Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11353 del 12/06/2020

Cassazione civile sez. I, 12/06/2020, (ud. 20/02/2020, dep. 12/06/2020), n.11353

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 978/2016 proposto da:

(OMISSIS) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

C.M.A., S.P., elettivamente domiciliati in Roma,

Via Antonio Gramsci n. 9, presso lo studio dell’avvocato Guzzo

Arcangelo, rappresentati e difesi dall’avvocato Carbone Giacomo,

Mancuso Gaetano, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

Curatela Fallimento (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione, Curatela

Fallimento (OMISSIS) S.r.l. e di S.P. e

C.M.A., Fondazione Enasarco, International Paper S.r.l.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1592/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 15/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/02/2020 dal cons. FIDANZIA ANDREA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale SOLDI

ANNA MARIA che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito, per i ricorrenti, l’Avvocato Carbone G. che si riporta.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata il 15.12.2015 la Corte d’Appello di Catanzaro ha rigettato il reclamo proposto dalla (OMISSIS) s.r.l., C.M.A. e S.P. avverso la sentenza n. 19/2015, depositata il 14.7.2015, con cui il Tribunale di Catanzaro ha dichiarato il fallimento della (OMISSIS) s.r.l., C.M. e S.P. in estensione del fallimento (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione.

Il giudice di secondo grado, dopo aver preliminarmente affermato in diritto che la società a responsabilità limitata può detenere partecipazioni in una società personale anche in difetto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2361 c.c. (essendo tale norma applicabile solo alle società per azioni), e che in virtù di un’interpretazione estensiva della L.Fall., art. 147, comma 5, il fallimento è estensibile ad una società di fatto occulta anche se il soggetto già fallito non è un imprenditore individuale, ma un soggetto collettivo, ha ritenuto la sussistenza di una società di fatto tra (OMISSIS) s.r.l., C.M. e S.P. avente ad oggetto l’eterodirezione ed il coordinamento della società fallita (OMISSIS) s.r.l. in liquidazione e la (OMISSIS) s.r.l..

In particolare, la Corte d’Appello di Catanzaro ha evidenziato che relativamente a queste ultime società, vi è stata la gestione di un’unica attività commerciale ed imprenditoriale, evincibile dalla denominazione della nuova società (la (OMISSIS) s.r.l.) simile a quella fallita, dalla coincidenza della sede legale, amministrativa ed operativa, dall’elemento personale, facendo capo sia la compagine sociale che l’amministrazione di entrambe le società a soggetti appartenenti allo stesso nucleo familiare.

Infine, il giudice di secondo grado, pur non ritenendo rilevante accertare lo stato di insolvenza della società di fatto per cui è procedimento, data la natura derivativa del fallimento dichiarato, ha comunque verificato la sussistenza in concreto di tale elemento.

Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione la (OMISSIS) s.r.l., C.M.A. e S.P. affidandolo a quattro motivi.

La curatela del fallimento (OMISSIS) s.r.l. non ha svolto difese.

I ricorrenti hanno depositato la memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione della L.Fall., art. 147, artt. 2947 e 2361 c.c., in combinato disposto con l’art. 111 duodecies disp. att. c.c. e art. 2697 c.c..

Lamentano i ricorrenti che il giudice di secondo grado ha ritenuto, nel caso di specie, la sussistenza di una società di fatto holding al solo scopo di aggirare l’ostacolo costituito dall’art. 2497 c.c., che non consente di individuare una “holding” diretta da persone fisiche (i coniugi C. e S.), atteso che possono incorrere nella responsabilità da abusiva direzione e coordinamento esclusivamente le società, gli enti e non le persone fisiche, anche alla luce della interpretazione autentica del termine “enti” di cui all’art. 2497 c.c. contenuta nel D.L. 1 luglio 2009, n. 78, conv. nella L. n. 102 del 2009.

I ricorrenti lamentano, altresì, che la sentenza impugnata si è posta in contrasto sia con l’art. 2479 c.c., comma 4, n. 5, sul rilievo che affinchè una società a responsabilità limitata partecipi ad una società di fatto è necessario che la decisione sia adottata dai soci con delibera assembleare, sia con la L.Fall., art. 147, potendo il fallimento estendersi ad una società (occulta) di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile solo se imprenditore individuale e non soggetto collettivo.

Peraltro, si lamenta che è stato omesso l’accertamento della riferibilità dell’attività imprenditoriale svolta dalla società dichiarata fallita alla società di fatto, dal momento che alla data di costituzione della (OMISSIS) s.r.l. (21/10/2008) e a quella di cessione del ramo d’azienda (30/01/2009), la società fallita era già stata sciolta ed erano state avviate le procedure di liquidazione, senza considerare, infine, l’insussistenza dello stato di insolvenza della nuova società.

2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2247 c.c., nonchè omessa ed insufficiente motivazione circa i fatti decisivi del giudizio.

Lamentano i ricorrenti che, ai fini della configurabilità della società, sono necessari il conferimento di beni e servizi, la volontà di collaborazione al fine di raggiungere uno scopo comune e l’esteriorizzazione del vincolo sociale, mentre il giudice del reclamo non ha accertato la sussistenza di tali requisiti, essendo stata individuata l’esistenza di una società di fatto nella vendita del ramo d’azienda da parte di una società che aveva cessato l’attività economica ed avviato le procedure di liquidazione, ed essendo stata ritenuta l’esteriorizzazione del vincolo in elementi non conferenti.

3. I primi due motivi, da esaminare unitariamente, avendo ad oggetto questioni connesse, presentano profili di inammissibilità ed infondatezza.

Va, in primo luogo, osservato che i ricorrenti assumono genericamente ed apoditticamente che la Corte d’Appello avrebbe rinvenuto, nel caso di specie, la sussistenza di una società di fatto “holding” allo scopo di aggirare l’ostacolo costituito dall’art. 2497 c.c. (che non consente che la “holding” sia costituita da persone fisiche), senza neppure indicare gli elementi su cui fondano un tale assunto, limitandosi quindi ad illustrare in astratto il significato di enti di cui all’art. 2497 c.c., alla luce dell’interpretazione autentica contenuta nel D.L. 1 luglio 2009, n. 78, conv. nella L. n. 102 del 2009.

Infondate sono le censure relativamente sia alla ammissibilità della partecipazione di una società a responsabilità limitata in una società personale, sia alla dedotta inammissibilità di un’interpretazione estensiva della L.Fall., art. 147, comma 5, ove il soggetto fallito sia collettivo.

Quanto alla prima doglianza, va osservato che questa Corte, nella sentenza n. 1095 del 21/01/2016, ha statuito che la partecipazione di una società a responsabilità limitata in una società di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell’art. 2361 c.c., comma 2, dettato per le società per azioni, e costituisce un atto gestorio proprio dell’organo amministrativo, il quale non richiede – almeno allorchè l’assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell’oggetto sociale (fattispecie estranea al caso di specie) – la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell’art. 2479 c.c., comma 2, n. 5.

In particolare, è stato evidenziato dalla predetta sentenza che la partecipazione di una società di capitali in una società di persone non tanto comporta una modificazione dei diritti dei soci – come affermato dai ricorrenti – quanto della società partecipante stessa che diviene illimitatamente responsabile. I soci di questa, invece, continuano ad essere vincolati nei limiti del conferimento.

Quanto alla seconda doglianza, va osservato che questa Corte, con sentenza n. 10507/2016, ha già statuito che la L.Fall., art. 147, comma 5, trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, ma, in virtù di sua interpretazione estensiva, anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone.

E’ stato, in particolare, messo in luce che un’interpretazione della L.Fall., art. 147, comma 5, che conducesse all’affermazione dell’applicabilità della norma al solo caso (di fallimento dell’imprenditore individuale) in essa espressamente considerato, risulterebbe in contrasto col principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.: invero, una volta ammessa la configurabilità di una società di fatto partecipata da società di capitali e la conseguente sua fallibilità ai sensi della L.Fall., art. 147, comma 1, non v’è alcuna ragione che, nell’ipotesi disciplinata dal ridetto comma 5 – in cui l’esistenza della società emerga in data successiva al fallimento autonomamente dichiarato di uno solo dei soci – possa giustificarne un differenziato trattamento normativo, ammettendone o escludendone la fallibilità a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale o collettivo. Non può infatti concepirsi diversità di trattamento fra due fattispecie che presentano identità di ratio.

Questo Collegio non intende discostarsi da tale condivisibile orientamento.

Inammissibili sono anche le censure secondo cui la Corte d’Appello avrebbe omesso l’accertamento della riferibilità dell’attività imprenditoriale svolta dalla società dichiarata fallita alla società di fatto e non avrebbe provveduto all’accertamento dei requisiti richiesti dall’art. 2247 c.c., ai fini della configurabilità del rapporto di società.

In primo luogo, va osservato che il giudice di secondo grado non ha affatto accertato l’esistenza di una società di fatto in relazione alla vendita da parte della società originariamente fallita ((OMISSIS) s.r.l.) del ramo d’azienda alla (OMISSIS) s.r.l. dopo che aveva cessato l’attività economica ed avviato le procedure di liquidazione.

In realtà, in primis, va evidenziato che la Corte d’Appello ha messo in luce che nel periodo che va dal 10.10.2008, data di costituzione della (OMISSIS) s.r.l., fino al 30.1.2009, data in cui la predetta società ha acquistato il ramo d’azienda dalla (OMISSIS) s.r.l., poi posta in liquidazione (e successivamente fallita) – periodo caratterizzato quindi da una sovrapposizione delle due società – vi è stata la gestione di un’unica attività imprenditoriale e commerciale riferibile alla società di fatto formata dalla (OMISSIS) s.r.l., dalla (OMISSIS) s.r.l. e dai coniugi C.- S., i quali si sono comportati come soci di un unico soggetto giuridico.

A tale conclusione la Corte d’Appello è pervenuta sulla base di una serie di indizi, quali il medesimo oggetto delle due società, la denominazione della nuova società (la (OMISSIS) s.r.l.) simile a quella fallita, la coincidenza della sede legale, amministrativa ed operativa – elementi questi valorizzati anche per dimostrare l’esteriorizzazione del vincolo sociale – l’elemento personale, facendo capo sia la compagine sociale che l’amministrazione di entrambe le società a soggetti appartenenti allo stesso nucleo familiare.

Con tale percorso argomentativo i ricorrenti non si sono seriamente confrontati, limitandosi a dedurre in astratto il mancato rispetto dei requisiti di cui all’art. 2247 c.c. e a contestare in modo superficiale ed apodittico gli elementi valorizzati dal giudice di secondo grado con censure (tra le quali quelle con cui si contesta la sussistenza dello stato di insolvenza) che, comunque, si configurano come di merito, essendo finalizzate a sollecitare una diversa valutazione del materiale probatorio rispetto a quella operata dai giudici di merito.

Del tutto inammissibile (al di là della impropria espressione utilizzata, non pienamente coerente con la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) è, inoltre, la censura di omessa e/o insufficiente motivazione circa i fatti decisivi del giudizio, non essendo stat0-leppure dedottgiquali sarebbero i fatti decisivi che sarebbero stati oggetto di discussione tra le parti di cui la Corte d’Appello avrebbe omesso l’analisi.

4. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione o falsa applicazione della L.Fall., artt. 10 e 147.

Lamentano i ricorrenti che la curatela era sicuramente a conoscenza dello scioglimento del vincolo sociale alla data del 18/06/2013, data di deposito della prima istanza per estensione del fallimento in loro danno. Ne consegue che la declaratoria di fallimento avrebbe dovuto intervenire entro il 18/06/2014.

5. Il motivo è infondato.

Va osservato che anche recentemente questa Corte ha statuito – ed il Collegio aderisce pienamente a tale orientamento – che il termine di un anno dalla cessazione dell’attività, previsto dalla L.Fall., art. 10, ai fini della dichiarazione di fallimento, decorre, tanto per gli imprenditori individuali quanto per quelli collettivi, dalla cancellazione dal registro delle imprese e non può trovare, quindi, applicazione per quegli imprenditori che neppure siano stati iscritti nel menzionato registro, in quanto, da un lato, si tratta di beneficio riservato soltanto a coloro che abbiano assolto all’adempimento formale dell’iscrizione, e, dall’altro, l’creditori ed il Pubblico Ministero, ai sensi della L.Fall., art. 10, comma 2, possono dare la prova della data di effettiva cessazione dell’attività d’impresa soltanto nei confronti di soggetti cancellati dal registro delle imprese, d’ufficio o su richiesta, e, quindi, comunque in precedenza necessariamente iscritti. (Cass. n. 5520 del 06/03/2017).

6. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere la Corte d’Appello, nonostante non abbia condiviso la qualificazione giuridica del Tribunale, nel dispositivo nè confermato nè revocato la decisione del giudice di prima istanza, nè adottato alcun provvedimento in ordine alla prosecuzione della procedura fallimentare.

Nessuna statuizione è, inoltre, stata adottata in ordine alla preliminare richiesta L.Fall., ex art. 19.

7. Il motivo è inammissibile.

Va, preliminarmente, osservato che il giudice di secondo grado non è affatto incorso in una omessa pronuncia, avendo ampiamente motivato con un percorso argomentativo articolato il rigetto del reclamo proposto dagli odierni ricorrenti (seppur partendo da una qualificazione giuridica diversa della fattispecie sottoposta al suo esame). Per una mera svista, emendabile con il procedimento di correzione materiale ex artt. 2897 e 391 bis c.p.c. (Cass. n. 668/2019), non è stata riportata nel dispositivo la statuizione di rigetto.

In ogni caso, nessun dubbio può sussistere in ordine all’intendimento del giudice di secondo grado, che ha condannato i reclamanti al pagamento delle spese processuali (come conseguenza della loro soccombenza), dando atto della sussistenza dei presupposti (che non possono essere se non il rigetto o l’inammissibilità dell’impugnazione) per il pagamento del doppio contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater.

Quanto alla dedotta omessa statuizione sulla richiesta preliminare L.Fall., ex art. 19, questa Corte ha già chiarito che non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto (Cass. n. 20718/2018; Cass. 29191/2017).

E’ evidente che con il rigetto del reclamo la Corte d’Appello ha inteso rigettare implicitamente l’istanza di sospensione della liquidazione dell’attivo L.Fall., ex art. 19, (cfr. Cass. n. 27087/2011).

Infine, nessuna statuizione doveva essere adottata in ordine alla prosecuzione della procedura fallimentare, chiaramente implicita nella statuizione di rigetto del reclamo.

Il rigetto del ricorso non comporta la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, non essendosi la procedura intimata costituita in giudizio.

P.Q.M.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma in data 20.02.2020

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2020

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