Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1125 del 21/01/2021

Cassazione civile sez. VI, 21/01/2021, (ud. 10/12/2020, dep. 21/01/2021), n.1125

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Presidente –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11055/2019 R.G. proposto da:

Autotrasporti Z. di Z.G. & C. S.a.s.,

rappresentata e difesa dall’Avv. Giuseppe Romano, con domicilio

eletto in Roma, Via Cagliari, n. 14, presso lo studio dell’Avv.

Angelo Caliendo;

– ricorrente –

contro

Unicredit Leasing S.p.A., rappresentata e difesa dall’Avv. Antonio

De Simone;

– controricorrente –

e nei confronti di:

R.G.;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli, n. 5145/2018,

depositata il 14 novembre 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 dicembre

2020 dal Consigliere Emilio Iannello.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. La Autotrasporti Z. di Z. Raffaele & C. S.a.s. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Napoli la Unicredit Leasing S.p.A, quale concedente-acquirente, e R.G., quale venditore, chiedendo che venisse accertata la responsabilità, ex art. 1489 c.c., del R., in relazione alla compravendita di immobile sito in (OMISSIS), per avere omesso di dichiarare nel contratto la presenza di una servitù non apparente di uso pubblico, con conseguente sua risoluzione e condanna dei convenuti, per quanto di ragione, al risarcimento dei danni subiti, patrimoniali e non, quantificati in Euro 2.000.000, per la conseguente diminuzione del godimento dell’immobile, oltre che alla restituzione dei canoni di leasing.

Con sentenza n. 7625/2017 del 30 giugno 2017 il Tribunale di Napoli rigettò le domande rilevando:

– quanto a quella di risoluzione che, in base al principio affermato da Cass. Sez. U. n. 19785 del 05/10/2015, l’utilizzatore difettava della relativa titolarità, non essendogli stata questa riconosciuta nel contratto di leasing, ma anzi emergendo dallo stesso l’esistenza di una clausola di cessione, in favore dell’utilizzatore, dei diritti nascenti da responsabilità del fornitore, che escludeva, però, espressamente la possibilità di agire in risoluzione;

– quanto a quella di risarcimento dei danni e di restituzione dei canoni, che parte attrice aveva omesso di provarli e prima ancora di allegarli con sufficiente grado di specificità e che, inoltre, nel contratto di leasing, il concedente era stato espressamente esonerato da ogni responsabilità per servitù, anche se non note.

2. Con la sentenza in epigrafe, la Corte d’appello di Napoli ha dichiarato inammissibile, per aspecificità, il gravame interposto dalla soccombente.

Ha infatti rilevato che, “a fronte delle argomentazioni sviluppate dal tribunale per affermare che l’attrice era priva della titolarità di domandare la risoluzione del contratto di acquisto dell’immobile”, l’appellante, “nel primo motivo di appello, (si era diffusa), in buona parte, sulla questione, trattata solo incidentalmente dal primo giudice, riguardante l’attestazione, nel verbale di consegna, dell’idoneità del bene e, nel rogito, di avere eseguito gli accertamenti sull’immobile, ovvero sul ragionevole affidamento nella dichiarazione del venditore di inesistenza delle servitù, trascurando, invece, di censurare la decisione nel suo nucleo centrale ed assorbente, laddove il tribunale, richiamandosi ad una pronuncia del giudice di legittimità, (aveva) evidenziato che la facoltà di agire, in capo all’utilizzatore, per la risoluzione del contratto di vendita, era stata espressamente esclusa in quello di leasing”.

Le altre argomentazioni sviluppate – ha soggiunto – non colgono tale ratio decidendi, ma “si riferiscono… al comportamento che avrebbe dovuto tenere la società concedente per tutelare l’utilizzatrice” e sono, dunque, allegazioni che, oltre a non essere state proposte nella originaria domanda, “nulla hanno a che vedere con il diritto di chiedere la risoluzione, che il tribunale ha ritenuto essere stato riservato, nel contratto di leasing, esclusivamente alla sola società finanziatrice-acquirente”

Analogamente, quanto al secondo motivo d’appello, ha evidenziato che l’appellante, “col lamentare che il giudice di primo grado, riguardo alla indicazione dei danni e agli elementi per giungere ad una loro quantificazione, non avrebbe considerato la documentazione prodotta o le prove richieste nelle memorie ex art. 183 c.p.c., (aveva) del tutto omesso di indicare a cosa si (riferisse) e, conseguentemente, di illustrare i risultati cui (avrebbe inteso) pervenire al fine di ribaltare le argomentazioni del primo giudice”

Ha infine rimarcato che, con riferimento alla posizione di Unicredit Leasing, risultava non censurata la parte della pronuncia in cui il tribunale aveva evidenziato che la società concedente era stata espressamente esonerata dalla responsabilità per il caso di accertata esistenza di servitù, anche se non note.

3. Avverso tale sentenza la Autotrasporti Z. di Z. Giuseppina & C. S.a.s. propone ricorso per cassazione, con quattro mezzi, cui resiste Unicredit Leasing S.p.A. depositando controricorso.

L’altro intimato non svolge difese.

4. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Va preliminarmente rilevata la tardività della memoria del ricorrente, la quale dunque non può essere presa in esame, in quanto depositata lunedì (OMISSIS), al di là del termine di cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza ((OMISSIS)).

2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c..

Richiamato il principio affermato da Cass. Sez. U. n. 27199 del 16/11/2017, in particolare là dove esclude che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”, afferma che, con l’atto d’appello, essa -diversamente da quanto affermato in sentenza – aveva “delineato in modo chiaro e preciso i motivi di doglianza, con l’indicazione delle censure, delle modifiche da apportare con riguardo alla ricostruzione del fatto, l’indicazione delle ragioni per le quali si ritiene violata la legge da parte del primo giudice della valutazione nella interpretazione dei fatti”.

2.1. Il motivo è inammissibile, in quanto aspecifico, in violazione degli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6.

Non essendo riportati i motivi d’appello non è possibile apprezzare le ragioni per le quali il primo di essi, diversamente da quanto ritenuto dal giudice a quo, dovrebbe ritenersi in realtà, come afferma apoditticamente il ricorrente, rispettoso dei requisiti dettati dall’art. 342 c.p.c..

Occorre al riguardo rammentare che, come costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, anche in ipotesi di denuncia di un error in procedendo, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità, presuppone, comunque, l’ammissibilità del motivo di censura, cosicchè il ricorrente è tenuto – in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, che deve consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo demandatogli del corretto svolgersi dell’iter processuale – non solo ad enunciare le norme processuali violate, ma anche a specificare le ragioni della violazione, in coerenza a quanto prescritto dal dettato normativo, secondo l’interpretazione da lui prospettata (cfr. ex plurimis Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22726;

Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077; Cass. n. 5148 del 2003; n. 20405 del 2006; n. 21621 del 2007).

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1489 e 1375 c.c..

La censura investe la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che “la facoltà di richiedere il risarcimento dei danni, il corretto adempimento o la riduzione del prezzo, ovvero il comportamento che avrebbe dovuto tenere la società concedente per tutelare l’utilizzatrice, nulla hanno a che vedere con il diritto di chiedere la risoluzione, che è stato riservato, nel contratto di leasing, esclusivamente alla sola società finanziatrice-acquirente”.

Argomenta di contro che, in ipotesi di vizi occulti o in mala fede taciuti dal fornitore, qualora ricorrano le condizioni legittimanti la risoluzione del contratto, il concedente, informato dall’utilizzatore dell’emersione dei vizi, ha l’obbligo ex artt. 2 Cost., e art. 1375 c.c., di agire nei confronti del fornitore per la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo, con i medesimi effetti di cui sopra.

Ne discende, secondo la ricorrente, che, in caso di mancata attivazione, l’utilizzatore potrà ottenere il risarcimento del danno, opporre eccezione di inadempimento, chiedere la risoluzione del contratto.

3.1. Anche il secondo motivo è inammissibile, sotto due diversi profili.

3.1.1. Anzitutto perchè investe solo una delle due autonome rationes decidendi spese al riguardo in sentenza (quella secondo cui le argomentazioni svolte circa il comportamento che avrebbe dovuto tenere la società concedente per tutelare l’utilizzatrice non potevano comunque giustificare la postulata titolarità in capo all’utilizzatore di chiedere egli stesso, direttamente, la risoluzione del contratto di compravendita), non l’altra, distinta e assorbente, secondo cui si trattava comunque di allegazioni non presenti nella domanda introduttiva ma svolte per la prima volta in appello.

3.1.2. In secondo luogo perchè l’insistita tesi viene, in questa sede, riproposta sulla base di allegazioni (violazione del dovere di buona fede e sue conseguenze), implicanti anche accertamenti fattuali, che non risultano esaminate dalla Corte di merito e delle quali la ricorrente omette di indicare se e dove invece erano state prospettate a fondamento della domanda e dell’appello.

Mette conto al riguardo rammentare che, secondo pacifico insegnamento, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (tra le tante, Cass. n. 31227 del 2019; n. 2038 del 2019; n. 15430 del 2018). Difatti, il giudizio di cassazione ha, per sua natura, la funzione di controllare la difformità della decisione del giudice di merito dalle norme e dai principi di diritto, sicchè sono precluse non soltanto le domande nuove, ma anche nuove questioni di diritto, qualora queste postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito che, come tali, sono esorbitanti dal giudizio di legittimità (tra le molte, Cass. n. 15196 del 2018; n. 9378 del 2002).

4. Il terzo motivo denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., e dell’art. 132 c.p.c., per carenza assoluta di motivazione.

Lamenta la ricorrente che “nel caso di specie, la Corte non ha soddisfatto il requisito motivazionale, limitandosi, acriticamente e pedissequamente, a richiamare, punto per punto, le argomentazioni rese dal Tribunale di primo grado, senza null’altro aggiungere e motivare”.

4.1. Il motivo è manifestamente infondato.

Non può infatti dubitarsi che una motivazione esista e che non sia meramente apparente, consentendo la stessa di comprendere quale sia la ragione della decisione adottata (aspecificità e inconferenza dei motivi di appello).

Ciò vale certamente ad escludere la dedotta violazione dai doveri decisori di cui all’art. 132 c.p.c., denunciata dall’amministrazione ricorrente, che si configura soltanto nell’ipotesi in cui sia mancata del tutto da parte del giudice – ovvero sia meramente apparente (come quando sia affidata ad espressioni del tutto generiche o tautologiche e prive di ogni specifico riferimento al caso concreto) – ogni giustificazione a supporto del decisum.

5. Con il quarto motivo la ricorrente deduce, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, (per) motivazione inesistente ed apparente.

Il motivo investe la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che l’appellante, limitandosi a “lamentare semplicemente che il giudice di primo grado riguardo alla indicazione dei danni e agli elementi per giungere ad una loro quantificazione non avrebbe considerato la documentazione prodotta o le prove richieste nelle memorie ex art. 183 c.p.c., (aveva) del tutto omesso di indicare a cosa si riferisca e conseguentemente illustrare i risultati cui intenderebbe pervenire al fine di ribaltare le argomentazioni del primo giudice”.

La ricorrente deduce l’infondatezza di tale assunto obiettando che, con il secondo motivo d’appello, essa aveva precisato di avere depositato debitamente documenti, contratto preliminare, rogito e memorie ex art. 183 c.p.c., nn. 2 e 3, con richiesta di escussione testi, rispetto alle quali il giudice nulla aveva disposto.

5.1. Il motivo è inammissibile.

Oltre a ripetere la generica doglianza di inesistenza o apparenza della motivazione – contraddittoriamente con la successiva illustrazione, che postula la piena comprensione delle ragioni della decisione – fa riferimento ad allegazioni e documenti senza in alcun modo indicarne il contenuto nè precisarne la localizzazione nel fascicolo processuale, in patente violazione dell’onere di specifica indicazione degli atti e documenti richiamati, imposto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., n. 6.

6. Il ricorso deve essere in definitiva rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali liquidate come da dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile-3 della Corte Suprema di Cassazione, il 10 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2021

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