Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11272 del 12/06/2020

Cassazione civile sez. III, 12/06/2020, (ud. 26/11/2019, dep. 12/06/2020), n.11272

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26879/2018 proposto da:

D.B.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MARCO

POLO 84, presso lo studio dell’avvocato LINDA CIPOLLONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA DELL’AIRA;

– ricorrente –

contro

D.B.F., domiciliato ex lege in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato FRANCESCO COSTANTINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 386/2018 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 22/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

26/11/2019 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.B.P. citava in giudizio il fratello, D.B.F., chiedendo che fosse annullata, per incapacità naturale del disponente, la procura ad operare sul conto corrente, ad incassare e a compiere altre attività rilasciata dal padre D.B.S. in favore del figlio F. il (OMISSIS), allorchè il genitore era ricoverato in ospedale e ormai incapace di intendere e di volere (il D.B.S. veniva condotto in ospedale in stato soporoso e marasmatico, avrebbe perso conoscenza il giorno successivo al rilascio della procura e sarebbe morto nel successivo mese di giugno dello stesso anno).

2. La domanda veniva accolta in primo grado, ma rigettata in appello dalla Corte d’Appello di Palermo con la sentenza n. 386 del 2018, depositata il 22.2.2018, qui impugnata.

In particolare, la corte d’appello riformava la pronuncia di primo grado in quanto, pur non revocando in dubbio l’esistenza della prova sulla incapacità naturale del disponente al momento dell’atto, riteneva non constasse dimostrazione dell’ulteriore presupposto menzionato dall’art. 428 c.c., per l’annullamento degli atti unilaterali, ovvero il grave pregiudizio in danno all’autore. Assumeva che il carattere pregiudizievole dell’atto dovesse essere verificato a monte, ovvero al momento in cui lo stesso veniva effettuato, e non a valle, rimanendo irrilevante la successiva attività negoziale in concreto svolta dal procuratore, che, quanto alle operazioni bancarie, sarebbe stata comunque verificabile sulla base degli estratti conto. Riteneva che, poichè il disponente, ricoverato in ospedale, non era in grado, al momento della procura, di provvedere da solo allo svolgimento delle operazioni bancarie necessarie per poter provvedere alle proprie esigenze, nè al compimento di altre attività, il rilascio della procura benchè senza obbligo di rendiconto non fosse di per sè atto pregiudizievole, ma, al contrario, che esso fosse giustificato dalla necessità di consentire lo svolgimento delle operazioni economiche necessarie.

A ciò aggiungeva che i primi due prelievi eseguiti dal figlio dopo il rilascio della procura, per importi modesti, erano commisurati alle esigenze di pagare la badante per il padre, e che il successivo, consistente prelievo pari a quasi tutto il contante esistente sul conto effettuato pochi giorni prima della morte non fosse tale da determinare l’annullamento della procura, appunto perchè il requisito di idoneità a recare pregiudizio al disponente avrebbe dovuto essere valutato a monte, al momento del rilascio della procura stessa.

3. D.B.P. propone due motivi di ricorso per cassazione contro la predetta decisione, cui resiste D.B.F. con controricorso illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti nonchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

I fatti dei quali denuncia l’omesso esame sono i principali fatti allegati in giudizio, che non sarebbero stati adeguatamente considerati dalla corte d’appello – le circostanze di tempo e di luogo in cui era stata rilasciata la procura (conferita in ospedale dal padre, poco prima di perdere conoscenza), la gravi condizioni di salute in cui versava il genitore (così debole che non riuscì neppure a firmare, come indicato nell’atto, e che dopo una degenza in ospedale di circa un mese vi sarebbe morto), i caratteri della procura, rilasciata senza obbligo di rendiconto.

L’omessa considerazione della decisività di taluni fatti avrebbe condotto ad una sostanziale sottovalutazione delle condizioni di totale incapacità in cui versava il disponente, e all’errata valutazione in iure in ordine alla esclusione del presupposto del grave pregiudizio in danno all’autore.

La ricorrente critica infatti la sentenza impugnata laddove ha escluso che ricorresse la pregiudizialità ex ante dell’atto non dando il giusto rilievo al fatto che il figlio si fosse servito della procura senza obbligo di rendiconto per svuotare quasi integralmente il conto corrente del padre senza minimamente reimpegnare gli importi prelevati a suo vantaggio.

Afferma poi la ricorrente che la corte d’appello non avrebbe considerato che il padre non era nelle condizioni di esprimere una volontà consapevole quando rilasciò la procura e segnala che questo dato di fatto precluderebbe la possibilità stessa di soffermare l’attenzione sulla astratta assenza di una potenziale pregiudizialità dell’atto. Sostiene quindi che la ricorrenza del secondo presupposto previsto dalla legge per l’annullamento degli atti unilaterali – la potenzialità lesiva ex ante – non sarebbe richiesta ove l’atto fosse posto in essere da soggetto palesemente incapace, in quel momento, di intendere e di volere.

2.Con il secondo motivo, denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 428 c.c. e degli artt. 1175, 2727 e 2729 c.c..

Sostiene che la sentenza impugnata, in violazione dell’art. 428 c.p.c. e delle norme dettate in materia di presunzioni, abbia assunto come fatti noti, posti a base del suo ragionamento presuntivo fatti non corrispondenti, in tutto o in parte, alla realtà, quali: – che il disponente versasse in precarie condizioni di salute (mentre assume che dagli atti risultasse la ben più grave condizione fisica e psichica del disponente, ormai in stato comatoso ed incosciente, incapace di controllare anche le proprie funzioni corporali);

– che l’atto compiuto fosse conforme agli interessi potenziali del disponente (mentre l’ampiezza operativa consentita al procuratore sarebbe stata contrastante con la possibilità che le sonane incassate confluissero in favore del disponente);

– che la formula della procura contenente la dispensa dall’obbligo di rendiconto non fosse di per sè sintomatica di un pregiudizio per il disponente.

Afferma che la corte abbia posto a base del ragionamento presuntivo fatti ignoti o non rispondenti al vero, e ne trae il vizio della struttura del ragionamento presuntivo utilizzato, mediante il quale la corte d’appello era giunta a ritenere provato il fatto ignoto – ovvero che il negozio, per come era strutturato, non fosse in sè potenzialmente dotato di grave lesività degli interessi del disponente, non desumendolo, come solo avrebbe potuto fare, da fatti noti.

3. Con il terzo motivo, proposto in via subordinata al secondo, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e la violazione dell’art. 2697 c.c.: sottolinea che anche a seguito della riforma legislativa del 2012 sia residuato un controllo sulla motivazione in termini di violazione di legge, potendone essere denunciata l’intima totale contraddittorietà, e che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in tale vizio e in un non consentito ribaltamento dell’onere probatorio, laddove avrebbe imposto all’erede del disponente l’onere di provare che la privazione delle disponibilità liquide del padre, conseguente al modo in cui il fratello aveva utilizzato la procura, gli avrebbero sottratto la possibilità di sottoporsi a cure necessarie, ponendo a carico cioè dell’attrice l’onere di provare cosa il padre avrebbe potuto fare con quel denaro e invece non aveva potuto fare (e quindi la prova non dell’astratta idoneità a pregiudicare, ma del pregiudizio in concreto).

4. I motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi.

5. Il ricorso in larga parte si duole della errata considerazione di alcuni fatti da parte della corte d’appello. Tali profili della articolate censure mosse alla sentenza impugnata, laddove sono volti a richiedere direttamente a questa Corte un nuovo apprezzamento dei fatti, non verranno presi in considerazione, perchè non è possibile nè consentito procedere in questa sede alla rivalutazione delle circostanze di fatto esaminate dai giudici di merito e sulle quali essi hanno fornito la loro valutazione.

6. Nondimeno, il ricorso è fondato, in quanto la sentenza impugnata è incorsa nella violazione dell’art. 428 c.c., non essendo stata rispettosa dei principi di diritto da seguire in tema di annullamento per incapacità naturale degli atti unilaterali.

7. I requisiti richiesti dall’art. 428 c.c., per l’annullamento degli atti unilaterali compiuti dall’incapace naturale sono la incapacità di intendere e di volere al momento del fatto e il grave pregiudizio che dal compimento dell’atto deriva per il suo autore, cui si aggiunge, per i contratti, la malafede della controparte.

8. La corte d’appello ritiene che il grave pregiudizio per l’autore debba essere valutato con valutazione ex ante, che faccia riferimento al momento del compimento dell’atto dispositivo, e non facendo riferimento, ex post, al pregiudizio in concreto arrecato al patrimonio dell’incapace dall’esecuzione del negozio giuridico posto in essere dall’incapace stesso.

9. Questa affermazione attiene al profilo dell’inquadramento teorico dei presupposti per l’accoglibilità dell’azione di annullamento, e la porta ad escludere che il rilascio di una procura al figlio da parte del padre già incapace di intendere e di volere, benchè la stessa fosse senza obbligo di rendiconto, potesse essere atto in sè pregiudizievole, perchè, non essendo il padre, ricoverato in ospedale in precarie condizioni, in grado di provvedere autonomamente alle proprie esigenze, il conferimento di procura ad altri, lungi dall’essere un atto pregiudizievole, doveva considerarsi atto giustificato se non necessitato.

10. Queste affermazioni, nella loro integralità, non possono essere condivise, per le ragioni che seguono.

11. Va premesso che per il generale favor espresso dal codice verso il commercio giuridico ed il compimento delle attività giuridiche, la tutela dei soggetti deboli, in quanto versanti in menomate condizioni di valutare consapevolmente l’opportunità di compiere attività di rilevanza giuridica è in linea generale stata presa in considerazione dal codice civile solo se tali condizioni, di incapacità di provvedere in tutto o in parte alla cura dei propri interessi, siano state giudizialmente accertate (tramite i procedimenti di interdizione o di inabilitazione).

12. Nei casi in cui la condizione di incapacità non sia stata giudizialmente accertata, ma si tratti appunto di una incapacità naturale, l’atto compiuto dall’incapace è di per sè produttivo di effetti per l’ordinamento. Il negozio posto in essere dall’incapace, ove non venga proposta l’azione ex art. 428 c.c., produce regolarmente i suoi tipici effetti e può continuare a produrli, consolidandosi, anche nel futuro (decorso il termine di prescrizione dell’impugnativa). Esiste però la possibilità di rimuoverlo con l’azione di annullamento disciplinata dall’art. 428 c.c., soggetta al termine di prescrizione quinquennale, il cui accoglimento è subordinato all’accertamento della sussistenza di due presupposti per gli atti unilaterali (accertata incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, e che ne risulti in grave pregiudizio per l’autore), ai quali si aggiunge, per i contratti, la necessità di accertare l’esistenza di un terzo pregiudizio, ovvero la malafede della controparte.

13. Soli in tempi recenti, con la L. n. 6 del 2004, è stato costruito un diverso istituto, l’amministrazione di sostegno, con la finalità di offrire a chi si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere con piena consapevolezza alla cura dei propri interessi, uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire, distinguendosi, con tale specifica funzione, dagli altri istituti a tutela degli incapaci, quali l’interdizione e l’inabilitazione, non soppressi, ma solo modificati dalla stessa legge attraverso la novellazione degli artt. 414 e 427 c.c..

14. Come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (v. da ultimo Cass. n. 6079

del 2020), rispetto ai predetti istituti, l’ambito di applicazione

dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa.

15. Quanto all’azione di annullamento degli atti compiuti dall’incapace naturale, che naturalmente permane a tutela del soggetto vulnerabile che non sia stabilmente protetto neppure dalla più elastica formula della amministrazione di sostegno, la giurisprudenza di legittimità sul primo presupposto previsto dalla legge, l’accertamento della incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, è copiosa e conforme (basti il richiamo a Cass. n. 30126 del 2018, che ne traccia una completa ricostruzione) e non è toccata dai motivi di ricorso.

16. E’ stato positivamente accertato anche in appello che il sig. D.B., allorchè rilasciò in ospedale la procura al figlio, si trovava già in uno stato di incapacità di intendere e di volere, che si protrasse fino alla sua morte, verificatasi a meno di due mesi di distanza. La corte d’appello giunge a questa conclusione rigettando il motivo di appello sul punto di D.B.F., accertando che già al 3.1.2007, data di dimissione dall’ospedale in seguito all’ictus che aveva colpito il de cuius nell’ottobre 2006, si era verificato un marcato deterioramento delle funzioni intellettivo-cognitive, in un quadro clinico insuscettibile di remissione, ed anzi ad andamento necessariamente ingravescente, e che tale quadro era risultato confermato ed anzi emergeva aggravato, dagli accertamenti effettuati nel corso del nuovo ricovero, a partire dal 28 aprile 2007, il giorno stesso del rilascio della procura, nel pomeriggio, in cui si descriveva la grave condizione cachettica generale del paziente, frutto di un peggioramento stratificato e continuo. Elementi tutti che portano senz’altro la corte d’appello ad accertare l’incapacità di intendere e di volere del D.B. al momento del rilascio della procura.

17. In tale accertamento la corte d’appello si è attenuta ai principi di diritto consolidati secondo i quali:

– in tema di incapacità naturale conseguente ad infermità psichica, accertata la totale incapacità di un soggetto in due periodi prossimi nel tempo, la sussistenza di tale condizione è presunta, “iuris tantum”, anche nel periodo intermedio, sicchè la parte che sostiene la validità dell’atto compiuto è tenuta a provare che il soggetto ha agito in una fase di lucido intervallo o di remissione della patologia (in questo senso Cass. n. 4316, ripresa da Cass. n. 30126 del 2018, e già prima Cass. n. 17130 del 2011, Cass. n. 4539 del 2002);

– ai fini dell’accertamento di una situazione di incapacità di intendere e di volere al momento del compimento dell’atto, non occorre una totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico, dovuto a causa anche transitoria, atto ad impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la capacità di valutare l’importanza dell’atto che si sta per compiere (da ultimo, Cass. n. 30126 del 2018).

18. Al primo presupposto della incapacità di intendere e di volere, dovuta eventualmente anche a causa transitoria, al momento del compimento dell’atto, primo presupposto posto dall’art. 428 c.c., per l’accoglimento dell’azione di annullamento, la legge associa un secondo presupposto, ovvero che dal compimento dell’atto derivi un grave pregiudizio per il suo autore (e in relazione ai contratti aggiunge anche un terzo presupposto, ovvero che l’altro contraente versi in condizione di malafede).

19. La sussistenza del secondo presupposto è stata esclusa dalla corte d’appello, sulla base delle considerazione che la potenzialità lesiva dell’atto vada valutata ex ante, al momento del suo compimento, e non ex post, come ritenuto dal tribunale, e della considerazione che, esaminato ex ante, l’atto non era astrattamente idoneo a creare un grave pregiudizio al suo autore, ma al contrario, data la situazione, il rilascio di una procura a terzi si presentava giustificato, se non reso necessario dalla incapacità appunto del D.B. di compiere personalmente le operazioni bancarie ed altre operazioni (ritiro di raccomandate ed altro) che richiedevano efficienza fisica e capacità di intendere.

20. La giurisprudenza di legittimità sul secondo presupposto richiesto dall’art. 428 c.c., è piuttosto scarna, e nella maggior parte delle fattispecie finora sottoposte all’attenzione della Corte si è formata intorno al compimento di un atto unilaterale ben individuato, le dimissioni del lavoratore subordinato dal proprio posto di lavoro, che è atto unilaterale recettizio e, in quanto tale, ad esso si applica l’art. 428 c.c., comma 1 e non anche il comma 2, previsto per i contratti (come ricostruito da Cass. n. 7292 del 2008, che afferma i seguenti principi: – le dimissioni del lavoratore subordinato costituiscono atto unilaterale recettizio (avente contenuto patrimoniale) a cui sono applicabili, ai sensi dell’art. 1324 c.c., le norme sui contratti, salvo diverse disposizioni di legge; – ne consegue che l’atto delle dimissioni è annullabile, secondo la disposizione generale di cui all’art. 428 c.c., comma 1, ove il dichiarante provi di trovarsi, al momento in cui è stato compiuto, in uno stato di privazione delle facoltà intellettive e volitive anche parziale purchè tale da impedire la formazione d’una volontà cosciente – dovuto a qualsiasi causa, pure transitoria, e di aver subito un grave pregiudizio a causa dell’atto medesimo, senza che sia richiesta – a differenza che per i contratti, per i quali vige la specifica disposizione di cui dell’art. 428 c.c., comma 2 – la malafede del destinatario).

21. Peraltro la giurisprudenza della Sezione Lavoro della Corte, che più volte si è pronunciata sull’annullabilità delle dimissioni del lavoratore dipendente, ha ritenuto che, in ragione della particolare importanza del bene della vita al quale il lavoratore con le dimissioni va a rinunciare, circondato da particolari tutele il cui fondamento ha un i rilievo anche costituzionale (artt. 4 e 36 Cost.), l’atto di dimissioni sia dotato di cospicua idoneità a pregiudicare il rinunciante, essendo in discussione beni giuridici primari, oggetto di particolare tutela da parte dell’ordinamento, e che quindi occorra accertare con particolare rigore che il lavoratore abbia manifestato una volontà consapevole a rinunciarvi (v. Cass. n. 30126 del 2018, che afferma il seguente principio di diritto: “Ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere ex art. 428 c.c., costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere. Laddove si controverta della sussistenza di una simile situazione in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato, il relativo accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni comportano la rinunzia al posto di lavoro – bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost. – sicchè occorre verificare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto”.

22. Quindi, la giurisprudenza formatasi in materia di dimissioni ribadisce che ai fini dell’accoglimento dell’azione debba accertarsi la sussistenza di entrambi i distinti presupposti presi in considerazione dalla legge; tuttavia, in considerazione della particolarità dell’atto dispositivo, afferma che nel caso di specie la gravità dell’atto e l’idoneità di esso a danneggiare il suo autore discende dalle stesse previsioni normative a tutela del lavoro, in quanto il lavoratore con le dimissioni rinuncia alla condizione lavorativa, tutelata anche a livello costituzionale e funzionalizzata a fargli ottenere il godimento della retribuzione, ovvero dello strumento idoneo a garantire il godimento a lui e alla sua famiglia, di una esistenza libera e dignitosa (esigenza anch’essa presidiata da tutela costituzionale).

23. Dagli insegnamenti tratti dalla giurisprudenza lavorista, non automaticamente generalizzabili per la specialità del contesto e degli interessi tutelati, esce comunque confermata l’autonomia dei due presupposti richiesti dalla legge, l’incapacità di intendere e di volere al momento del fatto e l’idoneità del negozio ad arrecare un grave pregiudizio all’incapace, che devono essere autonomamente accertati.

24. Ne discende che non si possa presumere l’esistenza del secondo presupposto in conseguenza dell’esistenza del primo, cioè non è corretto presumere, dalla accertata condizione di incapacità, l’idoneità lesiva dell’atto compiuto, come ritiene la ricorrente a meno che la lesività dell’atto non discenda, come nel caso delle dimissioni dal rapporto di lavoro, direttamente dalla legge.

25. Anche in relazione ai contratti conclusi dall’incapace naturale, la giurisprudenza ha affermato la necessità di accertare autonomamente la sussistenza dei tre presupposti, limitandosi ad affermare, quanto al terzo presupposto (la malafede), che, allorchè l’atto rechi un grave pregiudizio al contraente incapace (un pregiudizio riconoscibile dall’altro contraente, per mutuare i termini utilizzati nella attigua materia dei vizi della volontà), l’esistenza del pregiudizio possa costituire un indice rivelatore della malafede del secondo contraente, un elemento indiziario dell’ulteriore requisito della malafede dell’altro contraente, ma, di per sè, non è idoneo a costituirne la prova (v. Cass. n. 19458 del 2015, che ha confermato la decisione di merito che aveva respinto la domanda di annullamento di un accordo transattivo, non avendo il lavoratore assolto all’onere di allegazione e prova circa la sussistenza del requisito della malafede dell’altro contraente; v. anche Cass. n. 4677 del 2009).

26. E tuttavia, dalla giurisprudenza lavorista si trae anche un diverso, rilevante insegnamento: è necessario valutare comunque con rigore l’idoneità a recare pregiudizio al suo autore (unico legittimato a proporre l’azione) dell’atto assoggettato all’azione di annullamento, a tutela del soggetto debole, ovvero avendo riguardo alla menomata condizione del suo autore, quando risulti provato il primo presupposto, ovvero che l’atto sia stato posto in essere da una persona che in quel momento non dispone consapevolmente dei suoi interessi.

27. Tale valutazione dell’idoneità dell’atto a ledere il suo autore, che come detto deve essere effettuata con particolare rigore, giacchè l’atto è compiuto da persona che non poteva valutarne le conseguenze nel momento in cui l’ha posto in essere, deve essere effettuata non apprezzando le conseguenze economiche di esso (ex post), ma considerando il negozio nel momento in cui è compiuto (ex ante) nel complesso di tutte le sue caratteristiche strutturali cioè considerando se l’atto compiuto, nel suo complesso, per le sue caratteristiche, fosse un atto idoneo a ledere gravemente la sfera giuridica del suo autore.

28. Come ha precisato autorevole dottrina che si è occupata dell’argomento, a differenza del regime dei vizi della volontà per i negozi, l’eventuale annullamento degli atti compiuto dall’incapace di intendere e di volere è subordinata alla concomitanza di un “grave pregiudizio” per l’incapace, così descritto: l’atto impugnando deve risultare, al momento del suo perfezionamento, un affare “gravemente” negativo per il patrimonio dell’incapace e cioè un affare al di là di ogni ragionevole e fisiologico limite di quel tanto di alea normale che inevitabilmente accompagna l’affare stesso, anche se non definibile aleatorio. La stessa dottrina segnala che, entro certi limiti, sul giudizio di “gravità” del pregiudizio in discorso potrà avere peso anche il confronto tra il valore del pregiudizio stesso e il valore complessivo del patrimonio dell’incapace, in quanto la norma prevede, senza ombra di dubbio, una gravità in concreto e questa non può essere che relativa.

29. Valutazione ex ante, quindi, ma valutazione in concreto, nella quale deve necessariamente entrare la considerazione complessiva di tutti gli elementi giuridici del negozio del quale si chiedeva l’annullamento per valutare se esso sia idoneo o meno ad arrecare un grave pregiudizio all’incapace.

30. La valutazione della corte d’appello non ha tenuto conto di tutti i parametri indicati, e per questo la sentenza va cassata, con rinvio al giudice di merito perchè la effettui correttamente. Infatti la corte d’appello si è limitata ad affermare che l’atto era una procura ad operare sul conto corrente, e che la stessa era stata rilasciata in un momento in cui il disponente, essendo incapace di intendere e di volere (e, in più incapace fisicamente di attendere alle proprie occupazioni, tanto che il notaio dà perfino atto che era troppo debole per firmare) necessitava di qualcuno che queste attività compisse, e quindi ha escluso che la procura, in sè, fosse atto pregiudizievole.

31. Non ha però considerato l’atto nel suo complesso, ovvero che non di semplice procura si trattasse, ma di procura senza obbligo di rendiconto, ovvero che al conferimento di poteri si associasse l’esenzione dal dover dare alcuna giustificazione sul come quei poteri venivano impiegati. Tale esenzione non è idonea a spiegare i suoi effetti sugli obblighi del sottostante rapporto di mandato e quindi non libera il mandatario dall’obbligo di far pervenire il risultato della sua attività nella sfera giuridica del mandante (come si evince dall’art. 1713 c.c.), ma opera sul piano della concreta possibilità di controllo da parte del disponente sull’operato del procuratore e quindi sul piano della prova, rendendo assai difficoltoso al disponente, incapace, e poi a i suoi eredi la ricostruzione dell’attività in concreto svolta dal procuratore, e lo stesso recupero di quanto indebitamente trattenuto in violazione dei sottostanti obblighi del mandatario.

32. La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata, e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione che si atterrà ai seguenti principi di diritto: – In tema di annullamento dei negozi giuridici unilaterali va accertata la sussistenza di entrambi i requisiti previsti dall’art. 428 c.c., comma 1.

– Ai fini dell’accertamento di una situazione di incapacità di intendere e di volere al momento del compimento dell’atto, non occorre una totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente una alterazione psichica, dovuta a causa anche transitoria, atta ad impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la capacità di valutare l’importanza dell’atto che si sta per compiere.

– L’accertamento della idoneità dell’atto a recare grave pregiudizio al suo autore va effettuata con particolare rigore, avuto riguardo alla situazione di incapacità del soggetto, e con valutazione ex ante, nella quale occorre tenere in conto tutte le caratteristiche strutturali del negozio posto in essere al fine di valutarne le potenzialità lesive.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2020

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