Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11284 del 10/05/2010

Cassazione civile sez. II, 10/05/2010, (ud. 18/02/2010, dep. 10/05/2010), n.11284

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

CEP CS EDIL PONTINO SCARL (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA OTTAVIANO 105, presso lo studio dell’avvocato UTTARO

LORETA, rappresentato e difeso dall’avvocato MESCHINI GIOVANNI;

– ricorrente –

e contro

F.A., M.A., A.G., O.

G. (OMISSIS), S.L., B.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4380/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 13/10/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/02/2010 dal Consigliere Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio;

udito l’Avvocato Ermanno BELLI, con delega depositata in udienza

dell’Avvocato Giovanni MESCHINI, difensore del ricorrente che ha

chiesto accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex art. 700 c.p.c. la s.r.l. Coop. Cep chiedeva ordinarsi a O.G., A.G., A.G., P.M., S.L., B.A., F. A., B.D. ed M.A. – ex soci prenotatari della soc. coop. Silvia Seconda – il rilascio degli immobili dagli stessi detenuti senza titolo.

I convenuti contestavano la detta richiesta che veniva accolta dal tribunale di Latina in sede di impugnazione del provvedimento di rigetto. Proseguito il giudizio per la fase di merito il tribunale, con sentenza 586/2002, dichiarava cessata la materia del contendere nei confronti di A.G. P.M. e B. D. e ordinava a O.G., A.G., S. L., B.A., F.A. ed M.A. il rilascio degli immobili dagli stessi occupati condannandoli al risarcimento dei danni a causa della illegittima occupazione.

Avverso la detta sentenza i soccombenti proponevano appello al quale resisteva la Coop. Cep..

Con sentenza 13/10/2004 la corte di appello di Roma, in accoglimento del gravame e in riforma dell’impugnata decisione, rigettava le domande proposte dalla Coop. Cep per difetto di legittimazione attiva. La corte di merito osservava: che il rapporto tra il Consorzio Cep e la Cooperativa Silvia Seconda era regolato dalla convenzione sottoscritta il 27/6/1991 nella quale all’art. 2 risultava specificato che al Consorzio veniva conferito l’incarico di provvedere all’espletamento del proprio programma costruttivo e di procurare, in nome e per conto, un finanziamento ed i servizi previsti dallo statuto del Consorzio; che inoltre il Cep avrebbe dovuto garantire l’assistenza amministrativa, fiscale, contabile e tecnica alla cooperativa associata ed avrebbe dovuto provvedere all’adempimento di tutte le attività per l’edificazione del complesso edilizio di cui al programma sociale; che, secondo quanto previsto dall’art. 12 della convenzione, la consegna degli alloggi sarebbe stata eseguita dal Cep alla cooperativa e da quest’ultima al socio; che lo stesso Cep nelle sue difese si era definito “mandatario” della cooperativa Silvia Seconda ed effettivamente, sulla base della convenzione, era ravvisabile un rapporto di mandato in relazione al perseguimento di quei fini e allo svolgimento delle attività necessarie per la realizzazione del complesso edilizio; che esisteva quindi un rapporto giuridico tra il consorzio e la cooperativa nei limiti del mandato conferito rispetto al quale i soci della cooperativa assumevano la veste di terzi e, quindi, privi di legittimazione a far valere pretese nei confronti del consorzio; che nell’ambito del mandato conferito non risultava prevista anche l’instaurazione di azioni giudiziarie nei confronti dei soci della cooperativa ritenuti inadempienti o decaduti; che infatti in nessun articolo della citata convenzione risultava attribuita al consorzio la facoltà di perseguire direttamente i soci della cooperativa; che tale potere non poteva discendere dal compito affidato al consorzio di provvedere alla consegna degli alloggi agli aventi diritto; che infatti detta consegna risultava prevista dall’art. 12 della convenzione in favore della cooperativa e poi da questa ai singoli soci; che dal rapporto tra la pubblica amministrazione ed il consorzio, per la costruzione degli alloggi nell’ambito dell’edilizia pubblica convenzionata, non discendeva il riconoscimento all’ente concessionario anche di poteri “iure proprio” in ordine all’assegnazione degli alloggi; che le risultanze processuali e la documentazione prodotta inducevano ad escludere la ravvisabilità nel rapporto di mandato tra consorzio e cooperativa del trasferimento dalla seconda al primo di poteri e facoltà inerenti la consegna e l’eventuale rilascio degli alloggi o comunque l’esercizio di diritti spettanti alla cooperativa nei confronti del propri soci; che andava pertanto dichiarato il difetto di legittimazione attiva del consorzio la cui domanda nei confronti degli appellati andava di conseguenza rigettata.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Roma è stata chiesta dal Consorzio Edilizio Pontino – soc. coop. a r.l. – con ricorso affidato a tre motivi. Gli intimati O.G., A.G., S.L., B.A., F. A. ed M.A. non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo articolato motivo di ricorso il Consorzio Edilizio Pontino denuncia errori di diritto e vizi di motivazione in tema di legittimazione ad agire deducendo che la sentenza impugnata ha omesso di considerare fatti, circostanze, prove e documenti decisivi per la soluzione della controversia dal cui esame sarebbe derivata una diversa decisione. Ad avviso della ricorrente la corte di appello non ha considerato: a) che esso Cep non ha agito quale mandatari della cooperativa Silvia Seconda, bensì quale legittimo proprietario dei beni occupati dai convenuti senza titolo e, cioè, nell’esercizio delle facoltà di difesa del proprio diritto di proprietà sugli immobili come desumibile dai documenti in atti e dal contenuto della convenzione tra esso Cep e la menzionata cooperativa; b) che esso Cep non si era spogliato del diritto di proprietà sugli immobili in questione non avendo assegnato in proprietà gli immobili ai soci convenuti in giudizio. La corte di appello, inoltre, non ha considerato che esso Cep era proprietario non in virtù della sua funzione pubblicistica, ma per aver derivato la proprietà a mezzo di idoneo titolo negoziale (versato in atti) intercorso con il Comune di Latina. La motivazione della sentenza impugnata è viziata non solo per la totale omissione argomentativa, ma anche per l’omessa valutazione delle prove acquisite. Il giudice di appello non ha considerato che le argomentazioni a sostegno della domanda ed i documenti in atti dimostravano che esso Cep è titolare in proprio dell’intero intervento destinato alla citata cooperativa posto che esso consorzio riunisce cooperative edilizie e – ottenuti i terreni, i finanziamenti e i contratti – costruisce per le consociate gli alloggi restando titolare di posizioni giuridiche soggettive sui beni realizzati sino al trasferimento in proprietà al socio assegnatario.

Il rapporto obbligatorio tra esso Consorzio e la cooperativa non elide il diritto di proprietà di esso consorzio. La cooperativa non è proprietaria degli immobili in questione non potendo derivare tale proprietà dalla convenzione con esso Cep. In definitiva il ricorrente sostiene che: a) il parametro di valutazione della legittimazione ad agire doveva essere quello della tutela del diritto di proprietà di esso Cep; b) tale diritto di proprietà era stato fatto oggetto di prova documentale in atti non esaminata; c) la sussistenza di altro rapporto di natura obbligatoria con la cooperativa non poteva impedire ad esso Cep di esercitare le azioni a difesa del proprio diritto di proprietà; d) ad esso consorzio andava comunque riconosciuta la legittimazione in applicazione dell’art. 1705 c.c..

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e di norme di diritto deducendo che la corte di appello non ha individuato nel diritto azionato quello di proprietà ed ha mal applicato le disposizioni sul diritto di proprietà e sul mandato, nonchè il disposto di cui all’art. 81 c.p.c. In particolare la corte di merito ha violato: a) l’art. 832 c.c. non avendo considerato che esso Cep, in quanto proprietario degli immobili, ha facoltà di azione a tutela di tale diritto. L’esistenza di un diverso rapporto obbligatorio con la cooperativa Silvia Seconda non esclude la titolarità in capo ad esso ricorrente delle azioni a tutela del diritto di proprietà. Esso Cep ha infatti agito non quale mandatario ma come proprietario nei confronti degli occupanti degli immobili in questione; b) l’art. 81 c.p.c. posto che esso Cep, in quanto titolare dei diritto di proprietà degli immobili come dimostrato dai documenti in atti, è anche titolare della “legitimatio ad processum” con riferimento alle azioni a difesa di detto diritto; e) l’art. 1705 c.c. in quanto ad esso Cep, pur se dovesse essere considerato mandatario della cooperativa Silvia Seconda, andrebbe riconosciuta la titolarità delle posizioni giuridiche in questione e la conseguente legittimazione trattandosi di mandato senza rappresentanza di cui al citato articolo; d) l’art. 24 Cost. poichè, negando la legittimazione attiva per la tutela del proprio diritto dominicale, ha di fatto eliminato la possibilità per esso ricorrente di adire il giudice per far valere le proprie ragioni.

La Corte rileva l’infondatezza delle dette censure che possono essere esaminate congiuntamente per la loro evidente stretta connessione ed interdipendenza.

Occorre premettere che – come esposto in ricorso – il Cep sostiene di essere titolare degli alloggi realizzati “sino alla definitiva assegnazione” e di aver in detta qualità agito nei confronti di quei soci della cooperativa Silvia 2^ ai quali gli appartamenti in questione erano stati provvisoriamente assegnati e che erano stati poi esclusi dalla compagine sociale per essersi resi morosi nel pagamento dei ratei di mutuo.

Nel primo motivo di ricorso il Cep ribadisce di aver agito quale proprietario degli immobili occupati dai convenuti senza titolo e di non essersi spogliato di tale diritto come è agevole desumere dai documenti versati in atti dai quali emerge di aver acquisito il diritto di proprietà “a mezzo di idoneo titolo negoziale intercorso con il Comune di Latina”, come peraltro accertato dal tribunale di Latina: da ciò la sua legittimazione attiva ad esercitare le azioni a tutela “del proprio ed incontestato diritto di proprietà” (pagina 7 del ricorso).

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e di norme di diritto deducendo che la corte di appello non ha individuato nel diritto azionato quello di proprietà ed ha mal applicato le disposizioni sul diritto di proprietà e sul mandato non avendo considerato che esso Cep, in quanto proprietario degli immobili, ha facoltà di azione a tutela di tale diritto. Ciò posto risulta palese che nella specie si tratta non già di difetto di legittimazione ad agire, bensì di questione relativa alla fondatezza della domanda e, pertanto, di questione che attiene al merito della lite (in quanto concernente l’accertamento in concreto dell’effettiva titolarità del rapporto fatto valere in giudizio) e che, al contrario della legitimatio ad causam, non è rilevabile di ufficio essendo collegata al potere dispositivo e, all’onere deduttivo e probatorio della parte interessata.

Va al riguardo segnalato che dalla stessa motivazione della sentenza impugnata emerge come il giudice di appello, nel dichiarare il difetto di legittimazione ad agire del Cep, ne abbia in realtà esaminato la qualità di titolare, o meno, del diritto di proprietà fatto valere dall’attore consorzio sin dall’atto introduttivo del giudizio di primo grado. Inoltre dalla sentenza impugnata e da quanto dedotto dal Cep in ricorso risulta (a conferma della ravvisabilità nella fattispecie in esame di una questione relativa al merito ed alla fondatezza della domanda e non alla legittimazione ad agire) che gli attuali intimati proposero appello avverso la sentenza di primo grado deducendo che il Consorzio non poteva agire “iure proprio” per ottenere il rilascio degli alloggi in questione trattandosi di beni che “devono comunque entrare nel patrimonio della Cooperativa” (pagina 4 della detta sentenza).

E’ per converso ius receptum di questa Corte regolatrice il principio secondo il quale il controllo del giudice sulla sussistenza della legitimatio ad causam, nel suo duplice aspetto di legittimazione ad agire e a contraddire, si risolve nell’accertare se, secondo la prospettazione dell’attore, questi e il convenuto assumano, rispettivamente, la veste di soggetto che ha il potere di chiedere la pronuncia giurisdizionale e di soggetto tenuto a subirla, mentre non attiene alla legittimazione ma al merito della lite la questione relativa alla reale titolarità attiva o passiva del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, che si risolve nell’accertamento di una situazione di fatto favorevole all’accoglimento o al rigetto della pretesa azionata. Di difetto di legitimatio ad causam è dunque lecito discorrere tutte le volte che (e solo se) si faccia valere, in sede giudiziaria, o un diritto rappresentato come altrui (un soggetto agisce in rivendica reclamando un bene che egli stesso asserisce di proprietà di un terzo), ovvero un diritto rappresentato come oggetto della propria sfera di azione e di tutela giurisdizionale al di fuori dal relativo modello legale tipico (un comodatario agisce in rivendica del bene del comodante prospettando come legittima tale azione). Al di fuori di tali ipotesi, la controversia in ordine alla reale titolarità del diritto sostanziale fatto valere in giudizio attiene al merito della causa, e soggiace, per l’effetto, alle normali regole e preclusioni dettate per il processo civile nei rispettivi gradi di merito.

La legittimazione ad agire costituisce allora una condizione dell’azione, una condizione per ottenere cioè dal giudice una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’attore con l’atto introduttivo del giudizio, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce invece al merito della causa investendo i concreti requisiti d’accoglibilità della domanda e, quindi, la sua fondatezza: l’accertamento dei detti requisiti involge una questione che (a differenza della legitimatio ad causam che è rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio) è affidata alla disponibilità delle parti.

In altri termini, la legittimazione ad agire o a contraddire, quale condizione dell’azione, si fonda sulla mera allegazione fatta in domanda, sicchè una concreta ed autonoma questione intorno ad essa si delinea soltanto quando l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur deducendone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso. Da quanto precede deriva che nel caso in esame il Consorzio ricorrente per contrastare la tesi delle controparti – con la quale era stata contestata la possibilità per esso Consorzio di agire “iure proprio” per ottenere il rilascio degli alloggi in questione – avrebbe dovuto fornire validi elementi probatori a sostegno dell’asserito diritto di proprietà degli immobili occupati dai convenuti.

La corte di appello con la sentenza impugnata ha essenzialmente ritenuto non raggiunta la detta prova avendo affermato che il Cep – al quale non spettavano “iure proprio” poteri in ordine all’assegnazione degli alloggi – non poteva agire nei confronti dei soci della Cooperativa e non poteva esercitare diritti spettanti alla Cooperativa nei confronti dei soci. Il giudice di appello, quindi, in sostanza ha ritenuto infondata la tesi posta a base della domanda avanzata dal Cep con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado relativa al dedotto diritto di proprietà in capo ad esso consorzio degli appartamenti in questione.

La corte di merito è pervenuta a tali conclusioni all’esito dell’esame e dell’interpretazione dello statuto del Consorzio e, in particolare, della Convenzione tra il Consorzio e la Cooperativa sottoscritta il 27/6/1991. Il Cep con i due motivi di ricorso in esame sostiene che la decisione impugnata è errata per aver la corte di appello omesso di valutare e considerare “fatti, circostanze, prove e documenti decisivi” dai quali emergeva sia che esso consorzio non aveva agito quale mandatario della Cooperativa ma quale proprietario “dei beni occupati dai convenuti”, sia che la Cooperativa Silvia 2^ non era proprietaria di detti beni.

La censura è manifestamente infondata perchè – ribadito che la questione da dover affrontare e risolvere attiene non alla legittimazione processuale (da verificare di ufficio) ma alla titolarità sostanziale del rapporto concernente il merito e la fondatezza della domanda con onere probatorio a carico della parte interessata – si risolve, pur se titolata come vizi di motivazione e come violazione dei legge, nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa nonchè in una critica dell’apprezzamento delle prove operato dal giudice del merito (omesso o errato esame di risultanze istruttorie) incensurabile in questa sede di legittimità: il sindacato di legittimità sul punto è limitato al riscontro estrinseco della presenza di una congrua ed esauriente motivazione che consenta di individuare le ragioni della decisione e l’iter argomentativo seguito nell’impugnata sentenza.

Inammissibilmente il ricorrente prospetta una diversa lettura del quadro probatorio dimenticando che l’interpretazione e la valutazione delle risultanze probatorie sono affidate al giudice del merito e costituiscono insindacabile accertamento di fatto: la sentenza impugnata non è suscettibile di cassazione per il solo fatto che gli elementi considerati dal giudice del merito siano, secondo l’opinione di parte ricorrente, tali da consentire una diversa valutazione conforme alla tesi da essa sostenuta.

Spetta infatti solo al giudice del merito individuare la fonte del proprio convincimento ed apprezzare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dar prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. Nè per ottemperare all’obbligo di motivazione il giudice di merito è tenuto a prendere in esame tutte le risultanze istruttorie ed a confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti, essendo sufficiente che egli indichi – come nella specie – gli elementi sui quali fonda il suo convincimento dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e fatti che, sebbene non specificamente menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata.

Nel caso in esame non sono ravvisabili nè il lamentato difetto di motivazione, nè le asserite violazione di legge.

La corte territoriale è pervenuta alle riportate conclusioni attraverso un iter logico ineccepibile sorretto da complete ed appaganti argomentazioni frutto di un’indagine accurata e puntuale delle risultanze di causa menzionate nella decisione di cui si chiede l’annullamento.

Alle dette valutazioni il ricorrente contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione.

Per quanto poi riguarda le doglianze relative alla valutazione delle risultanze istruttorie (essenzialmente prove documentali) deve affermarsi che le stesse non sono meritevoli di accoglimento anche per la loro genericità, oltre che per la loro incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito.

Nel giudizio di legittimità il ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze probatorie ha l’onere (in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione) di specificare il contenuto delle prove mal (o non) esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo del lamentato errore di valutazione: solo così è consentito alla corte di cassazione accertare – sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessità di indagini integrative – l’incidenza causale del difetto di motivazione (in quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisività delle prove erroneamente valutate perchè relative a circostanze tali da poter indurre ad una soluzione della controversia diversa da quella adottata. Il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non o mal esaminate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento si è formato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base.

Al riguardo va ribadito che per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia è necessario un rapporto di causalità logica tra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla vertenza, sì da far ritenere che quella circostanza se fosse stata considerata avrebbe portato ad una decisione diversa.

Nella specie le censure mosse dal Cep sono carenti sotto l’indicato aspetto in quanto non riportano il contenuto specifico e completo delle prove documentali genericamente indicate in ricorso e non forniscono alcun dato valido per ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di dette prove. Tale omissione non consente di verificare l’incidenza causale e, la decisività dei rilievi al riguardo mossi dal ricorrente. E’ infine inammissibile la censura relativa alla denunciata violazione dell’art. 1705 c.c. ed alla asserita “legitimazione ad processum trattandosi di mandato senza rappresentanza di cui all’art. 1705 c.c.” (pagina 10 del ricorso): con tale censura si prospetta una questione basata su fatti nuovi e che dalla lettura della sentenza impugnata non risulta (nè è stato dedotto in ricorso) che abbia formato oggetto del dibattito tra le parti nel giudizio di gravame.

DI tale questione, quindi, correttamente non si è occupata la corte di merito non rientrando tra quelle prospettate dalle parti nei giudizi di primo e di secondo grado.

Con il terzo motivo il Cep denuncia omessa pronuncia e conseguente vizio procedimentale sostenendo che la corte di merito ha omesso di decidere sulla domanda introdotta con l’appello incidentale relativo al maggior danno da liquidarsi per l’illegittima occupazione degli immobili in questione. Dal rigetto dei primi due motivi di ricorso deriva logicamente il rigetto anche del terzo posto che la corte di merito – respinta la domanda proposta dal Cep con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado e parzialmente accolta dal tribunale – coerentemente non ha esaminato l’appello incidentale proposto dal Consorzio.

Il ricorso va pertanto rigettato senza necessità di provvedere sulle spese di questo giudizio di legittimità nel quale gli intimati vittoriosi non si sono costituiti.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 18 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2010

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