ndr: testo originale non comprensibile) la retribuzione.

Il motivo è infondato.

E’ sufficiente richiamare giurisprudenza di questa Corte, pienamente condivisa dal Collegio, secondo la quale al fine di adempiere all’obbligo della motivazione, il giudice del merito non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali ed a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo aver vagliato, le une e le altre nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 25 maggio 1995 n. 5748).

Nè, e vale la pena di rilevarlo, il ricorrente allega, nel rispetto del principio di autosufficienza, di aver ritualmente dedotto dinanzi al giudice di primo grado le prospettate ragioni di giutificatezza delle assenze.

Con la settima ed ultima censura il ricorrente denuncia omessa motivazione in punto di ritenuta proporzionalità della sanzione espulsiva.

La censura è infondata.

Vanno in proposito richiamate le osservazioni sviluppate in precedenza riguardo all’apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito ed all’ambito del relativo sindacato d: legittimità.

Nello scrutinio della censura in esame rileva il Collegio che anche relativamente al punto in questione, la motivazione della sentenza di appello che ritiene proporzionata la sanzione all’addebito è congrua e priva di illogicità.

Il ricorso in conclusione va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 13,00 oltre E. 3.000,00 per onorario ed oltre spese, IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2011

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