Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11231 del 20/05/2011

Cassazione civile sez. trib., 20/05/2011, (ud. 09/02/2011, dep. 20/05/2011), n.11231

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 32259-2006 proposto da:

SERIANA SRL IN LIQUIDAZIONE (già LOGAGLIO INTERNATIONAL SRL),

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DELLE QUATTRO FONTANE 15,

presso lo studio dell’avvocato TINELLI GIUSEPPE, che lo rappresenta e

difende, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimato –

e contro

AMMINISTRAZIONE DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 93/2005 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 12/10/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/02/2011 dal Consigliere Dott. ETTORE FERRARA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

A seguito di verifica da parte della Polizia Tributaria di Lecco l’Ufficio di Como emetteva nei confronti della Logaglio International s.r.l. un avviso di rettifica della dichiarazione IVA per l’anno 1990 con il quale si contestava la indebita detrazione nella dichiarazione annuale dell’importo di L. 383.616.000 relativo a Iva risultante versata in occasione di operazioni ritenute fittizie intercorse tra le società Logaglio International s.r.l. Logaglio Giuseppe s.p.a. ed altri soggetti.

L’atto impositivo, che faceva seguito ad altri due accertamenti per lo stesso anno d’imposta già in precedenza notificati alla società e puntualmente impugnati dalla stessa, veniva a sua volta contestato dalla contribuente con ricorso alla C.T.P. di Como che annullava l’avviso di rettifica, ma l’Ufficio proponeva gravame e la C.T.R. della Lombardia con sentenza n. 93/11/05 depositata il 12.10.2005 e non notificata, accoglieva l’appello e rigettava il ricorso introduttivo della società.

Per la cassazione della sentenza di secondo grado proponeva quindi ricorso nei confronti del Ministero e dell’Agenzia delle Entrate la Seriana s.r.l. in liquidazione (già Logaglio International s.r.l.) articolando quattro motivi.

Nessuna valida attività difensiva svolgevano gli intimati, essendosi limitata la sola Agenzia al deposito di un mero atto definito di costituzione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Deve preliminarmente rilevarsi l’inammissibilità del ricorso nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in quanto soggetto rimasto estraneo al procedimento di appello. Ed infatti nel caso di specie al giudizio di appello risulta aver partecipato l’Ufficio periferico di Como dell’Agenzia delle Entrate (successore a titolo particolare del Ministero) e il contraddittorio è stato accettato dalla contribuente senza sollevare alcuna eccezione sulla mancata partecipazione del dante causa, che così risulta, come costantemente ha rilevato la giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, v. Cass. 23.4.2010, n. 9794) estromesso implicitamente dal giudizio. Da tali premesse inevitabilmente discende l’esclusione della legittimazione del Ministero a proporre il ricorso per cassazione o il controricorso o a partecipare comunque al successivo giudizio di legittimità in veste di parte intimata, spettando la legittimazione processuale relativamente alla attuale fase, e per quanto relativo alla parte pubblica, alla sola Agenzia.

2. Passando quindi all’esame del ricorso proposto nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, con il primo motivo deduce la ricorrente i vizi di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, nonchè insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.

A questo proposito la contribuente, dopo aver premesso che l’atto impugnato nel presente giudizio scaturirebbe da una complessa attività di verifica posta in essere da diversi Nuclei della G.d.F. nei confronti della Logaglio International s.r.l. e di altre società ritenute ad essa collegate e complici di un articolato giro di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti; che una prima verifica si sarebbe svolta dal 2/7 al 29/9/1993, concludendosi con un p.v.c. della G.d.F. della Compagnia di Lecco dal quale scaturivano nei confronti della stessa società due successivi avvisi di rettifica per l’anno di imposta 1990, impugnati dalla contribuente e annullati dalla C.T.P. di Como con sentenze del marzo 1995 e del marzo 1997, confermate in appello; che nelle more di quei processi, sulla base di presunte irregolarità contestate ad altra società del preteso gruppo, la Favalli Metalli s.r.limitata, il Nucleo di Polizia Tributaria di Verona redigeva in data 5.1.1995 un nuovo p.v.c. nei confronti della Logaglio International s.r.l.; che parallelamente una diversa attività di verifica, iniziata il 2.7.1992 e conclusasi il 29.9.1995 ad opera della G.d.F. di Lecco si sarebbe svolta nei confronti della Logaglio Giuseppe s.p.a. in ordine alla partecipazione agli stessi fatti; che da ultimo ulteriore attività di verifica parziale era stata svolta dal Nucleo di Polizia Tributaria di Lecco nei confronti della Logaglio International, culminando nel p.v.c. del 21.11.1995, al quale aveva fatto seguito l’ulteriore avviso di rettifica della dichiarazione IVA per l’anno 1990; tutto ciò premesso deduce i vizi innanzi riassunti, con riferimento alla eccepita insussistenza di “elementi nuovi” rispetto a quelli preesistenti ai primi due avvisi di rettifica emessi nei confronti della società, che valessero a legittimare l’adozione di un terzo avviso di rettifica. Più in particolare assume la ricorrente che “…..le contestazioni contenute nel terzo avviso di accertamento, pur essendo, come ovvio, relative a diverse operazioni commerciali poste in essere nel corso del medesimo periodo di imposta, tuttavia si inserivano nello stesso meccanismo di frode che era stato preso in considerazione nei precedenti atti impositivi” (v.

Pag. 11 ricorso).

Il motivo è sotto ogni profilo infondato, o addirittura inammissibile per difetto di autosufficienza del ricorso.

Ed invero, premesso che l’avviso di rettifica in contestazione non può che essere considerato come “integrativo” dei precedenti emessi nei confronti della stessa società D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 57, comma 3, come più volte affermato da questa Suprema Corte non vi è dubbio che in tema di I.V.A., requisito di legittimità per l’esercizio del potere integrativo o modificativo dell’accertamento già notificato al contribuente da parte dell’Amministrazione finanziaria è la conoscenza sopravvenuta di altri elementi di fatto, nuovi rispetto a quelli posti a fondamento del primo avviso, come implicitamente emerge dalla considerazione che la stessa norma richiede, a pena di nullità, che l’atto integrativo indichi i nuovi elementi di fatto e gli atti e i fatti attraverso i quali l’Ufficio ne ha avuto conoscenza, adempimento che, evidentemente, assolve anche alla funzione di consentire un controllo sulla posteriorità dei fatti sui quali l’Ufficio fonda una nuova pretesa (Cass. 4.8.2010, n. 18065; 17.3.2010, n. 6459; 21.11.2002 n. 16391).

Tanto considerato, nel caso di specie la questione risulta specificamente affrontata dal giudicante, e risolta sulla base di motivazione certamente sintetica, ma in ogni caso esaustiva, nonchè facendo corretta applicazione della normativa innanzi richiamata, affermandosi espressamente che l’atto impositivo oggetto del presente giudizio scaturisce da elementi nuovi perchè, pur riguardando sempre l’annualità 1990, “riguarda altri soggetti ed altri importi” rispetto a quelli già oggetto di accertamento con i primi avvisi di rettifica. Nè al riguardo può ravvisarsi contraddittorietà di motivazione nell’affermazione contenuta in sentenza con la quale, nel darsi atto dell’eccezione sin dal ricorso introduttivo formulata dalla contribuente per contestare l’esistenza di elementi nuovi, si rileva “non opposto nella stessa sede” dalla società quanto esposto dall’Ufficio al riguardo, intendendosi con detta espressione con tutta evidenza rilevare in proposito l’assenza di una specifica ulteriore contestazione da parte della società dei profili di novità dedotti dall’Ufficio nella sua difesa, in replica all’originaria censura della contribuente.

Sulla questione relativa alla pretesa assenza di novità degli elementi posti a fondamento dell’atto impugnato, piuttosto, e con riferimento a questo punto anche all’altro vizio dedotto per violazione di legge, non può non rilevarsi la genericità della censura, per essersi la ricorrente limitata a esporre in ricorso soltanto una propria sintesi dei contenuti dei p.v.c. richiamati, e in particolare di quelli del 27.9.1993 e del 21.11.1995, omettendo di riprodurne i contenuti, quanto meno in maniera significativa, ed impedendo in tal modo di vagliare la rilevanza della doglianza articolata sotto il profilo dell’adozione del terzo accertamento integrativo in presenza di elementi già noti all’Ufficio. La qual cosa non può non assumere particolare e decisivo rilievo se anche si considera che nella prospettazione della ricorrente, in presenza di articolati e complessi rapporti commerciali tra una pluralità di soggetti, la unicità dei fatti contestati alla Logaglio International dovrebbe desumersi dalla evidenziazione già in occasione delle precedenti verifiche della partecipazione al giro di operazioni inesistenti delle ditte Favalli Metalli e Logaglio Giuseppe s.p.a. posto che il p.v.c. del 5.1.1995 sarebbe scaturito proprio dalla segnalazione al Nucleo di P.T. di Verona delle irregolarità accertate nei confronti della Favalli Metalli in accordo con la Logaglio International, mentre gli stessi fatti avrebbero costituito altresì oggetto di contestazione nei p.v.c. emesso dalla G.d.F., della Compagnia di Lecco nei confronti della Logaglio Giuseppe s.p.a. il 29.9.1995. Ciò però senza minimamente considerare che i due atti da ultimo richiamati (si veda in particolare pag. 9 del ricorso: “…..molteplici elementi contenuti nel p.v. del 21.11.1995, da cui ha tratto origine l’avviso di rettifica qui in contestazione, erano già stati evidenziati dalla medesima Compagnia di Lecco nel p.v. del 29 settembre 1993, nonchè nel P.V. del 5 gennaio 1995 redatto dal Nucleo di P.T. di Verona……”), con riferimento ai quali anche si lamenta la denuncia di elementi di conoscenza poi riproposti nel p.v.c. del 21.11.1995 emesso nei confronti della Logaglio International, e provenienti da Nuclei di G.d.F. diversi, in nessun modo risulta accertato essere pervenuti all’Ufficio di Como antecedentemente all’adozione dei primi due avvisi di rettifica, circostanza quest’ultima da escludere con assoluta certezza per il primo avviso di rettifica, risalente addirittura al 1994.

E’ infatti di tutta evidenza che la novità degli elementi di conoscenza in possesso dell’Ufficio di Como al momento dell’avviso di rettifica impugnato nel presente giudizio, deve essere verificata con riferimento al diverso momento di adozione dei precedenti due avvisi di rettifica (che la contribuente ha indicato solo genericamente con la specificazione degli anni di adozione: 1994 e 1995), e non ai contenuti di p.v.c. intervenuti nei confronti delle società verificate successivamente alla notifica di quegli atti impositivi.

In proposito, tra l’altro, non sarà superfluo rilevare ancora come la genericità della contestazione emerga altresì sotto altro profilo, vale a dire avuto riguardo all’assenza di qualsiasi indicazione idonea quanto meno a prospettare che gli elementi accertati dal Nucleo di P.T. della Guardia di finanza di Verona nel p.v.c. del 5.1.1995, e dalla Compagnia della G.d.F. di Lecco nel p.v.c. del 29.9.1995, fossero effettivamente pervenuti all’Ufficio delle Entrate di Como prima dell’adozione dei due avvisi di rettifica del 1994 (per il quale l’ipotesi è addirittura impossibile) e del 1995. Ed invero è conforme a giurisprudenza consolidata di questa Corte il principio secondo il quale: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, costituiscono dati la cui sopravvenuta conoscenza legittima l’integrazione o la modificazione in aumento dell’avviso di accertamento, mediante notificazione di nuovi avvisi, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, comma 3, anche i dati conosciuti da un ufficio fiscale, ma non ancora in possesso di quello che ha emesso l’avviso di accertamento al momento dell’adozione di esso”. (v. Cass. 12.5.2006, n. 11057; 9.9.2005, n. 18014).

Tanto preliminarmente rilevato in ordine alla genericità della censura, non può altresì tacersi come erronea risulti comunque la tesi della ricorrente secondo la quale ai fini della legittimità dell’avviso di rettifica dovrebbe tenersi conto non solo degli elementi conosciuti ma anche di quelli conoscibili da parte dell’Ufficio. In proposito non pertinente è il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte contenuto in ricorso essendosi le sentenze citate (Cass. N. 451/2002 e n. 4164/1995) limitate ad affermare, del tutto condivisibilmente, e senza nessun riferimento a ulteriori profili di “mera conoscibilità” di circostanze invece non venute espressamente in evidenza, che il presupposto per l’integrazione o modificazione del precedente avviso, costituito dalla sopravvenienza di notizia di nuovi fatti, va riscontrato con riferimento alla data dell’avviso medesimo, cioè al giorno della notificazione dell’accertamento in rettifica, non alla data anteriore in cui sia stato confezionato e sottoscritto il documento poi estrinsecatosi, con tale notificazione, in atto di rettifica.

Ovviamente quello che qui si contesta è che possano ritenersi non idonei a legittimare il potere di rettifica dell’A.F. elementi nuovi emersi successivamente al precedente accertamento (come ne caso di nuove operazioni inesistenti, accertate magari, ma non necessariamente, nei rapporti con altri e diversi soggetti), e non che il presupposto legittimante il potere dell’Ufficio non ricorra invece in presenza di diversa, o più approfondita, valutazione del “materiale probatorio” già acquisito dall’ufficio, dovendosi ritenere che con l’emissione dell’avviso di rettifica l’amministrazione effettivamente consuma il proprio potere di accertamento in relazione agli elementi posti a sua disposizione (v.

Cass. 8.5.2006, n. 10526).

Elemento nuovo che legittimi il potere di rettifica dell’accertamento in materia di IVA, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, è qualsiasi elemento che, nei termini di legge, venga a conoscenza dell’Ufficio successivamente alla notifica del precedente avviso di accertamento, e che risulti idoneo a giustificare la pretesa di una maggiore imposta, indipendentemente da ogni suo collegamento con altri fatti in precedenza accertati.

Ma nella fattispecie in esame la doglianza della ricorrente risulta inequivocabilmente formulata in maniera tale da non consentire affatto di valutare se effettivamente gli elementi di conoscenza posti a fondamento dell’atto impugnato, fossero o meno nuovi rispetto a quelli emergenti dai due precedenti avvisi di rettifica, così come dal giudice di merito accertato con motivazione adeguata e solo genericamente contestato. Anzi, a ben considerare, è la stessa ricorrente a riconoscere in ricorso (pag. 11) che: “…..le contestazioni contenute nel terzo avviso di accertamento, pur essendo, come ovvio, relative a diverse operazioni commerciali poste in essere nel corso del medesimo periodo di imposta, tuttavia si inserivano nello stesso meccanismo di frode che era stato preso in considerazione nei precedenti atti impositivi”. E ciò consente di ritenere la manifesta infondatezza della censura in esame.

3. Con il secondo motivo di ricorso la contribuente denuncia il vizio di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, della L. n. 241 del 1990, art. 3 nonchè della L. n. 212 del 2000, art. 7, lamentando in particolare il difetto di motivazione dell’accertamento per l’acritico recepimento in esso dei contenuti del p.v.c. della G.d.F. del 21.11.1995, e soprattutto perchè, pur facendo esso riferimento a p.v.c. redatti in confronti di soggetti terzi (la Favalli Metalli s.r.l. e la Logaglio Giuseppe s.p.a.), gli atti richiamati non sarebbero stati allegati all’accertamento e così portati “legalmente” a conoscenza della ricorrente.

il motivo è infondato a ancora una volta per certi aspetti addirittura inammissibile. Premesso, infatti, che la censura ha ad oggetto il preteso difetto di motivazione dell’atto impositivo, e non della sentenza, così che scarsa o nulla rilevanza hanno le critiche sul punto rivolte alle argomentazioni esposte dal giudicante con riferimento al fondamento dell’accertamento, la mancata riproduzione in ricorso del contenuto di tale atto inevitabilmente si risolve in vizio di autosufficienza del ricorso, non consentendo alla Corte di valutare la rilevanza della doglianza in esame.

Con riferimento agii specifici aspetti dedotti dalla società giova comunque replicare che:

a) nessuna norma di legge vieta all’Ufficio di far proprie le valutazioni eventualmente esposte dalla G.d.F. nei p.v.c. redatti all’esito delle attività di competenza;

b) per quanto relativo alla pretesa mancata conoscenza del p.v.c. riguardante la Favalli Metalli, il ricorso ancor più manifesta la già rivelata sua genericità, con conseguente violazione del principio di autosufficienza, poichè oltre a non riprodurre la motivazione dell’atto impugnato ed i contenuti del p.v.c. del 21 novembre 1995 in termini tali da consentire di comprendere se e in che misura detti atti facciano riferimento al p.v.c. emesso nei confronti della suddetta ditta, neanche precisa gli stralci di quest’ultimo documento, che pure la ricorrente ammette essere stati allegati all’atto impugnato, così da non consentire di verificare se la dedotta carenza motivazionale effettivamente ricorra;

c) per quanto invece relativo al p.v.c. redatto nei confronti della Logaglio Giuseppe s.p.a. l’esclusione della fondatezza della doglianza inevitabilmente consegue al fatto che l’obbligo dell’allegazione dell’atto richiamato sussiste sempre che non si tratti di atto già conosciuto dal contribuente, condizione che non può ammettersi sussistesse nel caso di specie risultando le due società avere il medesimo legale rappresentante ( L. G.), secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata per la Logaglio International s.r.l. e dallo stesso ricorso (pag. 21) per la Logaglio Giuseppe s.p.a. , e dovendosi ritenere a tal fine del tutto inlnfluente con quali formalità quella conoscenza si sia realizzata, in proposito del resto significativo è che la ricorrente si lamenti del fatto che quel p.v.c. non sarebbe “mai legalmente stato conosciuto dalla Logaglio International in quanto ad essa mai notificato”, senza così espressamente negare quella conoscenza comunque realizzatasi per le considerazioni innanzi svolte, e che per il disposto dell’art. 56 cit. vale ad escludere la necessità di espressa e formale notifica dell’atto richiamato.

4. Con il terzo motivo denuncia la società ricorrente i vizi di violazione e falsa applicazione della L. n. 516 del 1982, art. 12, dell’art. 564 c.p.p. e degli artt. 444 e ss. c.p.p. nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, con riferimento alla valenza probatoria che il giudice di merito avrebbe attribuito alla sentenza penale pronunciata nei confronti di L.G.. Secondo la ricorrente, infatti, il giudice di merito avrebbe contra legem, o comunque senza adeguata motivazione, fondato il proprio convincimento esclusivamente sulla sentenza penale di applicazione della pena per patteggiamento emessa a carico del legale rappresentante della società, laddove essa non conterrebbe alcun accertamento in ordine ai fatti in contestazione, potendo pertanto costituire al più mero indizio di responsabilità, soggetto a valutazione autonoma da parte del giudice tributario, nell’ambito delle più complessive risultanze del processo di sua competenza.

Il motivo è infondato. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte: “La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. (cosiddetto “patteggiamento”) costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova dal giudice tributario nel giudizio di legittimità dell’accertamento. (Cass. 3.12.2010, n. 24587; cfr. Cass. 5.5.2005, n. 9358; 4.2.2004, n. 3626;

19.12.2003, n. 19505).

A tali principi si è correttamente ispirata la decisione della C.T.R. nel caso in esame. Ed infatti, esclusa l’automatica applicazione della pronuncia penale in sede tributaria, ha riconosciuto ad essa dignità di prova autonoma, e l’ha posta quindi a fondamento del proprio convincimento unitamente alle altre risultanze istruttorie del processo tributario, con ampia e convincente motivazione (tra l’altro basata, oltre che sulle risultanze del p.v.c. anche su affermazioni fatte in ricorso dalla stessa contribuente), assolutamente immune da vizi logici o da lacune che valgano a farne emergere la pretesa inadeguatezza. E ciò tanto più è a dirsi avuto riguardo alla generica contestazione svolta sul punto dalla ricorrente, senza minimamente farsi carico di indicare quali fossero gli elementi di prova emersi nel processo, che avrebbero dovuto indurre il giudicante a conclusioni difformi da quelle esposte, attesa anche l’autonomia del presente giudizio rispetto a quello relativo all’impugnazione dei precedenti avvisi di rettifica emessi nei confronti della società per lo stesso anno d’imposta.

5. Con il quarto ed ultimo motivo denuncia infine la ricorrente il vizio di violazione e falsa applicazione di legge, con riferimento agli artt. 2697, 2727, 2729 e 2700 c.c. lamentando aver il giudice di merito contra legem fondato il proprio convincimento attribuendo al p.v.c. della G.d.F. del 21.11.1995 efficacia probatoria di atto pubblico in ordine alle circostanze in esso riferito, e comunque su non ammesse presunzioni di secondo grado, avendo sostanzialmente desunto presuntivamente l’inesistenza delle operazioni commerciali contestate, dalla altrettanto presunta fittizietà delle cessione di beni tra la Favalli Metalli e la Logaglio Giuseppe s.p.a..

Anche questo motivo è infondato e in parte addirittura inammissibile. Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità:

“In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora sia contestata la deducibilità dei costi documentati da fatture relative ad operazioni asseritamene inesistenti, l’onere di fornire la prova che l’operazione rappresentata dalla fattura non è stata mai posta in essere incombe all’Amministrazione finanziaria la quale adduca la falsità del documento (e quindi l’esistenza di un maggior imponibile), e può essere adempiuto, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, non ostandovi i divieto della doppia presunzione, il quale attiene esclusivamente alla correlazione tra una presunzione semplice con altra presunzione semplice, e non può quindi ritenersi violato nel caso in cui da un fatto noto si risalga ad un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale. (Cass. 18.1.2008, n. 1023).

A tale principio si è rigorosamente attenuto il giudice di merito nella Vicenda in esame. Dall’attenta lettura della sentenza impugnata emerge infatti che la CTR ha correttamente posto l’onere della prova della inesistenza delle operazioni commerciali contestate alla ricorrente, a carico dell’Ufficio, e ha poi ritenuto assolto tale onere, non già in virtù dell’efficacia attribuita al p.v.c. ex art. 2700 c.c. nè, a quanto è dato sapere, su presunzioni di secondo grado, bensì su plurimi riscontri probatori, validamente costituiti D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 54, comma 2, oltre che dagli esiti del giudizio penale, dalle dichiarazioni rese dalla stessa ricorrente in ricorso (“sostenendo che la soc. appellante era stata costituita per gestire prevalentemente le operazioni del Decreto n. 633 del 1972, ex artt. 8, 8 bis e 9 e ha riconosciuto il torto di essersi trovato a sua insaputa ed in perfetta buona fede a dovere operare con soggetti balordi capaci di non versare le imposte dovute in frode al fisco”) non a caso riportate ed evidenziate in sentenza, nonchè da dati e notizie risultanti dal verbale della G.d.F. solo genericamente contestati in questa sede, così da non consentire tra l’altro a questo giudice nemmeno di verificare se e in che misura le circostanze rappresentate nel verbale si fondassero su presunzioni.

Alla stregua delle esposte considerazioni tutte il ricorso deve dunque essere rigettato, nulla dovendosi disporre per le spese in assenza di attività difensiva delle parti intimate.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e lo rigetta nei confronti dell’Agenzia.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2011

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