Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11271 del 12/06/2020

Cassazione civile sez. III, 12/06/2020, (ud. 14/11/2019, dep. 12/06/2020), n.11271

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27675-2017 proposto da:

B.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA S. TOMMASO

D’AQUINO 75, presso lo studio dell’avvocato ETTORE D’OVIDIO, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO AFFARI ESTERI DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE, in persona

del Ministro, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI

12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO N.

43, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO CASELLI, rappresentato e

difeso dall’avvocato MASSIMILIANO CASAGRANDE;

– controricorrenti –

nonchè da:

S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO

43, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO CASELLI, rappresentato e

difeso dall’avvocato MASSIMILIANO CASAGRANDE;

– ricorrente incidentale –

contro

B.S., MINISTERO AFFARI ESTERI DELLA COOPERAZIONE

INTERNAZIONALE;

– intimati –

nonchè da

MINISTERO AFFARI ESTERI DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE, in persona

del Ministro, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI

l2, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

avverso la sentenza n. 4330/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 28/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

principale e incidentale del ricorrente e del Ministero e rigetto

del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato ETTORE D’OVIDIO;

udito l’Avvocato MASSIMILIANO CASAGRANDE e DIANA ROMANI per

l’Avvocatura dello Stato.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. B.S. ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 4330/17, del 28 giugno 2017, della Corte di Appello di Roma, che – accogliendo parzialmente il gravame esperito da S.A. contro la sentenza 13606/16, del 5 luglio 2016, del Tribunale di Roma – ha condannato l’odierno ricorrente, e con esso in via solidale anche il Ministero degli Affari Esteri, a corrispondere al S., a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da condotta diffamatoria, l’importo di Euro 50.000,00.

2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di essere stato convenuto in giudizio dal S., unitamente al Ministero degli Affari Esteri.

In particolare, l’allora attore – sul presupposto di aver svolto, a far data dal 4 agosto 2009, l’incarico di addetto alla sicurezza e alla vigilanza dell’Ambasciata d’Italia in Montenegro – lamentava di aver immediatamente subito una inspiegabile diffidenza, e poi una vera e propria avversione, da parte dell’Ambasciatore, B.S., e del funzionario D.G.C..

Deduceva, altresì, che il B., con appunto trasmesso all’Ispettorato Generale degli Affari Esteri in data 23 ottobre 2009, informava detto ufficio di avere appreso, dal Capo della polizia del Montenegro, che esso S. aveva aggredito e percosso, fin quasi soffocandola, un’agente della polizia montenegrina.

Ritenendo che tale appunto informativo presentasse carattere diffamatorio, il S. – non senza aver impugnato innanzi al giudice amministrativo, che tuttavia respingeva la domanda di annullamento, il provvedimento con il quale il comando Carabinieri del Ministero degli Affari Esteri aveva disposto il trasferimento in Italia, d’autorità, dell’interessato – adiva il Tribunale di Roma, per chiedere il risarcimento dei danni derivati, a suo dire, dalla condotta diffamatoria dell’Ambasciatore. La pretesa risarcitoria, peraltro, aveva ad oggetto anche i danni patrimoniali e quelli alla salute, essendo egli caduto in uno stato depressivo, culminato in una patologia che, secondo quanto statuito dalla competente commissione medica, lo aveva reso permanentemente non idoneo al servizio militare nell’arma dei Carabinieri.

Rigettata dal primo giudice ogni domanda, proposta – come già rilevato – oltre che nei confronti del B. anche del Ministero degli Affari Esteri, il gravame esperito dal S. veniva parzialmente accolto dalla Corte capitolina, che riconosceva il diritto dell’interessato a vedersi risarcire il danno da lesione della reputazione, quantificato nella misura di Euro 50.000,00.

3. Avverso la sentenza della Corte capitolina ricorre per cassazione il B., sulla base di quattro motivi.

3.1 Con i motivi primo e secondo – proposti, il secondo subordinatamente al primo, ai sensi, rispettivamente, dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., ovvero (come detto, in via di subordine), nullità della sentenza ai sensi della stessa disposizione, in relazione all’art. 342 c.p.c..

Sul presupposto che entrambi gli appellati ebbero ad eccepire l’inammissibilità del gravame proposto dal S., per difetto di specificità dei motivi, l’odierno ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale, laddove ha riconosciuto carattere diffamatorio alla nota informativa inviata dal B., non avrebbe indicato omettendo, così, ogni motivazione sul punto – quali dei motivi proposti dall’appellante abbia ritenuto ammissibili, prima ancora che fondati.

3.2. Con il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si assume violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., in relazione all’art. 595 c.p..

Il ricorrente – non senza, previamente, sottolineare come il S. sia sempre stato piuttosto vago nella qualificazione del fatto illecito in relazione al quale ha proposto la domanda di risarcimento (adducendone, alternativamente, la qualificazione come diffamazione o calunnia) – censura la sentenza impugnata laddove ha lapidariamente optato per quella che viene definita come la “indubbia natura diffamatoria” dello scritto inviato il 23 ottobre 2009.

In questo modo, tuttavia, la Corte capitolina sarebbe incorsa in una violazione e falsa applicazione dell’art. 595 c.p., dal momento che elemento costitutivo del delitto di diffamazione è la comunicazione dell’offesa a più persone. Orbene, nel caso di specie, il B. aveva inviato l’appunto in questione solamente all’Ispettorato Generale del Ministero degli Affari Esteri, in persona del suo titolare, l’Ambasciatore C.M..

3.3. Il quarto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – ipotizza violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 595 c.p. e all’art. 2043 c.c..

Si contesta, in questo caso, la sentenza impugnata laddove ha affermato che il contenuto dell’informativa presentava “indubbia natura diffamatoria tanto da non potersi dubitare della sussistenza del dolo generico, non essendo necessario un dolo specifico” per integrare l’elemento soggettivo del reato di diffamazione.

Tuttavia, quantomeno in sede civile, incombe sulla vittima della condotta asseritamente diffamatoria l’onere di provare il dolo generico della fattispecie, il quale non può essere presunto, ma deve essere dimostrato.

Nel caso di specie, per contro, nessuna indagine circa l’effettiva percezione, da parte del B., della capacità offensiva della sua comunicazione sarebbe stata svolta dalla Corte capitolina, o richiesta dal S., donde la violazione dell’art. 2697 c.c..

4. Ha proposto ricorso, sulla base di sei motivi, anche il Ministero degli Affari Esteri.

4.1. Con il primo motivo si deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – “violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 c.c. (“recte”: art. 2697) e dell’art. 595 c.p.”.

Si assume l’erroneità della sentenza impugnata, laddove ha ravvisato nella condotta dell’Ambasciatore B. gli estremi del reato di diffamazione, del quale, invece, mancherebbero sia l’elemento oggettivo che quello soggettivo. Quanto, infatti, al primo aspetto, si censura la sentenza impugnata laddove afferma che “sul piano oggettivo il contenuto dell’informativa ha indubbia natura diffamatoria tanto da non potersi dubitare della sussistenza del dolo generico, non essendo necessario quello specifico”.

Orbene, sul presupposto che il dolo attiene al piano dell’elemento psicologico del reato, e non di quello oggettivo, il motivo censura l’errata sovrapposizione dei due profili. D’altra parte, la Corte capitolina avrebbe mancato completamente di considerare che l’appunto inviato dall’Ambasciatore recava la classifica di riservato, ai sensi e agli effetti di cui alla L. 3 agosto 2007, n. 124, art. 42 e del D.P.C.M. 12 giugno 2009, n. 7, art. 4, par. 6, risultando indirizzato al solo Ispettorato Generale del Ministero, così da assicurare che i contenuti veicolati fossero percepiti esclusivamente dagli appartenenti alla cerchia dei destinatari. Orbene, anche le cautele e modalità osservate nell’invio della missiva, che peraltro – si sottolinea – costituiva adempimento di un dovere, escluderebbero che il contenuto della stessa potesse essere conosciuto da altri, al di fuori dei diretti interessati, e quindi che il suo inoltro potesse integrare gli estremi di una condotta diffamatoria (viene citata a supporto Cass. Sez. 3, sent. 28 settembre 2017, n. 22805).

D’altra parte, poi, la sentenza impugnata sarebbe errata anche laddove ha fatto discendere dalla natura oggettivamente diffamatoria dell’informativa la prova dell’elemento soggettivo della diffamazione, ravvisando un’ipotesi di “dolus in re ipsa” e, dunque, nella sostanza, una responsabilità di tipo oggettivo. In questo modo, la sentenza impugnata avrebbe contravvenuto al principio secondo cui, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale da reato, il giudice civile, purchè non sia vincolato da un giudicato penale di condanna, è tenuto ad accertare “incidenter tantum” l’effettiva sussistenza della fattispecie criminosa in tutti i suoi elementi costitutivi.

4.2. Con il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – si deduce “nullità della sentenza per violazione dell’art. 2967 c.c. (“recte”: art. 2697)”.

Si censura, nuovamente, l’apodittica affermazione circa la sussistenza, nel caso di specie, del dolo generico, evidenziando come essa avrebbe richiesto almeno un principio di una prova, in tal senso, da parte del S.. Orbene, poichè la Corte capitolina ha ritenuto sussistente la diffamazione in mancanza di prova, anzi ha addirittura posto a carico del convenuto un onere probatorio incombente invece sull’attore, avrebbe realizzato una vera e propria inversione dell’onere della prova. Vizio, quest’ultimo, da ravvisare – secondo la difesa statale – anche in relazione alla circostanza che sarebbe stato “onere della parte lesa, in questo caso l’attore, fornire la prova che le informazioni sull’aggressione ad opera del S. non fossero state date all’Amb. B. dal Capo della Polizia”.

4.3. Il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – ipotizza violazione e falsa applicazione dell’art. 51 c.p., nonchè del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, artt. 36 e 37 e della L. 9 agosto 1967, n. 804, artt. 2 e 9, oltre che dell’art. 14, comma 1, lett. a), della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche e, infine, dei principi in punto di consuetudine internazionale, ex art. 10 Cost..

Si contesta la sentenza impugnata laddove afferma che l’illecito sarebbe stato scriminato, qualora l’informativa fosse stata trasmessa nell’adempimento di un dovere, evenienza che la Corte capitolina ha, però, escluso.

Si osserva, al riguardo, che l’Ambasciatore è qualificabile, ai sensi dell’art. 14, comma 1, lett. a), della Convenzione di Vienna, come capo missione, avente una serie articolata di poteri, tra i quali rientra anche l’invio di informative riservate. Nel caso di specie il B., appreso dal Capo della polizia montenegrina il fatto poi oggetto dell’informativa riservata, certamente non poteva esimersi dal riferirlo all’Ispettorato Generale del Ministero. Inoltre, poichè l’iniziativa assunta dal Capo della polizia montenegrina equivaleva ad una dichiarazione di “persona non grata”, rivolta all’indirizzo del S., l’Ambasciatore B. – secondo la difesa statale – non solo avrebbe adempiuto alle proprie funzioni di pubblico ufficiale, ma avrebbe anche rispettato l’art. 9 della Convenzione di Vienna, informando di quanto appreso il Ministero degli Esteri.

Censurabile, pertanto, sarebbe anche l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui il B., lungi dal recepire acriticamente le dichiarazioni del proprio interlocutore, avrebbe dovuto pretendere una nota scritta o un’integrazione delle circostanze del fatto, anche perchè – secondo la Corte territoriale – non vi era nessuna ragione d’urgenza che ostasse all’acquisizione di ulteriori elementi di fatto prima di inoltrare l’informativa. In questo modo, tuttavia, la Corte di Appello si sarebbe inammissibilmente spinta ad enucleare i compiti del Capo missione, nonchè modalità con cui gli stessi avrebbero dovuto essere svolti, mentre è all’agente diplomatico, il quale concretamente operi in una certa situazione, che si deve rimettere la valutazione sul grado di formalità o riservatezza da mantenere nei rapporti con i propri interlocutori istituzionali, nonchè la valutazione delle conseguenze, sul piano politico-diplomatico, delle scelte da compiersi in simili casi.

Infine, non si manca di rilevare come l’Ambasciatore abbia sicuramente agito in conformità del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, artt. 36 e 37, che fanno carico a colui che è preposto alla guida di una sede diplomatica all’estero di proteggere gli interessi nazionali e tutelare i cittadini e i loro interessi, ciò che il B. ha fatto anche a tutela dello stesso S., al fine di preservarlo dagli esiti pregiudizievoli della vicenda che lo vedeva coinvolto.

4.4. Il quarto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – deduce omesso esame di un fatto processuale decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ed esattamente alcune testimonianze rese in corso di causa, ovvero quelle di D.P.S. e dell’Ambasciatore C.M., la valorizzazione delle quali avrebbe permesso alla Corte di Appello di concludere che l’episodio addebitato al S. doveva essere risolto per via diplomatica, al fine di evitare che sorgessero conseguenze sotto il profilo dei rapporti fra l’Ambasciata italiana e lo Stato del Montenegro.

4.5. Il quinto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c..

Osserva il ricorrente Ministero che la sentenza impugnata neppure avrebbe potuto affermare che il fatto oggetto dell’informativa inviata dall’Ambasciatore fosse inesistente, giacchè l’istruttoria celebrata innanzi al Tribunale, e particolarmente le testimonianze ivi acquisite, avrebbero imposto, piuttosto, di ritenere il contrario. Ne consegue che la Corte di Appello, qualora avesse esaminato tali deposizioni testimoniali, non avrebbe dovuto qualificare come diffamatoria l’informativa suddetta, donde la violazione della norma processuale sopra richiamata.

4.6. Infine, il sesto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056, 2059 e 2697 c.p.c..

Si contesta la sentenza impugnata laddove ha fatto coincidere il danno non patrimoniale con il fatto lesivo, sostanzialmente considerandolo alla stregua di un danno “in re ipsa”.

5. Il S. ha resistito, con controricorso, all’impugnazione del B., chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza, proponendo anche ricorso incidentale, sulla base di un unico motivo.

5.1. Quanto al ricorso del B., si assume, innanzitutto, l’inammissibilità dei primi due motivi. Nessun dubbio, infatti, sussisterebbe – secondo il controricorrente – in ordine alla sufficiente specificità dei motivi di appello, da esso allora proposti, e ciò anche alla luce di quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (è citata Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 2017, n. 27199, Rv. 645991-01).

Non fondato sarebbe, inoltre, anche il terzo motivo di ricorso, e ciò alla stregua del principio secondo cui, ai fini dell’insorgenza di una responsabilità aquiliana per lesione dell’onore o della reputazione, non sarebbe indispensabile che la condotta del responsabile configuri il reato di cui all’art. 595 c.p., soprattutto in relazione al suo elemento costitutivo rappresentato dalla comunicazione con più persone (sono richiamati taluni arresti di questa Corte sul punto, l’ultimo dei quali è Cass. Sez. 6-3, ord. 10 maggio 2016, n. 9424).

Infine, quanto al quarto e ultimo motivo del ricorso principale, se ne assume l’inammissibilità, giacchè lo stesso si risolverebbe in una vera e propria censura della motivazione della sentenza, non più consentita, se non nei ristretti limiti imposti dal novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

5.2. Il ricorso incidentale si fonda, come detto, su di un unico motivo.

Esso – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., nonchè dell’art. 1127 c.c. (“recte”: art. 1227) – censura la decisione della Corte capitolina di rigettare la domanda di risarcimento del danno patrimoniale, esito al quale il giudice di appello è pervenuto sul rilievo che il danno relativo alla perdita degli emolumenti economici, conseguente all’avvenuto abbandono forzoso dell’incarico in Montenegro, non potrebbe considerarsi dipendente dal fatto diffamatorio, bensì dal provvedimento di trasferimento in Italia, peraltro impugnato senza successo innanzi al giudice amministrativo.

In questo modo, tuttavia, la Corte capitolina avrebbe violato le norme in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno, in particolare disattendendo l’insegnamento di questa Corte secondo cui, nella selezione dei danni risarcibili, occorre dare rilievo a ciascuno di quegli eventi che non appaia come conseguenza del tutto inverosimile – secondo un giudizio di probabilità scientifica, ovvero in base alla valutazione di dati di esperienza – della condotta posta in essere dall’asserito responsabile.

6. Hanno proposto, rispettivamente, controricorso sia il Ministero degli Affari Esteri, per resistere all’impugnazione incidentale del S., nonchè quest’ultimo, per resistere al ricorso del Ministero.

7. Già discussi nell’adunanza camerale del 31 gennaio 2019, i presenti ricorsi venivano rinviati in pubblica udienza, dato il rilievo nomofilattico delle questioni da essi posti.

8. Tutte le parti hanno presentato memorie, insistendo nelle rispettive argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

9. Il ricorso del B. e quello del Ministero degli Affari Esterni vanno accolti, per le ragioni di seguito meglio precisate.

9.1. Non fondati, tuttavia, risultano il primo e il secondo motivo del ricorso principale.

9.1.1. Non ricorre – come, invece, ipotizza il primo motivo dell’impugnazione del B. – alcun vizio di motivazione in ordine alle ragioni del disposto accoglimento del gravame proposto dal S., risultando evidente, dal contenuto della sentenza qui impugnata (e, del resto, dalle altre censure che lo stesso ricorrente principale ha indirizzato contro di essa), che la riforma della decisione assunta in prime cure sia stata basata sul riconoscimento del contenuto diffamatorio della nota inviata dall’Ambasciatore all’Ispettorato Generale del Ministero degli Esteri.

Non sussiste, pertanto, l’evenienza suscettibile di integrare – ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4) – il vizio di “motivazione apparente”, ravvisabile, ormai, solo quando la parte motiva della sentenza, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento”- (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01 nonchè, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-01), ovvero quando essa risulti affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01), oppure connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), o, ancora, perchè “perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

9.1.2. D’altra parte, neppure fondata è la censura – oggetto, in particolare, del secondo motivo del ricorso principale – che deduce violazione dell’art. 342 c.p.c., basata, com’è, sul rilievo che il gravame allora proposto dal S. difettasse di “autosufficienza” e, soprattutto, di “una proposta alternativa di decisione”.

Come, infatti, ha correttamente rilevato il controricorrente, la disamina del presente motivo non può prescindere dalla considerazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte, in ordine all’esatta interpretazione del novellato testo dell’art. 342 c.p.c..

Esse, in particolare, hanno affermato che gli “artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata” (Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 2017, n. 27199, Rv. 645991-01).

Su tali basi, pertanto, è stato di recente rimarcato che “l’appello, nei limiti dei motivi di impugnazione, è un giudizio sul rapporto controverso e non sulla correttezza della sentenza impugnata”, sicchè “rispetto ad esso non è quindi concepibile alcun rapporto di autosufficienza ma solo di specificità” (Cass. Sez. 3, ord. 20 aprile 2019, n. 11197, Rv. 653588-01).

Come è stato affermato da questa Corte, quello di “appello resta un giudizio di merito pieno, sul rapporto dedotto in giudizio, sia pure nei limiti dei motivi proposti dall’appellante”, sicchè la “Corte d’appello, entro tali limiti, è chiamata a stabilire se la pretesa dell’attore sia fondata, non se il Tribunale abbia correttamente applicato la legge”, non potendo invocarsi, in senso contrario l’affermazione – già compiuta, in passato, dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 8 febbraio 2013, n. 3033, Rv. 625141-01) – secondo cui esso non costituisce un “novum judicium”, giacchè le Sezioni Unite, in questo modo, “non hanno affatto inteso sostenere che esso fosse un giudizio a critica vincolata, ma compirono quell’affermazione al limitato fine di stabilire come si ripartisse l’onere della prova in appello, e comunque ribadendo che la natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio d’appello impedisce all’appellante di impugnare la sentenza di primo grado limitandosi ad una denuncia generica dell’ingiustizia della sentenza, ma non trasforma il sindacato sul rapporto in un sindacato sull’atto impugnato”, sicchè proprio da “questi principi deriva, in primo luogo, che rispetto all’atto d’appello non è concepibile alcun requisito di “autosufficienza”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 11 aprile 2016, n. 6978).

Un’affermazione, questa, peraltro non nuova, essendosi già in passato ritenuto che la mancata previsione, per l’appello, del requisito dell’autosufficienza, comporta che il gravame “non esige una parte espositiva formalmente autonoma ed unitaria”, giacchè essa, “in quanto funzionale all’individuazione delle censure mosse dall’appellante, può emergere anche indirettamente dalle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di impugnazione, ove questi forniscano gli elementi idonei a consentire l’individuazione dell’oggetto della controversia e delle ragioni del gravame” (Cass. Sez. Lav., sent. 20 agosto 2004, n. 16422, Rv. 576181-01), ed inoltre che, “stante la mancanza nell’appello di un principio di autosufficienza”, risulta “ammissibile anche una integrazione dei motivi mediante un rinvio circostanziato ai singoli atti del processo (che si presumono noti)”, ferma restando, beninteso la necessità che “l’insieme degli elementi forniti dall’appellante, o direttamente o “per relationem”, si contrapponga al contenuto della decisione impugnata e consenta la individuazione non solo dell’ambito del “devolutum” ma anche delle ragioni del gravame” (Cass. Sez. Lav., sent. 1 dicembre 2005, n. 26192, Rv. 585633-01).

9.2. Fondato è, invece, il terzo motivo di ricorso principale, da scrutinare congiuntamente ai motivi primo, secondo e terzo del ricorso del Ministero degli Affari Esteri, che formulano censure almeno in parte – di analogo contenuto, ed anch’esse fondate, dovendo ravvisarsi, nella sentenza impugnata, una falsa applicazione degli artt. 51 e 595 c.p., artt. 2043 e 2697 c.c., oltre che una violazione del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, art. 37.

9.2.1. Da un lato, infatti, la sentenza mostra di ignorare la circostanza che la diffamazione implica la comunicazione dell’offesa a più persone, mentre nel caso di specie il B. aveva inviato – in forma di riservata personale – l’appunto concernente il S. solamente all’Ispettorato Generale del Ministero degli Affari Esteri, in persona dell’allora titolare, l’Ambasciatore C.M..

Orbene, proprio la classifica di “riservatezza” (anche agli effetti di cui alla L. 3 agosto 2007, n. 124, art. 42 e al D.P.C.M. 12 giugno 2009, n. 7, art. 4, par. 6) conferita dal B. alla nota del 4 agosto 2009, comporta l’applicazione del principio secondo cui “in tema di diffamazione si configura la condotta del reato solo qualora – nell’ipotesi in cui l’agente comunichi in via riservata con un’unica persona – vi sia la prova della volontà, da parte dell’agente medesimo, della diffusione del contenuto diffamatorio della comunicazione attraverso il destinatario” (così Cass. Sez. 5 Pen, sent. 9 giugno 1997, n. 5454, Rv. 207780-01, tra l’altro relativa ad una fattispecie connotata da più di un profilo di analogia con la presente, concernendo una “lettera inviata dal superiore gerarchico all’Autorità amministrativa centrale, e concernente addebiti presuntivamente diffamatori nei confronti di un funzionario, del quale veniva richiesto l’allontanamento dall’ufficio”; in senso sostanzialmente analogo anche Cass. Sez. 5 Pen., sent. dep. 11 giugno 1999, n. 7551, Rv. 213780-01, e Cass. Sez. 5 Pen., sent. dep. 19 giugno 2014, n. 26560, Rv. 260229, nonchè, seppur “a contrario”, Cass. Sez. 1 Pen., sent. dep. 12 luglio 2007, n. 27624, Rv. 237086, secondo cui “sussiste il requisito della comunicazione con più persone, necessario per integrare il reato, qualora le espressioni lesive dell’altrui reputazione siano contenute in una lettera indirizzata ad una pubblica autorità in forma impersonale, in una busta non chiusa e, quindi, non in forma riservata”).

Nella specie, difettando – nella sentenza impugnata – qualsiasi argomentazione circa la volontà del B. di diffondere lo scritto attraverso il suo, destinatario, già sotto questo profilo si impone la cassazione della sentenza impugnata.

9.2.2. Ma vi è di più.

La sentenza impugnata ha posto a carico del B., erroneamente, un duplice onere.

Sul piano sostanziale, si è ritenuto che l’Ambasciatore fosse tenuto a “pretendere”, dal Capo della Polizia montenegrina, “una nota scritta o un’integrazione delle circostanze di fatto” oggetto del colloquio (sebbene da acquisire “con l’adeguata riservatezza che i rapporti diplomatici imponevano”), senza, dunque, “recepirle acriticamente”, e ciò perchè – a dire della Corte capitolina – “non vi era nessuna ragione d’urgenza che ostasse all’acquisizione di ulteriori elementi di fatto prima di inoltrare l’informativa”, in Italia, sul conto del S..

Sul piano processuale, poi, si è posto a carico del B. avanzandosi, pertanto, il dubbio che quel colloquio non fosse, in realtà, mai avvenuto (tanto da affermarsi, nella sentenza qui impugnata, che la “prova”, al riguardo fornita dal convenuto, fosse “insufficiente”) – l’onere, “ex art. 2697 c.c.”, di dimostrare che “il colloquio con il Capo della polizia montenegrina avesse avuto effettivamente luogo”, oltre che di “fornire la prova delle dichiarazioni di quest’ultimo, in quanto l’informativa dell’Ambasciatore non ha, nel suo contenuto, natura di atto pubblico fornito di efficacia privilegiata”. Si tratta di affermazioni, ambedue, errate in diritto.

9.2.2.1. La prima, infatti, omette di considerare che, ai sensi del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, art. 37, tra le funzioni di una missione diplomatica – e quindi, specificamente, del suo vertice – vi è anche quella di “promuovere relazioni amichevoli” (oltre che di “sviluppare i rapporti in tutti i settori”) tra “l’Italia e lo Stato di accreditamento”, una, funzione rispetto alla quale è certamente strumentale il dovere di “non ingerirsi negli affari interni” dello Stato accreditatario, sancito dall’art. 41 della Convenzione di Vienna in tema di relazioni diplomatiche (ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 9 agosto 1967, n. 804).

Non si trattava, dunque, di assicurare che la “pretesa” dell’Ambasciatore – che secondo la Corte territoriale avrebbe dovuto avere ad oggetto la richiesta di delucidazioni sulla vicenda portata a sua conoscenza – fosse avanzata con “l’adeguata riservatezza che i rapporti diplomatici imponevano”. Occorreva, piuttosto, prendere atto, che l’iniziativa assunta dal Capo della polizia del Montenegro (nel riferire dell’aggressione del S. ai danni di un’agente di polizia del luogo, “quasi soffocandola”) era maturata in un contesto in cui l’asserita vittima di quella condotta si era determinata a non presentare alcuna denuncia, pur riferendo l’accaduto ai propri superiori. Stando così le cose, e dunque al cospetto di un’iniziativa assunta – per giunta, ai massimi livelli, dall’amministrazione di appartenenza della funzionaria contro la quale il S. avrebbe usato violenza – nel tentativo di mantenere, prudentemente, sul piano della “comity” le relazioni tra Italia e Montenegro, ogni “pretesa” di approfondimento da parte del B. avrebbe determinato il pericolo di un’amplificazione dell’accaduto, a fronte della volontà dei suoi interlocutori montenegrini di ridimensionarne, invece, la portata.

In altri termini, il “pretendere” che il Capo della Polizia del Montenegro facesse seguire al colloquio con l’Ambasciatore italiano una “nota scritta o un’integrazione delle circostanze di fatto” in relazione l’accaduto, oltre ad essere interpretabile come un’ingerenza negli accertamenti che le autorità dello Stato accreditatario avevano autonomamente svolto in merito a quella vicenda, avrebbe comportato il rischio di una “escalation”. E con essa, di un irrigidimento, nelle relazioni tra Italia e Montenegro, potenzialmente destinato a sfociare – come bene osserva il Ministero degli Esteri nei propri scritti defensionali – persino nell’avvio della procedura, disciplinata dall’art. 9 della già citata Convenzione di Vienna, volta a far dichiarare il S. “persona non grata”.

9.2.2.2. Ancor più netta – e rilevante, dal momento che la Corte capitolina ha attribuito carattere dirimente alla “insufficienza” della prova che quel colloquio tra il B. e il Capo della polizia del Montenegro avesse “avuto effettivamente luogo”, o, quantomeno, che il suo “contenuto” fosse proprio quello riferito dall’Ambasciatore (addossandogli, pertanto, le conseguenze, in termini di mancata dimostrazione della liceità del proprio contegno, di siffatta carenza probatoria) – è l’erroneità dell’affermazione sull’onere “processuale” che, nel giudizio di merito, sarebbe gravato sull’odierno ricorrente principale.

La sentenza impugnata, infatti, ha escluso – rispetto al contegno del B. – la ricorrenza della scriminante ex art. 51 c.p., “sub specie” di adempimento del dovere. A tale esito, in particolare, è pervenuta sul presupposto che egli dovesse sia dimostrare che “il colloquio con il Capo della polizia montenegrina avesse avuto effettivamente luogo” (quantunque, però, la stessa Corte territoriale abbia ritenuto che “elementi indiziari” in tal senso potessero “trarsi dal registro visite” dell’Ambasciata), sia, soprattutto, offrire “la prova delle dichiarazioni di quest’ultimo, in quanto l’informativa dell’Ambasciatore non ha, nel suo contenuto, natura di atto pubblico fornito di efficacia privilegiata”.

In questo modo, tuttavia, essa è incorsa in una falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 51 c.p. (e all’art. 2043 c.c.), travisando quanto affermato – in casi affini a quello presente – dalla giurisprudenza di questa Corte, sia civile che penale.

Invero, questa Corte ha ritenuto che “ogni denuncia di “notitia criminis” si risolve nell’attribuzione a taluno di un reato, sicchè non sarebbe giuridicamente e logicamente possibile esercitare tale facoltà senza incolpare” il soggetto denunciato “di una condotta oggettivamente disonorevole ed offensiva della reputazione”, essendo, pertanto, “ragionevole che nessuna responsabilità consegua ad una denuncia penale fuori dall’ipotesi di calunnia, autocalunnia e simulazione di reato”, in particolare, dovendo “escludersi la configurabilità del delitto di diffamazione”, e ciò allorchè il denunciante, persino quando si tratti di un semplice cittadino, “in un esposto all’autorità, attribuisca ad altra persona fatti illeciti, al solo fine di giustificare la richiesta d’intervento dell’autorità stessa nei casi in cui tale intervento è ammesso dalla legge, ancorchè i successivi accertamenti non ne confermino la fondatezza” (così, in motivazione, Cass. Sez. 5 Pen., sent. dep. 26 luglio 2010, n. 29237, Rv. 24860901; in senso analogo anche Cass. Sez. 5 Pen., sent. dep. 24 maggio 2006, n. 18090, Rv. 234551-01).

Una conclusione, come detto, che trova riscontro pure nella giurisprudenza civile di questa Corte, secondo cui “in tema di illecito civile, la scriminante dell’adempimento del dovere” (persino di quello derivante da ordine di un superiore gerarchico, sempre che esso non sia manifestamente illegittimo), “trova applicazione in via analogica anche con riferimento al dovere del pubblico ufficiale di riferire nel rapporto i fatti costituenti reato” (Cass. Sez. 3, sent. 8 aprile 2003, n. 5505, Rv. 561971-01), sicchè “la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio” (come, del resto, la proposizione di una querela per un reato perseguibile solo su iniziativa di parte) può “costituire fonte di responsabilità civile a carico del denunciante”, in caso di successivo proscioglimento o assoluzione, “solo ove contengano sia l’elemento oggettivo che l’elemento soggettivo del reato di calunnia, poichè, al di fuori di tale ipotesi, l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale” – ma altrettanto è da ritenersi per quella esercitata dall’autorità titolare di potestà disciplinare – “si sovrappone all’iniziativa del denunciante (o querelante), interrompendo ogni nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato (o querelato)” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 30 novembre 2018, n. 30988, Rv. 651666-01; nello stesso senso Cass. Sez. 3, ord. 20 marzo 2018, n. 6860, non massimata, nonchè, tra le molte, Cass. Sez. 3, sent. 18 giugno 2016, n. 11898, Rv. 640203-01; Cass. Sez. 3, sent. 15 gennaio 2010, n. 1542, Rv. 611173-01).

Si tratta, dunque, di principi consolidati, basati sul rilievo che “le ragioni della restrizione di questa ipotesi di responsabilità al solo caso della condotta dolosa sono fondate in primo luogo sull’interesse pubblico alla repressione dei reati, per una efficace realizzazione della quale è necessaria anche la collaborazione del privato cittadino, che verrebbe significativamente scoraggiata dalla possibilità di andare incontro a responsabilità in caso di denunce inesatte o rivelatesi infondate” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 11898 del 2016, cit.).

Resta, pertanto, inteso che – in un simile contesto – “in ogni caso, è onere della parte deducente provare la sussistenza di un condotta integrante il reato di calunnia” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. n. 30988, cit.), giacchè, “rispetto all’azione risarcitoria proposta”, spetta all’asserito calunniato “provare tutti gli elementi del fatto illecito, e quindi anche la sussistenza, in capo al convenuto (…) del reato di calunnia”, con l’ulteriore conseguenza che, “in sede civile, non possono farsi ricadere a carico” del denunciante “le conseguenze della assenza di prova” in ordine anche solo a taluno di tali elementi; il rigetto della domanda risarcitoria, pertanto, costituisce l’esito obbligato del giudizio qualora – come nel caso che qui occupa “l’unico elemento di fatto indicato dalla Corte di appello a prova della consapevolezza (…) della innocenza (…) consiste in una incertezza probatoria che spettava all’attore (…) e non al convenuto (…) superare” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 25 maggio 2004, n. 10033, Rv. 573117-01, la quale ha annullato una decisione che aveva individuato, come “unico elemento probatorio” a sostegno del carattere calunnioso della denuncia, la circostanza che il convenuto non avesse “dimostrato il fatto storico da lui denunciato”).

Non è, dunque, a carico del convenuto/denunciante – come ha erroneamente ritenuto, nella fattispecie in esame, la Corte capitolina – l’onere di dimostrare la verità di quanto oggetto di denuncia, ma dell’attore/denunciato provarne, invece, la falsità.

Non possono, qui, trovare applicazione, infatti, i principi enunciati da questa Corte con riferimento all’ipotesi di condotte lesive dell’altrui reputazione realizzate attraverso il mezzo della stampa, condotte rispetto alle quali la verità di quanto riferito si pone – unitamente ad altri requisiti – come condizione per superarne l’illiceità, rendendole espressione di un diritto (quello alla libera manifestazione del pensiero) che trova fondamento nell’art. 21 Cost..

Nel caso che occupa, invero, la prospettiva risulta rovesciata, giacchè la presentazione denuncia non è esercizio di un diritto, ma adempimento del dovere di segnalare fatti illeciti, dovere in alcuni casi penalmente rilevante (artt. da 361 a 364 c.p.), ma, in ogni altro, comunque sempre rispondente ad un interesse pubblico, per soddisfare il quale – come si è già detto – occorre la collaborazione di ogni cittadino, “che verrebbe significativamente scoraggiata dalla possibilità di andare incontro a responsabilità in caso di denunce inesatte o rivelatesi infondate”.

Una situazione non dissimile, del resto, si riscontra in presenza di un altro dovere non meno pregnante per l’ordinamento (ed esattamente, per l’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti), ovvero quello di rendere testimonianza, la veridicità della quale è, in questo caso, garantita, sul piano delle conseguenze sanzionatorie, dalla previsione di cui all’art. 372 c.p..

Anche.in questa ipotesi, peraltro, non può escludersi “a priori” il carattere potenzialmente lesivo, per l’altrui reputazione, di quanto riferito dal teste, ma ancora una volta – nella giurisprudenza di questa Corte – la prova della sussistenza di un illecito ex art. 2043 c.c., dallo stesso perpetrato, passa, proprio perchè il testimone agisce nell’adempimento di un dovere, attraverso la dimostrazione della falsità di quanto dichiarato. Questa Corte, infatti, ha affermato che i testimoni giudiziari, “se depongono il vero su ciò che viene loro domandato, non commettono diffamazione ancorchè la deposizione implichi una menomazione dell’onore, del decoro o della reputazione altrui, dal momento che la verità del fatto attribuito elimina, per la presenza della causa giustificativa dell’adempimento di un dovere giuridico, il carattere offensivo dell’azione”, fermo restando che nel caso in cui, invece, “essi depongano il falso, commettono diffamazione ove sussistano i requisiti di tale illecito” (Cass. Sez. 3, sent. 6 marzo 2008, n. 6041, Rv. 602115-01; in senso analogo, Cass. Sez. 3, sent. 6 aprile 2001, n. 5146, Rv. 545682-01).

Da quanto precede, dunque, risulta evidente che, nel presente caso, ricorre la “violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, giacchè essa è, appunto, configurabile proprio “nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01).

La decisione di porre a carico del convenuto B. la prova della veridicità di quanto riferito nella denuncia a carico del S. oltre che in una violazione dell’art. 2697 c.c. – si sostanzia, inoltre, in una falsa applicazione dell’art. 51 c.p., nella misura in cui la Corte territoriale ha escluso che la scriminante dell’adempimento del dovere potesse escludere tanto il reato ex art. 595 c.p., quanto di quello di cui all’art. 368 c.p., e, quindi, l’illecito ex art. 2043 c.c..

9.3. I restanti motivi del ricorso principale (ovvero il quarto) e di quello del Ministero (il quarto, il quinto ed il sesto) restano assorbiti dall’accoglimento dei precedenti.

10. Anche il ricorso incidentale del S. risulta assorbito dall’accoglimento – nei termini suindicati – dell’impugnazione del B. e del Ministero degli Affari Esteri, giacchè il riconoscimento della sussistenza dei presupposti per l’operatività della scriminante dell’adempimento del dovere, e, dunque, della non illiceità della condotta dell’Ambasciatore, esclude che sia necessario pronunciarsi sul rigetto della domanda di risarcimento del danno, diverso dalla lesione della reputazione, pure proposta dal soggetto (asseritamente) diffamato.

11. All’accoglimento del ricorso del B. e del Ministero segue non solo la cassazione della sentenza impugnata, ma anche la decisione nel merito, non occorrendo ulteriori accertamenti, ex art. 384 c.p.c., comma 2, seconda alinea.

Il riconoscimento, infatti, della sussistenza dei presupposti per l’operatività – rispetto alla condotta asseritamente illecita dell’Ambasciatore B. – della scriminante dell’adempimento del dovere, vista l’assenza di prova, agli atti del giudizio di merito, circa la natura non veritiera di quanto dallo stesso riferito nella propria denuncia, comporta il rigetto della domanda risarcitoria del S. ex art. 2043 c.c., a carico dell’attore dovendo porsi, come visto, le conseguenze di tale carenza probatoria e dovendo escludersi, come detto, la ricorrenza di entrambe le fattispecie – artt. 368 e 595 c.p. – in relazione ai quali, e peraltro non senza ambiguità (dal momento che l’attore non ha mai chiarito a quelle delle due ipotesi intendesse riferirsi), tale domanda era stata avanzata.

12. Quanto alle spese dell’intero giudizio, la complessità delle questioni trattate ed il loro carattere, almeno in parte, inedito (non risultando, nella giurisprudenza di questa Corte, precedenti relativi alla responsabilità per lesione dell’altrui reputazione ricollegabili ad attività svolta da diplomatici, nell’esercizio delle loro funzioni), costituiscono taluna di quelle “gravi ed eccezionali ragioni” che in base all’art. 92 c.p.c., comma 2 – nel testo modificato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, applicabile “ratione temporis” al presente giudizio, risultando lo stesso incardinato con citazione notificata il 16/21 maggio 2013 – giustificano la loro integrale compensazione tra tutte le parti del presente giudizio.

PQM

La Corte accoglie il terzo motivo del ricorso principale ed il primo, secondo e terzo motivo del ricorso incidentale del Ministero degli Affari Esteri, ritenendo assorbiti i restanti motivi di entrambi tali ricorsi, nonchè il ricorso incidentale di S.A. e cassa, per l’effetto la sentenza impugnata, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di risarcimento danni proposta dal S., compensando integralmente tra tutte le parti le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2020

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