Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11276 del 12/06/2020

Cassazione civile sez. III, 12/06/2020, (ud. 27/11/2019, dep. 12/06/2020), n.11276

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16972/2018 proposto da:

SOC AGRICOLA L. SS, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V. FULCIERI PAOLUCCI DE’

CALBOLI 60, presso lo studio dell’avvocato VALERIO CUTONILLI,

rappresentata e difesa dall’avvocato CIANLUCA BRIZI;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BOLOGNOLA, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TRIONFALE, 65, presso lo

studio dell’avvocato MARIA GRANILLO, rappresentato e difeso

dall’avvocato LUCA FORTE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1719/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 01/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

27/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Società Agricola L. S.s. ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 1719/17, del 1 dicembre 2017, della Corte di Appello di Ancona, che – respingendo il gravame esperito dall’odierna ricorrente contro la sentenza n. 1097/16, del 3 ottobre 2016, del Tribunale di Macerata, sezione specializzata agraria – ha confermato la decisione del primo giudice. Essa, in particolare, aveva rigettato della domanda proposta dall’odierna ricorrente nei confronti del Comune di Bolognola, volta sia a dichiarare che il contratto – di affitto del pascolo comunale “(OMISSIS)” verrà a scadenza il 31 dicembre 2023, sia a conseguire la condanna del predetto Comune alla sistemazione dell’utenza idrica “(OMISSIS)”, accogliendo, all’opposto, la domanda riconvenzionale del Comune, di condanna della predetta società al rilascio dei pascoli affittati, sul presupposto dell’avvenuta scadenza del contratto il 31 dicembre 2015.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente che, all’esito di gara ad evidenza pubblica, la ditta individuale S.L. conseguiva, il 13 agosto 2008, un contratto d’affitto del pascolo comunale “de quo”, affitto nel quale subentrava la società odierna ricorrente, in forza di accordo transattivo del 14 maggio 2010, che prevedeva anche l’impegno del Comune di Bolognola di risistemare, a propria cura e spese, l’utenza idrica sopra meglio identificata.

La ricorrente assume che il termine di durata del contratto, pattuito entro e non oltre il 31 dicembre 2015, sarebbe nullo, giacchè stabilito in violazione del termine di legge di quindici anni, con la conseguenza che la scadenza naturale del contratto d’affitto andrebbe individuata nel 31 dicembre 2023. Su tali basi, pertanto, essa adiva l’autorità giudiziaria, affinchè – ravvisata la violazione di norme imperative, costituite della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 45 e dalla L. 11 febbraio 1971, n. 11, art. 23 – volesse dichiarare, ex art. 1419 c.c., la nullità del termine convenzionalmente stabilito, nonchè la sua sostituzione con quello di legge. Per parte propria, il Comune, in via riconvenzionale, chiedeva accertarsi la venuta a scadenza del contratto alla data indicata del 31 dicembre 2015, con condanna dell’odierna ricorrente al rilascio dei pascoli e al pagamento del canone per l’anno 2015 (domanda di pagamento poi oggetto di rinuncia, nel corso del giudizio di primo grado).

Rigettata dal Tribunale di Macerata la domanda attorea, ed accolta la riconvenzionale per la parte non rinunciata, siffatta decisione veniva confermata dalla Corte di Appello di Ancona, che respingeva il gravame esperito dall’odierna ricorrente.

A tale esito, in particolare, il giudice di appello perveniva sul rilievo che i terreni affittati risultano gravati da uso civico, e come tali, quindi, sottratti alle speciali disposizioni vincolistiche dei rapporti agrari, ivi comprese quelle che sanciscono la durata imperativa del rapporto (e la necessità, per derogarvi pattiziamente, che le relative clausole siano stipulate dalle parti con l’assistenza delle rispettive associazioni di categoria). Riteneva, altresì, la Corte territoriale che la domanda riconvenzionale del Comune non richiedesse il previo esperimento del tentativo di conciliazione, richiamandosi a quella giurisprudenza di legittimità secondo cui l’adempimento della L. n. 203 del 1982, ex art. 46, va escluso per quelle domande riconvenzionali che si pongano in rapporto di accessorietà e consequenzialità con quelle già oggetto della tentata conciliazione, e che, comunque, non amplino il “thema decidendum”.

3. Avverso la sentenza della Corte marchigiana ricorre per cassazione la Società Agricola L., sulla base – come detto – di quattro motivi.

3.1. Il primo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), – “nullità della sentenza impugnata ex art. 111 Cost., artt. 115, 132 e 161 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c.”, ovvero “”error in procedendo” per omessa, insufficiente, contraddittoria o, comunque, errata motivazione della sentenza”, oltre che “”error in iudicando” per violazione e falsa applicazione di norme di diritto”, nonchè, infine, “travisamento delle prove e degli atti processuali”.

La ricorrente si duole del fatto che la sentenza impugnata non abbia motivato – minimamente “sulle istanze ed eccezioni dell’appellante”, dedotte con il secondo motivo di gravame, ovvero quello mediante il quale era stata denunciata “l’omessa, insufficiente, contraddittoria o, comunque, errata motivazione della sentenza di primo grado”. Il giudice di appello, secondo l’odierna ricorrente, si sarebbe “appiattito supinamente e acriticamente” sulla decisione di primo grado, ciò che integrerebbe “ex se” un vizio di motivazione, considerato che il vigente codice di rito civile, diversamente da quello del 1865, non contemplerebbe l’ipotesi della cosiddetta motivazione “per relationem”.

3.2. Il secondo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), – “violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 46”, nonchè “nullità della sentenza impugnata ex art. 111 Cost., artt. 115, 132 e 161 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c.”, ovvero “per omessa, insufficiente, contraddittoria o, comunque, errata motivazione della sentenza, attinente all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio”.

La ricorrente, anche in questo caso, lamenta – innanzitutto – una carenza motivazionale, in relazione al terzo motivo di appello, con il quale aveva censurato la mancata declaratoria di improponibilità delle domande riconvenzionali del Comune di Bolognola, in ragione del mancato espletamento del tentativo di conciliazione, nonchè una falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 46, che tale tentativo di conciliazione disciplina.

Anche in questo caso, infatti, la Corte territoriale avrebbe fatto ricorso – secondo la ricorrente – alla “inammissibile tecnica della motivazione “per relationem””, limitandosi a richiamare alcune massime giurisprudenziali, “utilizzate come mere clausole di stile”, le quali escludono la necessità del previo tentativo di conciliazione per quelle domande riconvenzionali che si pongano in un rapporto di accessorietà e consequenzialità con la domanda attorea. In ogni caso, viene anche dedotta – come detto – la falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 46, richiamando quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui tale norma va interpretata nel senso che il precetto in essa contenuto può dirsi osservato soltanto quando, in via di riconvenzione, sia avanzata una pretesa del tutto identica a quella fatta valere in sede di tentativo di conciliazione, sia in relazione alle “personae”, che al “petitum” ed alla “causa petendi”.

3.3. Il terzo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) – “violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 45” (assumendosi la soggezione, del contratto d’affitto del pascolo comunale per cui è causa, alla disciplina di cui alle leggi n. 203 del 1982 e n. 11 del 1971), nonchè “nullità della sentenza impugnata ex art. 111 Cost., artt. 115, 132 e 161 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c.”, per “omessa, insufficiente, contraddittoria o, comunque, errata motivazione della sentenza, attinente all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio”, ed infine, “nullità della sentenza impugnata ex art. 111 Cost., artt. 132 e 161 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c.”, per “omessa, insufficiente, contraddittoria o, comunque, errata motivazione della sentenza”, oltre che “violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato”.

In primo luogo, si censura la decisione della Corte territoriale, nuovamente, dal punto di vista motivazionale, in ragione del ritenuto “eccessivo ricorso al principio del libero convincimento”, strumento con il quale essa avrebbe “eluso il dovere di motivazione e confutazione delle specifiche censure” proposte avverso la sentenza di primo grado.

Nella sostanza, ci si duole del fatto che, in relazione ai motivi di gravame terzo e quarto, la Corte marchigiana ha ritenuto di escludere l’applicazione della normativa vincolistica (e, – tra tali disposizioni, anche di quella che impone l’assistenza delle associazioni di categoria per introdurre deroghe convenzionali alla durata “ex lege” dell’affitto), recata dalle leggi summenzionate, sul presupposto che i terreni affittati fossero gravati da uso civico. Si tratterebbe, tuttavia, di circostanza che l’odierno ricorrente assume di aver “puntualmente e ampiamente contestato”, anche mediante idonea documentazione, e comunque “mai giudizialmente accertata”. In altri termini, l’odierna ricorrente assume che la conclusione relativa all’esistenza di uso civico costituirebbe una mera congettura, frutto di un “palese travisamento della produzione documentale effettuata”, particolarmente laddove si è affermato che la prova dell’uso civico “si desume dal contenuto del bando di gara per l’aggiudicazione del contratto d’affitto e dalle risultanze emergenti dagli estratti dei fogli catastali”.

3.4. Il quarto motivo deduce – sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) – “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 261 c.p.c.” e degli “artt. 24 e 111 Cost.”, oltre che “nullità della sentenza impugnata ex art. 111 Cost., artt. 132 e 161 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c.”, per “omessa, insufficiente, contraddittoria o, comunque, errata motivazione della sentenza, attinente all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio”, oltre che per “violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, il tutto in relazione “al rigetto delle istanze istruttorie”.

Ci si duole del fatto che entrambi i giudici di merito avrebbero fatto “cattiva applicazione della normativa specifica in tema di ammissione e valutazione delle prove ritualmente richieste in istruttoria dalla parte ricorrente”. In particolare, la sentenza impugnata viene censurata in ragione di quello che viene ritenuto “l’apodittico e immotivato rigetto delle richieste istruttorie”, quantunque, oltretutto, la questione avesse formato oggetto di specifico motivo di gravame (il sesto), in particolare non illustrando le ragioni per le quali era stata rigettata l’istanza di ispezione dei luoghi di causa e, soprattutto, di svolgimento della consulenza tecnica d’ufficio, che nella specie era destinata ad assumere le forme della cosiddetta consulenza “percipiente”.

4. Ha proposto controricorso il Comune di Bolognola, per resistere all’avversaria impugnazione.

Viene eccepita, innanzitutto, l’inammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1).

In relazione, poi, al primo motivo di ricorso, se ne assume l’infondatezza rilevando come il Tribunale di Macerata abbia scrutinato, punto per punto, le domande avanzate, rigettandole “in toto”, con puntuale e circostanziata motivazione. Del pari non fondato sarebbe anche il secondo motivo di ricorso, innanzitutto perchè il giudice di appello non si sarebbe affatto limitato a richiamare i contenuti della pronuncia di primo grado, dando, invece, contezza delle ragioni poste a fondamento delle proprie statuizioni, anche attraverso il richiamo a pertinenti precedenti giurisprudenziali. In ogni caso, poi, le censure risulterebbero infondate alla stregua di quella giurisprudenza secondo cui non vi è alcuna ragione per escludere la validità ed ammissibilità della motivazione “per relationem”. Privo di fondamento, inoltre, sarebbe anche il terzo motivo di ricorso, atteso che dallo stesso bando di gara per l’affitto dei pascoli oggetto di causa risultava che i terreni affittati fossero gravati da uso civico. Infine, in relazione all’ultimo motivo di ricorso, si sottolinea come la richiesta consulenza tecnica d’ufficio fosse, in realtà, finalizzata a supplire ad una totale carenza probatoria sui fatti costitutivi della domanda giudiziale.

5. La ricorrente ha depositato memoria, facendola, però, pervenire a mezzo posta, sicchè la stessa è da ritenersi inammissibile (cfr. Cass. Sez. 6-3, ord. 27 novembre 2019, n. 31041, Rv. 65629401; Cass. Sez. 6-3, ord. 10 aprile 2018, n. 8835, Rv. 648717-01).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. Il primo motivo non è fondato.

6.1.1. Al riguardo, va preliminarmente osservato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, “la sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata “per relationem” ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purchè il rinvio sia operato sì da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame” (così da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 1, ord. 8 novembre 2018, n. 28139, Rv. 651516-01; in senso conforme, tra le altre, Cass. Sez. Lav., sent. 23 agosto 2018, n. 21037, Rv. 650138-01; Cass. Sez. 1, sent. 19 luglio 2016, n. 14786, Rv. 640759-01).

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha chiarito quali siano le ragioni che l’hanno portata ad escludere, per un verso, l’applicazione della normativa vincolistica – ed in particolare, delle disposizioni sulla durata del rapporto negoziale, nonchè sulla necessità dell’assistenza delle associazioni di categoria per potervi derogare – prevista dalla legislazione in materia di contratti agrari (ragione individuata, segnatamente, nell’esistenza di un uso civico sui pascoli oggetto di affitto), nonchè, per altro verso, la necessità che fosse esperito il tentativo di conciliazione sulla domanda riconvenzionale volta a far accertare la scadenza del contratto, e l’obbligo di rilascio dei terreni alla data pattuita (ragione individuata nel carattere accessorio e consequenziale di tale domanda rispetto a quelle già oggetto del tentativo esperito, e, comunque, nel mancato ampliamento del “thema decidendum”).

Sulla correttezza di tali affermazioni si appuntano, per contestarla, i motivi di ricorso secondo e terzo (che, peraltro, insistono anch’essi nel prospettare, accanto a censure di violazione di legge, nuovamente vizi motivazionali), non potendo, però, dubitarsi che il giudice di appello – anche attraverso riferimenti alla giurisprudenza di legittimità – abbia soddisfatto il dovere di motivare il rigetto del proposto gravame.

D’altra parte, a corroborare l’esito della non fondatezza del primo motivo di ricorso (come pure di tutti gli altri, laddove ipotizzano “omessa, insufficiente, contraddittoria o, comunque, errata motivazione della sentenza”), concorre la constatazione che la ricorrente mostra di ignorare l’avvenuta riduzione – per effetto della modifica apportata all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – del sindacato di questa Corte sulla parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile -2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).

Al riguardo, infatti, non sembra inutile ricordare che lo scrutinio di questa Corte è, ormai, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nel caso di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-0), o perchè affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

6.2. Anche il secondo motivo non è fondato.

6.2.1. Nel procedere al suo scrutinio deve muoversi dalla constatazione preliminare – evidenziata, di recente, da questa Corte – secondo cui, ai fini del rispetto della condizione di proponibilità della domanda prevista dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46, “non è necessaria una perfetta e biunivoca corrispondenza, circa il “petitum” e la “causa petendi”, tra la richiesta a fini conciliativi e la domanda giudiziale, attesa la ontologica disomogeneità funzionale e strutturale tra i due atti”, essendo, invece, “sufficiente, nella sede amministrativa “ante causam”, la puntuale individuazione dei fatti costitutivi della pretesa suscettibile di essere in ambito giurisdizionale declinata con differenti conclusioni su quelle ragioni giustificate, semprechè ciò non determini l’alterazione dell’oggetto sostanziale dell’azione oppure l’introduzione di nuovi temi di indagine idonei a sconvolgere la difesa della controparte” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 20 marzo 2018, n. 6839, Rv. 648299-02).

6.2.2. Sotto questo profilo, dunque, poichè in sede amministrativa si era discusso proprio dell'(eventuale) assoggettamento del contratto di affitto del pascolo comunale – la cui scadenza era stata pattuita entro e non oltre il 31 dicembre 2015 – alla disciplina vincolistica stabilita, in tema di durata, dalla legislazione sui contratti agrari (ciò che comporterebbe, secondo la prospettazione dell’odierna ricorrente e già attrice, la scadenza del rapporto non prima del 31 dicembre 2023), non può certo dirsi che la richiesta di rilascio alla data convenzionalmente stabilita, ovvero l’oggetto della domanda riconvenzionale, abbia rappresentato “l’introduzione di un nuovo tema di indagine”, idoneo “a sconvolgere la difesa di controparte”.

Così riguardata, dunque, risulta del tutto corretta l’affermazione della Corte marchigiana secondo cui la domanda di rilascio, proposta in via di riconvenzione dal Comune di Bolognola, “non ha ampliato l’ambito della controversia rispetto al tentativo di conciliazione svoltosi in relazione alla domanda principale, avente ad oggetto l’accertamento di illegittimità del termine di durata del contratto”, e ciò in quanto “il rilascio è conseguenza del rigetto di tale domanda”.

Si tratta, peraltro, di conclusione che trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte, essendosi affermato – sebbene in un caso “speculare” a quello presente (giacchè, in quella ipotesi, la richiesta di rilascio era stata formulata dall’attore, limitatosi in sede amministrativa a far accertare l’avvenuta scadenza del rapporto negoziale) – che “il giudice investito di una controversia in materia di contratti agrari, al fine di verificare se la domanda sottoposta al suo esame è, o meno, proponibile (…), deve unicamente accertare, prescindendo da ogni altra indagine, che esista perfetta coincidenza soggettiva fra coloro che hanno partecipato al tentativo di conciliazione e quanti hanno assunto, nel successivo giudizio, la qualità di parte, nonchè che le domande formulate dalla parte ricorrente in via principale e da quella resistente in via riconvenzionale, siano le stesse intorno alle quali il tentativo medesimo si è svolto” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 2 dicembre 2004, n. 22665, Rv. 578313-01). Pertanto, il previo esperimento del tentativo di conciliazione “non riguarda (…) qualsiasi domanda “nuova” introdotta in giudizio, non menzionata in precedenza”, in quanto, “perchè una domanda sia dichiarata improponibile non è sufficiente che la stessa sia formulata espressamente per la prima volta solo in sede contenziosa e non fatta valere in occasione del tentativo di conciliazione di cui si discute, ma è indispensabile che per effetto della “nuova” domanda venga ampliato l’ambito della controversia, rispetto ai limiti posti a questa nel tentativo di conciliazione già esperito prima della proposizione della domanda”, sicchè “la necessità del previo tentativo di conciliazione (…) non sussiste per le domande in tema di contratti agrari che, ancorchè proposte unicamente in sede giurisdizionale si ricolleghino direttamente al contrasto tra le parti ed alle pretese “hinc et inde” fatte valere dalle parti in occasione del tentativo di conciliazione”; su tali basi, quindi, è stato affermato che, sebbene azionata per la prima volta solo in giudizio, la pretesa “al rilascio del fondo, per effetto della accertata cessazione del rapporto “inter partes” non doveva essere preceduta dal previo tentativo di conciliazione, atteso che con la stessa in alcun modo parte attrice” (ma lo stesso discorso vale per la convenuta che abbia agito in via di riconvenzione) “ha ampliato il “thema decidendum” come prospettato nella richiesta di tentativo di conciliazione” (così, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 22665 del 2004, cit.).

6.2.3. Non conferente risulta, invece, la giurisprudenza citata dalla ricorrente (e particolarmente Cass. Sez. 3, sent. 10 luglio 2014, n. 15757, Rv. 632114-01), giacchè relativa ad un caso in cui la domanda di rilascio del fondo era stata introdotta in giudizio unitamente ad altra di risoluzione del contratto di affitto, solo quest’ultima essendo stata, però, oggetto di procedimento conciliativo, ravvisandosi la necessità dell’incombente della L. n. 203 del 1982, ex art. 46, “atteso che sussisteva un duplice titolo di godimento del bene – detenzione, conseguente al contratto di affitto, e possesso, in relazione al trasferimento disposto con il preliminare di vendita – per cui già in sede conciliativa occorreva confrontarsi con entrambi i distinti titoli che giustificavano la disponibilità dell’immobile”. Un caso, all’evidenza, del tutto differente da quello che qui occupa.

6.3. Il terzo motivo è inammissibile.

6.3.1. La Corte territoriale, nell’escludere l’applicazione della disciplina vincolistica (quanto alla durata legale del contratto, ovvero alla necessità di derogarvi solo con l’ausilio delle associazioni rappresentative degli interessi di affittanti ed affittuari), si è espressamente richiamata al principio, enunciato da questa Corte, secondo cui, se sussiste “la possibilità di consentire in favore dei privati, con atto di concessione o con contratto di affitto, il godimento individuale di un terreno demaniale di uso civico, temporaneamente non utilizzato dalla comunità”, non essendo ciò “escluso dalla natura giuridica del suolo e dalla sua destinazione “ex lege””, resta, nondimeno, inteso che quale sia stata “la forma impiegata per la cessione, tuttavia, il rapporto che si costituisce può avere solo carattere precario e temporaneo”, risultando, pertanto, “sottratto alle norme speciali in materia agraria relative alla durata del rapporto medesimo”, poichè, in caso contrario, “resterebbe preclusa all’Amministrazione la possibilità di condizionarne la continuazione e la rinnovazione alle valutazioni, in concreto, circa la compatibilità con la destinazione ad uso civico del terreno” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 10 marzo 1995, n. 2806, Rv. 491070-01; nello stesso senso già Cass. Sez. 2, sent. 12 maggio 1999, n. 4694, Rv. 52621901).

6.3.2. Orbene, la ricorrente non mette in discussione tale principio, ma assume che l’assoggettamento del pascolo oggetto di causa ad uso civico costituirebbe un fatto da essa “puntualmente e ampiamente contestato”, e comunque “mai giudizialmente accertato”, lamentando un “palese travisamento della produzione documentale effettuata”, al riguardo, dalle parti, particolarmente laddove si è affermato che la prova dell’uso civico “si desume dal contenuto del bando di gara per l’aggiudicazione del contratto d’affitto e dalle risultanze emergenti dagli estratti dei fogli catastali”.

Siffatta censura, tuttavia, non è neppure astrattamente idonea ad integrare il vizio di violazione di legge (della non fondatezza del vizio motivazionale, invero, si è già detto), sia riguardato sotto il profilo della mancata osservanza della L. n. 203 del 1982, art. 45, sia dell’art. 115 c.p.c..

In relazione al primo profilo, infatti, deve qui ribadirsi che “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto si lamenta nel caso di specie, dal momento che ci si duole di un’errata valutazione delle risultanze istruttorie – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonchè Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).

In ordine, invece, al secondo profilo, va dato ulteriormente seguito al principio secondo cui l’eventuale “cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4) – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458).

6.4. Anche il quarto motivo, infine, è inammissibile.

6.4.1. Invero, nel dolersi di quello che definisce come “l’apodittico e immotivato rigetto delle richieste istruttorie” (formulate a sostegno della domanda di condanna del Comune di Bolognola alla sistemazione dell’utenza idrica “(OMISSIS)”), la ricorrente non si confronta con la “ratio decidendi”, sul punto, della sentenza impugnata.

La Corte territoriale, infatti, ha ritenuto che all’accoglimento della domanda riconvenzionale di rilascio del fondo conseguisse “anche il rigetto della domanda di riparazione, sistemazione e interramento della conduttura idrica, e ciò per difetto di interesse derivante dalla pronuncia di condanna al rilascio del fondo su cui tali interventi dovrebbero essere seguiti”, donde la ritenuta “assoluta irrilevanza della richiesta prova sul punto”.

Orbene, la ricorrente non censura minimante, con il presente motivo, tale affermazione, donde l’applicazione del principio secondo cui la “proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4), con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio” (Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01).

7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

8. A carico della ricorrente non sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, trattandosi di controversia di natura agraria, e dunque sottratta a tale disciplina.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condannando la Società Agricola L. S.s. a rifondere al Comune di Bolognola le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.500,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 27 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2020

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