Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11330 del 23/05/2011

Cassazione civile sez. lav., 23/05/2011, (ud. 24/03/2011, dep. 23/05/2011), n.11330

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RENO 21,

presso lo studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che lo rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1254/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 09/05/2006 R.G.N. 9689/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/03/2011 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega TRIFIRO’ SALVATORE;

udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 13.11.2003, il Tribunale di Roma aveva parzialmente accolto il ricorso proposto da D.D. nei confronti della spa Poste Italiane spa e, ritenuta la nullità del termine apposto al contratto stipulato tra le stesse parti, aveva dichiarato la sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato a far data dal 27.6.2000, condannando la società a riammettere in servizio la lavoratrice ed a corrisponderle le retribuzioni maturate dalla messa in mora.

Con sentenza del 9.5.2006, la Corte di Appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame delle Poste ed in parziale riforma della sentenza impugnata confermata nel resto, limitava al 30.9.2003 la condanna dell’appellante al risarcimento del danno.

Osservava che gli accordi successivi alla data dell’aprile 1998 – valutabili anche ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2, – confermavano che dopo tale data non era più possibile procedere a nuove assunzioni a termine e che la L. 1987, art. 23, aveva indubbiamente attribuito alla autonomia collettiva la facoltà di individuare nuove ipotesi di contratti a termine, ma solo alla condizione che tali fattispecie fossero esattamente e chiaramente individuate, risolvendosi altrimenti la norma in una inammissibile delega alla creazione di un nuovo tipo contrattuale. Con riguardo alla quantificazione de danno, osservava che dalla messa in mora poteva considerarsi, ai fini della quantificazione della condanna risarcitoria, un termine di tre anni, entro il quale l’appellata avrebbe ben potuto attivarsi per trovare altra occupazione e che in tal senso il danno dovesse pertanto limitarsi.

Propone ricorso per cassazione la società, affidando l’impugnazione a due motivi:

Resiste con controricorso la D., che ha depositato, altresì, memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La ricorrente, con il primo motivo di ricorso, denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione agli artt. 1362 e ss. c.c.; nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) in ordine alla efficacia dell’accordo del 25.9.1997, integrativo dell’art. 8 c.c.n.l. 1994.

Sostiene che l’efficacia dell’accordo del 25.9.1997 sia temporalmente limitata al 30.4.1998, atteso che gli atti intervenuti tra le parti successivamente all’accordo suddetto avevano natura ricognitiva e non fissavano alcun limite temporale. Anche il comportamento successivo delle parti, rilevante ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2, era nel senso che le parti avevano inteso introdurre un’ipotesi che doveva essere efficace fino allo scadere del CCNL del 27.11.1994. Osserva che, invero, nell’accordo del 18.1.2001 le parti sociali da un lato si erano date atto che fino ad allora i contratti a termine erano stati stipulati dalla società in conformità a quanto previsto nell’accordo del 25.9.1997 e dall’altro avevano convenuto che per il futuro il ricorso ai contratti a termine sarebbe avvenuto in base a nuova disciplina pattizia di cui al c.c.n.l. 11.1.2001. Il contratto del 25.9.1997 doveva, dunque, ritenersi integrativo della disciplina del c.c.n.l. e come tale destinato a valere per l’intera durata di questo, laddove gli accordi attuativi avevano il senso di verificare periodicamente la sussistenza delle ragioni giustificative del termine così come proceduralizzato nel successivo contatto collettivo del 2001.

Con il secondo motivo, la società ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione agli artt. 1217 e 1223 c.c..

Sostiene che la domanda di annullamento del licenziamento illegittimo con richiesta di reintegrazione non è idonea a determinare una situazione di mora accipiendi e che non poteva assumere ai detti fini rilevanza l’istanza per il tentativo obbligatorio di conciliazione, prodromica all’instaurazione della controversia. Infine, rileva la mancata verifica dell’entità de risarcimento, non potendo escludersi la possibilità che la lavoratrice avesse espletato attività lavorativa retribuita da terzi e che l’aliunde perceptum non poteva che essere dedotto genericamente dalla società.

Premesso che nella fattispecie va applicato l’art. 366 bis c.p.c., ratione temporis, trattandosi di ricorso avverso sentenza depositata in data successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, ed anteriore all’entrata in vigore della L. n. 69/2009 (cfr. fra le altre Cass. 24-3-2010 n. 7119, Cass. 16-12-2009 n. 26364), osserva il Collegio che il ricorso risulta inammissibile per mancanza dei quesiti di diritto imposti dalla detta norma.

L’art. 366 bis c.p.c., infatti, “nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi di ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dai numeri 1,2, 3 e 4 dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ. all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dieta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione” (v. Cass. 25-2-2009 n. 4556).

In particolare, il quesito di diritto, in sostanza, deve integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giundica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr Cass 7-4- 2009 n. 8463) e “deve comprendere l’indicazione sia della “regola iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione dei primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile” (v.

Cass. 30-9-2008 n. 24339).

Pertanto, come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui nuovamente enunciato ex art. 384 c.p.c., “è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., il ricorso per cassazione ne quale l’illustrazione dei singoli motivi non sia accompagnata dalla formulazione di un esplicito quesito di diritto, tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito formulato dalla parte” (v. Cass. SU. 26-3- 2007 n. 7258, Cass. 7-11-2007 n. 23153), non potendo, peraltro, il quesito stesso desumersi dal contenuto del motivo, “poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366 bis c.p.c., consiste proprio nell’imposizione al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al migliore esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità” (v. Cass. 24-7-2008 n. 2040, cfr. Cass. S.U. 10-9-2009 n. 19444).

Orbene, nella fattispecie, la società ricorrente, che pur ha ampiamente illustrato i singoli motivi di ricorso, riguardanti sia asserite violazioni di norme di diritto che censure riferite all’art. 360 c.p.c., n. 5 non ha formulato alcun quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. nè ha prospettato, sia pure in modo sintetico, le ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.

Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della controricorrente.

P.Q.M.

La Corte così provvede.

dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 37,00 per esborsi, Euro 2.500,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e Cpa come per legge.

Così deciso in Roma, il 24 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2011

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