Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1132 del 21/01/2021

Cassazione civile sez. II, 21/01/2021, (ud. 24/06/2020, dep. 21/01/2021), n.1132

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11806/2018 proposto da:

Q.B., rappresentato e difeso dall’Avvocato SERGIO

TREDICINE, presso il cui studio a Napoli, piazza Garibaldi 73,

elettivamente domicilia, per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI S.P.A., rappresentata e difesa dall’Avvocato

MARIO TUCCILLO, presso il cui studio a Roma, via Pietro della Valle

4, elettivamente domicilia, per procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la SENTENZA n. 10503/2017 del TRIBUNALE DI NAPOLI, depositata

il 20/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 24/6/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Napoli, con la sentenza in epigrafe, in accoglimento dell’appello proposto dalla UnipolSai Assicurazioni s.p.a., ha riformato la sentenza con la quale il giudice di pace di Napoli l’aveva condannata al pagamento, in favore di Q.B., del compenso maturato per l’attività dallo stesso svolta.

Il tribunale, in particolare, ha, innanzitutto, rigettato la censura con la quale la società appellante aveva dedotto che il giudice di primo grado non aveva disposto la riunione dei numerosi procedimenti introdotti dal Q. in relazione all’attività di perito assicurativo espletata su incarico della stessa. Il tribunale, al riguardo, ha rilevato che la mancata riunione di cause non può considerarsi motivo di gravame.

Il tribunale ha accolto, invece, la censura con la quale la compagnia appellante aveva dedotto l’infondatezza della domanda in ragione dell’esistenza tra le parti di un accordo tacito sulla misura del compenso.

Il tribunale, sul punto, “a prescindere dalla questione relativa all’improponibilità della domanda avanzata in prime cure dal Q. per abusivo frazionamento del credito”, ha ritenuto che la pretesa creditoria azionata dal perito era infondata nel merito rilevando, per un verso, l’esistenza tra le parti di un rapporto pluriennale di collaborazione professionale nell’ambito del quale l’appellato ha espletato la propria attività di perito e, per altro verso, l’esistenza tra le stesse parti di un accordo tacito sulla misura del compenso nella misura di circa 40 Euro per ciascun incarico.

Q.B., con ricorso, ha chiesto, per sei motivi, la cassazione della sentenza del tribunale, dichiaratamente non notificata.

Ha resistito con controricorso la UnipolSai Assicurazioni s.p.a..

Fissata l’adunanza camerale per l’11/1/2019, il ricorrente, in data 3/1/2019, ha depositato memoria.

La Corte ha disposto il rinvio del ricorso a nuovo ruolo in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite circa la competenza a pronunciare la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato all’esito del giudizio di legittimità.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. In via preliminare, la Corte rigetta l’istanza di rimessione alle Sezioni Unite, non emergendo la necessità di risolvere contrasto tra diverse sezioni della Corte, nè configurandosi questioni di massima di particolare importanza.

1.2. D’altra parte, come di recente affermato da questa Corte con l’ordinanza n. 8063 del 2019, “… per quanto concerne le sentenze di questa Sezione n. 18808/2016, n. 18809/2016 e n. 18810/2016, invocate dal ricorrente, le stesse risultano superate dalla giurisprudenza di questa stessa Sezione successiva alla sentenza SSUU n. 4090/2017 (cfr., ex multis, sentt. nn. 3738/2018, 1356/2018, 1355/2018, 1354/2018, 1353/2018, 1352/2018, 1351/2018, 717/2018, 491/2018, 490/2018, 489/2018, 163/2018, 162/2018, 161/2018, 160/2018, 159/2018, 158/2018, 31167/2017, 31166/2017, 31165/2017, 31164/2017, 31163/2017, 31162/2017, 31161/2017, 31017/2017, 31016/2017, 31015/2017, 31014/2017, 31013/2017, 31012/2017, 31011/2017)”. La questione di diritto su cui si incentra il ricorso è stata, in ogni caso, recentemente decisa in senso uniforme tra le medesime parti da Cass. SU n. 4315 del 2020.

1.3. La Corte dà atto che il ricorrente, nella memoria depositata il 3/1/2019, ha dedotto che la sentenza n. 19575 del 2016, pronunciata dal giudice di pace di Napoli tra le stesse parti e su circostanze analoghe a quelle oggetto del presente giudizio, è passata in giudicato in data 10/7/2018, e che i suoi effetti vincolanti si estendono, oltre a quanto dedotto dalle parti, anche alle questioni, comuni al presente giudizio, che hanno rappresentato il fondamento logico-giuridico ineludibile della pronuncia, ivi compresa, quindi, la statuizione, in essa contenuta, secondo la quale “… l’attore non ha operato alcuna artificiosa scomposizione dell’unità sostanziale del rapporto e quindi non ha violato il principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost….”. Le statuizioni della sentenza impugnata, quindi, ha concluso il ricorrente, sono certamente ingiuste, incomplete, contraddittorie e, soprattutto, errate.

1.4. Nella stessa memoria, il ricorrente ha invocato

l’inammissibilità ai sensi dell’art. 339 c.p.c., dell’appello a suo tempo proposto dalla Compagnia sul rilievo che, in realtà, la sentenza con la quale il giudice di pace si pronuncia su domanda di valore inferiore a 1.100 Euro, è appellabile solo nei limiti previsti dall’art. 339 c.p.c., comma 3, vale a dire per violazione delle norme sul procedimento, per violazione delle norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi informatori della materia. Nel caso di specie, ha proseguito il ricorrente, la domanda originariamente proposta è di valore inferiore ad Euro 1.100,00 mentre l’appellante ha contestato l’omessa o erronea valutazione, da parte del giudice di pace, degli elementi probatori allegati dalle parti, denunciando, quindi, un error in iudicando non deducibile in sede d’appello. L’appello, quindi, era inammissibile e come tale doveva essere dichiarato, anche d’ufficio, dal tribunale.

1.5. La Corte rileva, innanzitutto, che la memoria depositata dal ricorrente il 3/1/2019 è inammissibile perchè, rispetto all’adunanza camerale fissata per l’11/1/2019, intempestiva. L’art. 380 bis.1 c.p.c., infatti, prevede che le parti possono depositare le loro memorie non oltre dieci giorni prima dell’adunanza in Camera di consiglio.

1.6. Le eccezioni ivi svolte sono, peraltro, del tutto inammissibili: anche se valutate come mera sollecitazione rivolta alla Corte per rilevare, in via ufficiosa, il giudicato esterno o, rispettivamente, l’inammissibilità dell’appello che la compagnia di assicurazione aveva a suo tempo proposto.

1.7. Quanto alla prima, La Corte si limita a osservare che la sentenza impugnata non ha in alcun modo affermato (con statuizione in ipotesi preclusa dal giudicato formatosi in ordine alla medesima questione in altra sentenza già pronunciata tra le medesime parti, secondo la quale “… l’attore non ha operato alcuna artificiosa scomposizione dell’unità sostanziale del rapporto e quindi non ha violato il principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost….”) – che l’attore aveva indebitamente frazionato il proprio credito, avendo, piuttosto, ritenuto di non doversi pronunciare sulla questione “relativa all’improponibilità della domanda avanzata in prime cure dal Q. per abusivo frazionamento del credito”. In ogni caso, la natura meramente processuale della statuizione che ne abbia negato la sussistenza, contenuta in una sentenza pronunciata in altro giudizio tra le stesse parti e passata in giudicato, non è idonea ad esplicare efficacia preclusiva di una sua differente soluzione in altro giudizio, pendente tra le stesse parti, nel quale, come quello in esame, la medesima questione sia stata dedotta o comunque rilevata: la statuizione su una questione processuale dà luogo, infatti, soltanto al giudicato formale ed ha, come tale, un’efficacia preclusiva limitatamente al giudizio in cui è stata pronunciata (cfr. Cass. n. 10641 del 2019; Cass. n. 7303 del 2012; Cass. n. 22212 del 2004; Cass. n. 17248 del 2003) ma non impedisce nè che la medesima questione sia riproposta in un successivo giudizio tra le stesse parti, nè, a fortiori, che, in quest’ultimo giudizio, la predetta questione sia diversamente risolta.

1.8. La seconda eccezione è parimenti inammissibile.

Non v’è dubbio, invero, che le sentenze rese dal giudice di pace in cause di valore non eccedente i millecento Euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi mediante moduli o formulari di cui all’art. 1342 c.c., sono da considerare sempre pronunciate secondo equità, ai sensi dell’art. 113 c.p.c., comma 2, con la conseguenza che il tribunale, in sede di appello avverso sentenza del giudice di pace, pronunciata in controversia di valore inferiore al suddetto limite, è tenuto a verificare, in base all’art. 339 c.p.c., comma 3, come sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 1, soltanto l’inosservanza delle norme sul procedimento, delle norme costituzionali e comunitarie e dei principi regolatori della materia, che non possono essere violati nemmeno in un giudizio di equità (cfr. Cass. n. 5287 del 2012, la quale, in applicazione del principio esposto, ha escluso la deducibilità in appello della violazione dell’art. 2697 c.c., sull’onere della prova contro la sentenza pronunciata dal giudice di pace secondo equità, trattandosi di regola di diritto sostanziale che dà luogo ad un error in iudicando).

Nè può esservi dubbio sul fatto che le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità possono, ai sensi dell’art. 339 c.p.c., comma 3, soltanto formare oggetto di ricorso per cassazione e sono, pertanto, (salvo, come visto, che per l’inosservanza delle norme sul procedimento, delle norme costituzionali e comunitarie e dei principi regolatori della materia), inappellabili: e l’inammissibilità dell’appello, attenendo ai presupposti dell’impugnazione, è rilevabile, anche d’ufficio, in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 21110 del 2005; Cass. n. 14725 del 2001; conf., Cass. n. 22256 del 2017): sempre che, evidentemente, l’inammissibilità dell’appello consenta alla Corte di cassazione di prendere atto dell’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza (inammissibilmente) appellata e, quindi, di cassare senza rinvio la sentenza (illegittimamente) pronunciata dal giudice d’appello (cfr. Cass. n. 21110 del 2005; Cass. n. 22256 del 2017).

Il caso di specie, tuttavia, difetta di tale presupposto.

Come emerge dalla sentenza impugnata, infatti, la società convenuta aveva proposto appello avverso la sentenza del giudice di pace articolando, in separati motivi, le eccezioni già formulate in primo grado e disattese dal giudice di pace, vale a dire, tra l’altro, l’improponibilità della domanda in ragione dell’indebito frazionamento del credito operato dall’attore per aver promosso un separato giudizio per ciascuno degli incarichi peritali ricevuti.

Il tribunale, invece, dopo aver escluso (non importa se correttamente o meno) di dover provvedere su tale (preliminare) questione (“a prescindere dalla questione relativa all’improponibilità della domanda avanzata in prime cure dal Q. per abusivo frazionamento del credito”), ha ritenuto che la pretesa creditoria azionata dal perito era infondata nel merito rilevando, per un verso, l’esistenza tra le parti di un rapporto pluriennale di collaborazione professionale nell’ambito del quale l’appellato ha espletato la propria attività di perito e, per altro verso, l’esistenza tra le stesse parti di un accordo tacito sulla misura del compenso nella misura di circa 40 Euro per ciascun incarico.

L’appello, quindi, pur riguardando una causa di valore inferiore ad Euro 1.100,00, è stato accolto per l’erronea valutazione delle prove dedotte dalle parti da parte del giudice di pace, e cioè per un error in iudicando: vale a dire per ragioni diverse da quelle legittimamente deducibili avverso una sentenza pronunciata dal giudice di pace in controversia di valore inferiore al suddetto limite, costituite, a norma dell’art. 339 c.p.c., comma 3, dall’inosservanza delle norme sul procedimento, delle norme costituzionali e comunitarie e dei principi regolatori della materia.

L’appello proposto dalla Compagnia di assicurazione quindi, per la parte che è stata accolta, era inammissibile: ma non altrettanto può ritenersi per la parte che, invece, il tribunale ha ritenuto di non esaminare, concernente, come visto, l’improponibilità della domanda dell’attore in ragione dell’indebito frazionamento del credito operato dallo stesso per aver promosso un separato giudizio per ciascuno degli incarichi peritali ricevuti, vale a dire per un vizio che, avendo natura processuale, è senz’altro deducibile con l’appello avverso la sentenza del giudice di pace che, a fronte dell’eccezione sollevata dal convenuto di abuso del processo per indebito frazionamento del credito, non abbia dichiarato l’improcedibilità della relativa domanda pur avendo valore non eccedente i millecento Euro, trattandosi, appunto, di sentenza che, ancorchè pronunciata secondo equità, è nondimeno appellabile in virtù dell’espressa previsione contenuta nell’art. 339 c.p.c., comma 3, che include, tra i casi di appellabilità, anche la violazione, riscontrata nella specie, delle norme sul procedimento e delle norme costituzionali (cfr. Cass. n. 15398 del 2019).

L’inammissibilità dell’appello proposto dalla Compagnia, pur se rilevato d’ufficio dalla Corte, non potrebbe, quindi, condurre alla cassazione senza rinvio della sentenza del tribunale in ragione del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado: dovendosi, piuttosto, provvedere alla sua cassazione con rinvio al giudice d’appello affinchè lo stesso valuti il motivo d’appello concernente l’eccezione sollevata dalla società convenuta di abuso del processo per indebito frazionamento del credito.

Deve escludersi, quindi, che la Corte possa utilmente dichiarare, d’ufficio, l’inammissibilità dell’appello, per l’impossibilità di prendere atto del passaggio in giudicato della sentenza del giudice di pace e di cassare senza rinvio la sentenza impugnata.

2. La Corte può, dunque, procedere all’esame dei (residui) motivi.

3. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 274 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il tribunale non ha considerato l’ammissibilità della riunione dei procedimenti relativi a cause connesse, anche nel giudizio di legittimità.

4. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse. Il motivo d’appello, del quale il ricorrente lamenta il mancato accoglimento, non è stato proposto dal medesimo (il quale non ha neppure impugnato la sentenza del giudice di pace), ma da UnipolSai: il ricorrente non è, pertanto, legittimato a dolersi del mancato accoglimento di un motivo di appello altrui (Cass. SU n. 4315 del 2020, in motiv.). Nè il ricorso chiarisce in quale atto processuale il ricorrente avrebbe, a sua volta, sollevato l’eccezione concernente la mancata riunione, da parte del giudice di pace, dei vari giudizi innanzi a lui pendenti tra le stesse parti. In ogni caso, e questo vale anche per la sentenza impugnata lì dove non ha disposto la riunione dei giudizi d’appello pendenti innanzi al tribunale, il provvedimento di riunione tra cause connesse, fondandosi su valutazioni di mera opportunità, costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice ed ha natura ordinatoria, non essendo impugnabile nè sindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 8024 del 2018; Cass. n. 2245 del 2015). Del resto, nelle cause di appello relative a pronunce del giudice di pace connesse ad altre controversie anche solo per identità delle questioni da cui dipende la decisione, la riunione è obbligatoria ai sensi dell’art. 151 disp. att. c.p.c., ma, ove non disposta, la sentenza non è nulla ed è censurabile solo se la trattazione separata delle cause abbia determinato un aggravio delle spese processuali: profilo, quest’ultimo, che, tuttavia, non è stato oggetto di censura (cfr. Cass. n. 17612 del 2013; Cass. n. 5457 del 2014).

5. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., nonchè dell’art. 111 Cost., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il tribunale non ha considerato che i periti assicurativi, in quanto soggetti individualmente esercenti, in modo stabile ed in forma indipendente, attraverso una propria struttura organizzativa esterna a quella delle imprese assicurative committenti, un’attività di prestazione di servizi in cambio di un corrispettivo in denaro, svolgono un’attività economica e rientrano, pertanto, nella nozione funzionale di impresa così come delineata nella giurisprudenza comunitaria.

6. Il motivo è inammissibile. La censura, infatti, non spiega in quali termini la qualificazione dell’attività del perito assicurativo come attività di impresa possa rilevare ai fini della decisione della causa (Cass. SU n. 4315 del 2020, in motiv.) ed, in ogni caso, non fa emergere alcuna specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata.

7. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando l’omesso esame di un fatto storico che ha costituito oggetto di discussione tra le parti ed avente carattere decisivo, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il tribunale ha ritenuto che il Q. avesse accettato, per facta concludentia, un’offerta di compenso molto inferiore a quello previsto dalle tariffe professionali, benchè tale circostanza sia stata espressamente contestata, e, comunque, smentita dalla documentazione che, tardivamente reperita, è offerta in comunicazione ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 2, vale a dire la documentazione IES dell’anno 2010, dalla quale si evince che il Q. percepiva importi differenti in relazione ad ogni singolo incarico affidatogli e per i quali non ha mai percepito l’importo di Euro 40,00.

8. Il motivo è infondato. Intanto, non può tenersi conto della dichiarazione IES 2010 e delle comunicazioni trasmesse dalla Compagnia di avvenuta esecuzione di bonifici, trattandosi di documenti che il ricorrente ha depositato solo nel giudizio di legittimità: ed è, invece, noto che, a norma dell’art. 372 c.p.c., non è ammesso il deposito di documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo tranne di quelli – ma tali non sono gli atti in questione – che riguardano la nullità della sentenza impugnata o l’ammissibilità del ricorso o del controricorso. Il fatto, poi, che tali documenti siano stati tardivamente reperiti (ma non anche formati successivamente ai gradi di merito) non ne legittima l’acquisizione in questa sede di legittimità (cfr. Cass. SU n. 7161 del 2010; Cass. n. 27475 del 2017; Cass. SU n. 25038 del 2013). La sentenza, in ogni caso, non può essere censurata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, poichè la norma consente di sindacare solo l’omesso esame di un fatto decisivo che sia stato oggetto di dibattito processuale: non anche il mancato apprezzamento di circostanze, come quelle esposte, che non risultano essere state portate all’esame del giudice di merito (Cass. SU n. 8053 del 2014).

9. Con il quinto motivo, il ricorrente ha lamentato la violazione del giudicato implicito formatosi in conseguenza delle sentenze, pronunciate da questa Corte, n. 18808 del 2016, n. 18809 del 2016 e n. 18810 del 2016, attesa l’identità delle questioni trattate con quella oggetto del presente giudizio.

10. Il motivo è inammissibile. L’affermazione, contenuta nel relativo titolo e tuttavia non sviluppata, secondo cui le pronunce di questa Corte n. 18808 del 2016, n. 18809 del 2016 e n. 18810 del 2016, avrebbero costituito giudicato implicito, non è, invero, in alcun modo scrutinabile per difetto di specificità, non essendo stato spiegato per quale ragione quelle decisioni avrebbero assunto il valore di giudicato esterno. In ogni caso, “non può evidentemente ravvisarsi alcun giudicato implicito – in ordine alla qualificazione e al carattere dell’intero rapporto giuridico instauratosi tra il Q. e la UnipolSai – scaturente dalle sentenze di questa Corte nn. 18808/2016, 18809/2016 e 18810/2016, trattandosi di pronunce che si sono limitate a escludere che i crediti azionati in quei tre singoli giudizi fossero assimilabili agli altri oggetto delle distinte azioni promosse dal Q. nei confronti della convenuta per diverse obbligazioni contrattuali, ma che nulla hanno statuito in ordine ai caratteri di tali diversi rapporti obbligatori”(Cass. SU n. 4315 del 2020).

11. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione della L. n. 172 del 2017, art. 19 quaterdecies, che ha modificato della L. n. 247 del 2012, art. 13 bis, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il tribunale non ha applicato le norme, contenute in quest’ultima disposizione, che disciplinano l’equo compenso per le prestazioni professionali rese dagli avvocati nei rapporti professionali regolati da convenzioni ed aventi ad oggetto lo svolgimento di attività in favore di imprese bancarie e assicurative, trattandosi di una disciplina che – a dire del ricorrente – sarebbe applicabile (in quanto compatibile) anche alle prestazioni rese dai professionisti di cui alla L. n. 81 del 2017, art. 1.

12. Con il sesto motivo, il ricorrente, in ragione dei plurimi crediti dallo stesso vantati nei confronti della compagnia di assicurazione per effetto di distinti contratti d’opera professionale, ha lamentato, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, l’erronea applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 23726 del 2007 e n. 4090 del 2017.

Il ricorrente, in particolare, ha evidenziato che il frazionamento abusivo (e la conseguente violazione del principio di buona fede, correttezza e giusto processo) ricorre solo in presenza di un unico rapporto obbligatorio, di un’unica causa petendi, e che tale ipotesi non è ravvisabile nel caso in esame nel quale, al contrario, si discute dell’attività di perito assicurativo dallo stesso svolta in favore della compagnia resistente per effetto di singoli incarichi ricevuti ed in relazione a sinistri diversi.

Risulta, poi, irrilevante, ha aggiunto il ricorrente, l’invio delle parcelle in conformità dello schema predisposto dalla società assicuratrice, rispondendo tale modalità solo ad una necessità organizzativa interna della convenuta. Il ricorrente ha, quindi, ribadito la sussistenza di distinti contratti d’opera professionale e, quindi, la possibilità di instaurare tanti giudizi quanti sono i sinistri nei quali egli aveva eseguito le perizie, evidenziando l’interesse alla tutela processuale frazionata delle relative pretese nell’esigenza di scongiurare un processo cumulativo elefantiaco, difficile da gestire e assai lungo, nonchè di consentire il vaglio delle singole pretese in quanto tali, senza essere costretto ad interrompere, di volta in volta, i termini di prescrizione.

Il tribunale, inoltre, ha aggiunto il ricorrente, ha ritenuto la mancanza di un interesse oggettivamente valutabile senza che vi fosse la corrispondente deduzione e senza indicare la relativa questione ai sensi dell’art. 183 c.p.c., con l’assegnazione del termine per le memorie previsto dall’art. 101 c.p.c., comma 2.

La scelta della parcellizzazione è stata, del resto, ha proseguito il ricorrente, del coordinatore dei giudici di pace, che ha assegnato venti cause a ciascuno di essi.

In ogni caso, ha concluso il ricorrente, la sanzione per la abusiva parcellizzazione giudiziale del credito non può consistere nella inammissibilità delle domande giudiziali ma deve essere individuato nella riunione delle cause medesime ovvero nella liquidazione delle spese, che dev’essere operata come se il processo fosse stato unico fin dall’inizio.

12. Il motivo è infondato con assorbimento del terzo (che, in ogni caso, è inammissibile sia perchè introduce nel giudizio di legittimità una questione nuova, non dedotta dinanzi ai giudici di merito, sia perchè difetta di specificità, in quanto si limita a trascrivere la norma di legge invocata, senza neanche spiegare in qual misura tale norma torni immediatamente applicabile al caso di lite e non implichi indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito: cfr. Cass. SU n. 4315 del 2020).

Come di recente ribadito da questa Corte (cfr. ord. n. 15398 del 2019; conf., Cass. SU n. 4315 del 2020), “le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benchè relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata (principio affermato dalle sezioni unite con la sentenza n. 4090 del 16/02/2017 Rv. 643111 e poi richiamato in una serie di ordinanze emesse in una analoga vicenda di pretese avanzate da perito assicurativo: solo per citarne alcune, Sez. 2 -, Ordinanza n. 31012 del 28/12/2017 Rv. 647129; Sez. 2, Ordinanza n. 31013 del 2017; Sez. 2, Ordinanza n. 31014 del 2017; Sez. 2, Ordinanza n. 1356 del 2018; Sez. 2, Ordinanza n. 1355 del 2018; Sez. 2, Ordinanza n. 22449 del 2018)”.

Nel caso in esame, il tribunale ha accertato che tra l’appellato e la compagnia di assicurazione sussisteva un rapporto negoziale unitario per effetto del quale i singoli incarichi affidati al perito erano remunerati conformemente ai criteri di liquidazione prestabiliti a prescindere dal contenuto concretamente assunto dalla prestazione svolta, e che, pertanto, tutte le pretese azionate dal Q. scaturiscono non già da singoli contratti stipulati di volta in volta ma dallo stesso rapporto di collaborazione professionale, regolato da un accordo-quadro accettato ed osservato da ciascuna delle parti nel corso degli anni.

Il tribunale, una volta riscontrata l’identità del rapporto, ha escluso, con apprezzamento in fatto (non censurato dal ricorrente con la specifica indicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, di uno o più fatti che, seppur dedotti nel giudizio di merito e decisivi per la sua definizione, il tribunale avrebbe del tutto omesso di esaminare), l’interesse concreto ad una tutela processuale frazionata delle relative pretese.

Le dedotte violazioni di legge, pertanto, non sussistono.

Il ricorrente, quanto al resto, si è limitato a contrapporre, sotto il profilo del concreto interesse al frazionamento del credito, una alternativa ricostruzione del fatto, formulando un generico richiamo al rischio di prescrizione ma senza allegare alcun concreto elemento a sostegno della sua affermazione (decorrenza del termine e sua scadenza), nè ha dedotto l’esistenza di elementi di fatto idonei a diversificare le prestazioni di volta in volta eseguite e tali da giustificare una trattazione separata delle sue pretese creditorie. Di conseguenza, il fugace accenno al rischio prescrizione si rivela privo di consistenza ai fini che qui interessano, anche perchè come sottolineato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 4315 del 2020 – sarebbe stato sufficiente l’invio di un mero atto di costituzione in mora per interrompere il decorso del termine (art. 2943 c.c., u.c.).

Nè risulta fondata la censura concernente la mancata assegnazione del termine per le memorie previste dall’art. 101 c.p.c., comma 2. Le Sezioni Unite di questa Corte, come detto, hanno affermato che le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benchè relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi ma, nel caso in cui le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale, le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata. Tuttavia, ove manchi la corrispondente deduzione, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo ha il dovere di indicare alle parti la relativa questione a norma dell’art. 183 c.p.c., riservando, se del caso, la decisione con termine alle stesse per il deposito di memorie ex art. 101 c.p.c., comma 2 (Cass. SU n. 4090 del 2017). Nel caso di specie, a fronte di tale principio, si tratta, pertanto, di verificare se la mancanza di un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata abbia formato o meno oggetto di precedente deduzione nel giudizio di merito: e la risposta non può che essere positiva se solo si considera la linea difensiva adottata dalla società convenuta, improntata, come visto, sin dal giudizio di primo grado, proprio sull’eccezione d’improponibilità della domanda per abusivo frazionamento del credito: ciò che, evidentemente, presuppone logicamente proprio la contestazione dell’esistenza di un interesse meritevole di tutela a tale modalità di esercizio del diritto di azione.

Non meno consistenti, perchè sommarie ed aspecifiche, devono, infine, ritenersi le altre ragioni addotte dal ricorrente: non sono conoscibili in questa sede i concreti riferimenti che attengono ad altri motivi di opportunità ed ancor meno apprezzabile (ma ancor prima riscontrabile) appare la ricostruzione che tende ad attribuire al giudice di primo grado la “colpa” per non avere riunito i numerosi processi incardinati per libera scelta del Q..

13. Il ricorso, in definitiva, dev’essere respinto.

14. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

15. La Corte, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto. Il giudice dell’impugnazione che emetta una delle pronunce previste dal cit. D.P.R. n. 115, art. 13, comma 1 quater, è tenuto, infatti, solo a dare atto della sussistenza del presupposto processuale per il versamento dell’importo ulteriore del contributo unificato anche quando esso non sia stato inizialmente versato per una causa suscettibile di venir meno, come nel caso, riscontrabile nella specie, di ammissione della parte al patrocinio a spese dello Stato (Cass. SU n. 4315 del 2020). Il giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato, invero, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato cui una delle parti sia stata ammessa (Cass. SU n. 4315 del 2020).

16. La palese inammissibilità e la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso inducono la Corte a considerare la condotta processuale del Q. come connotata da colpa grave: tale, dunque, da integrare un “abuso del processo” (secondo la nozione enucleata da Cass. SU n. 22405 del 2018; v. anche Cass. n. 29462 del 2018; Cass. n. 10327 del 2018; Cass. n. 19285 del 2016) per il quale va comminata la sanzione prevista dall’art. 96 c.p.c., u.c., nel testo applicabile ratione temporis, con la condanna del ricorrente al pagamento della somma, equitativamente determinata in Euro 1.000,00, in favore della società controricorrente.

PQM

la Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare alla UnipolSai Assicurazioni s.p.a. le spese di lite, che liquida in Euro 900,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; condanna il ricorrente a pagare in favore della società controricorrente quale sanzione prevista dall’art. 96 c.p.c., u.c., l’ulteriore somma di Euro 1.000,00; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 24 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2021

 

 

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