Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11210 del 28/04/2021

Cassazione civile sez. II, 28/04/2021, (ud. 18/02/2021, dep. 28/04/2021), n.11210

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rosanna – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18639-2016 proposto da:

T.I., P.V., R.G., P.G.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA COLA DI RIENZO, 271, presso

lo studio dell’avvocato GIACOMO GIGLIOTTI, rappresentati e difesi

dall’avvocato VINCENZO GATTO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

C.M.A., domiciliata in ROMA, presso la Cancelleria

della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato

ANTONIO DE RENSIS, gusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

nonchè

C.V.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1567/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 05/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/02/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. C.D. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Catanzaro C.V. affinchè fosse accertata la sua proprietà esclusiva della porzione di casa rurale in (OMISSIS), giusta successione testamentaria dalla madre L.M.A..

Si costituiva il convenuto il quale deduceva che nel 1955 la madre, L.M.A., gli aveva affidato l’incarico di ristrutturare l’immobile, e che tale attività era stata eseguita a sua cura e spese, sicchè la genitrice con scrittura privata di datio in solutum del 1 luglio 1957 gli aveva trasferito la proprietà dell’immobile quanto alla nuda proprietà, riservando l’usufrutto a suo favore, nonchè in favore delle figlie D. e C.M..

Da allora il bene era stato sempre posseduto da C.F. e, alla morte di questi, i suoi eredi, Ri.Ad. e C.V. e C.M.A., erano subentrati nella proprietà del bene che, quindi, era da reputarsi essere escluso dalla successione ereditaria della L..

Il Tribunale, con la sentenza n. 83/2004, accoglieva la domanda dell’attrice e la Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 847/2008, dichiarava la nullità della sentenza appellata per difetto di integrità del contraddittorio, dovendo prendere parte al giudizio tutti gli eredi di C.F..

Riassunto il giudizio il Tribunale di Catanzaro con la sentenza n. 394/2012 rigettava la riconvenzionale degli eredi di C.F. ed accoglieva la domanda di rivendica, con la condanna dei convenuti al rilascio del bene oggetto di causa. Avverso tale sentenza proponevano appello C.V. e C.M.A., essendo nelle more deceduta Ri.Ad., e la Corte d’Appello di Catanzaro, nella resistenza degli eredi di C.D., con la sentenza n. 1567 del 5/12/2015, in riforma della pronuncia gravata, rigettava la domanda dell’attrice ed accoglieva la riconvenzionale, dichiarando che C.F. era proprietario dell’immobile oggetto di causa.

Ritenuta l’ammissibilità dell’appello, i giudici di secondo grado ritenevano che non fosse condivisibile la conclusione del Tribunale quanto alla nullità per indeterminatezza dell’oggetto della scrittura privata del 1 luglio 2015, con la quale il convenuto assumeva che il padre fosse divenuto proprietario del bene.

Le parti avevano fatto riferimento, infatti, al trasferimento della casa padronale, espressione questa che permetteva di affermare che il bene fosse stato individuato in maniera sufficientemente determinata.

Dalle prove assunte, sia documentali che orali, e tenuto conto dei vari atti di disposizione che nel tempo avevano interessato i beni siti nel fondo (OMISSIS), emergeva che a servizio del fondo vi era un corpo di fabbrica su due livelli; mentre il piano terra era adibito a deposito e frantoio, il primo piano era adibito ad abitazione, e diviso in due unità di cui una era quella oggetto di causa, essendo l’altra pacificamente di proprietà di C.A., e poi dei suoi eredi.

L’atto del 1957 era stato preceduto dalla donazione del 14 ottobre 1950, con la quale la L. aveva donato al figlio A. una porzione del fondo includente i diritti su sei vani della “casa padronale” sovrastanti il frantoio, il che induceva ad affermare che tale espressione, anche in conformità della tradizione che vuole il piano nobile, e cioè il primo, destinato ad abitazione del proprietario, designava nella famiglia C. i locali siti al primo piano. A seguito di tale donazione, una parte della casa padronale era rimasta in proprietà della donante.

L’atto del 1957, nel fare riferimento alla casa padronale, in maniera inequivoca mirava a regolamentare la sorte del bene oggetto di causa, trattandosi di espressione invece mai utilizzata allorchè si intendeva disporre degli altri vani siti nello stesso fabbricato, ma ubicati al piano terra.

La comune intenzione dei contraenti risultava poi confortata dai successivi atti di acquisto ai quali avevano preso parte sia la donante che C.F..

Con un atto di donazione del 1951, la L. aveva alienato ad alcuni suoi figli delle quote di tutte le sue proprietà, fatta eccezione del gruppo di fabbricati padronali dello stesso fondo (ivi inclusi anche i vani collocati a piano terra).

Inoltre, nel 1972, con l’atto di divisione del 14 gennaio, la L. ed i figli C.F., M. ed I. avevano sciolto la comunione derivante dalla donazione del 1951, e sia nella parte descrittiva dei beni che nella planimetria allegata avevano chiarito che dalla divisione restavano esclusi i beni dei quali la L. si era riservata la proprietà in sede di donazione del 1951, a conferma del fatto che la porzione della casa padronale era stata alienata a F. con l’atto del 1957.

Infatti, la planimetria, al fine di indicare quali beni fossero ancora appartenenti in esclusiva alla L. evidenziava i soli vani al piano terreno, e ciò a conferma che quelli al primo piano erano stati trasferiti al figlio F..

A corroborare tale assunto era poi richiamato il contenuto degli atti di disposizione del 1976, che ancora una volta riguardavano solo i locali a piano terra.

Non poteva trascurarsi la circostanza che C.F. avesse occupato i beni per cui è causa fino alla sua morte avvenuta nel 1985, in coerenza con l’intervenuto trasferimento della titolarità del bene e che tale occupazione fosse stata protratta dai suoi eredi.

Il contratto del 1 luglio 1957 doveva, quindi, essere interpretato come idoneo a trasferire la proprietà del bene per cui è causa al dante causa dell’appellante, soccorrendo in ogni caso il criterio interpretativo di cui all’art. 1367 c.c.

La sentenza passava, poi, ad esaminare le eccezioni degli appellati, e quanto alla deduzione secondo cui gli appellanti in un altro giudizio avevano riconosciuto la proprietà del bene in capo a C.D., rilevava che in realtà le difese spese nel giudizio intentato nel 1988 dall’attrice non erano specificamente riferibili alla casa padronale in località (OMISSIS).

Del pari priva di fondamento era l’eccezione circa l’inopponibilità della scrittura del 1957 all’attrice in difetto di trascrizione, atteso che la C. era erede della L. e quindi era tenuta a rispettare le sue volontà, essendo vincolata dal contenuto del contratto pur in difetto di trascrizione, che invece serve a risolvere i conflitti con i terzi acquirenti.

Doveva, poi, essere disattesa l’eccezione di simulazione assoluta della scrittura del 1957. Infatti, alcun rilievo poteva attribuirsi al fatto che le parti non avessero rinnovato la scrittura in forma idonea alla trascrizione, nè vi era incompatibilità tra la stessa ed i successivi atti del 1972 e del 1976, posto che la L. negli stessi si riservava e disponeva dei soli vani al piano terra, senza incidere su quelli al primo piano, in parte donati al figlio A. nel 1950, ed in parte ceduti al figlio F. con l’atto del 1957.

Le prove assunte poi confortavano il convincimento che effettivamente la L. avesse dato al figlio F. l’incarico di riparare il bene per cui è causa e che i relativi costi fossero stati sostenuti dal dante causa degli appellanti.

Per le stesse ragioni era da escludersi che la scrittura del 1957 fosse stata revocata con la stipulazione degli atti nel 1972 e nel 1976, essendo il contenuto di tali atti coerente con quello della scrittura invocata dal convenuto.

Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso R.G., P.V., P.G. e T.I., quali eredi di C.D., sulla base di cinque motivi.

C.M.A. resiste con controricorso.

C.V. non ha svolto difese in questa fase.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 1346,1418,1362,1363 e 1367 c.c., quanto all’affermazione del giudice di appello secondo cui il contratto del 1 luglio 1957 avrebbe un oggetto determinato in maniera adeguata, tramite il solo riferimento alla casa padronale.

Si lamenta che il giudice abbia fatto riferimento a dati extratestuali per pervenire a tale conclusione, in contrasto con la giurisprudenza di legittimità in tema di determinazione dell’oggetto del contratto relativo a diritti immobiliari.

Nella specie il contratto non conteneva alcun cenno ai dati catastali nè ai confini nè vi era una rappresentazione grafica.

Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione sotto altro profilo dell’art. 1367 c.c., in quanto la sentenza di appello ha ritenuto di poter invocare il principio di conservazione degli effetti del contratto, ma pervenendo in tal modo ad un’interpretazione sostituiva della volontà delle parti. Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c. nella parte in cui si è affermato che l’indicazione nel contratto della casa padronale identificasse univocamente il bene oggetto di causa, alla luce della tradizione secondo cui la casa posta al primo piano è di norma quella adibita ad abitazione del proprietario o “padrone”, facendo in tal modo ricorso al notorio in contrasto però con quanto emerge dalla stessa motivazione della sentenza che in altre parti si riferisce a beni padronali identificando però in tal modo cespiti diversi da quelli per cui è causa.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

In primo luogo, rileva il Collegio che il ricorso in parte qua difetta evidentemente del requisito di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in quanto, pur contestando la correttezza dell’interpretazione di una scrittura privata intercorsa tra la dante causa dei ricorrenti ed il dante causa degli intimati, e che avrebbe disposto proprio del bene oggetto di causa, omette di riprodurne, sia pure per sintesi, il contenuto, omettendo altresì di chiaramente specificare ove tale documento sia attualmente reperibile all’interno degli atti di causa, ed in che fase lo stesso sia stato ritualmente versato in atti.

Già tale omissione implicherebbe l’inammissibilità dei motivi per la loro genericità.

Ma le censure sono altresì infondate nel merito.

In premessa, deve ribadirsi che l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicchè, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009).

Con specifico riferimento poi alla determinabilità dell’oggetto del contratto avente ad oggetto diritti immobiliari, e con puntuale riferimento al contratto che preveda il trasferimento in via definitiva della proprietà di un immobile, è stato affermato che (Cass. n. 12506/2007) è necessario che l’oggetto di detto contratto sia determinato, ovvero determinabile in base ad elementi contenuti nel relativo atto scritto (e, perciò, documentati e non estrinseci all’atto stesso), e tale requisito deve essere ravvisato nell’inequivocabile identificazione dell’immobile compravenduto per il tramite dell’indicazione dei confini o di altri dati oggettivi incontrovertibilmente idonei allo scopo e ad impedire, perciò, che rimangano margini di dubbio sull’identità del suddetto immobile, aggiungendosi che il relativo accertamento – così come quello relativo alla valutazione circa la sufficienza delle indicazioni riportate nella nota di trascrizione per l’esatta individuazione del bene oggetto della vendita – integra la risultante di un apprezzamento di fatto, come tale rimesso al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata motivazione ed immune da vizi logici ed errori di diritto (conf. Cass. n. 17906/2008; Cass. n. 3925/2010; Cass. n. 1165/2000).

E’ stato altresì specificato che (Cass. n. 6481/1998) il requisito della determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto, nell’ipotesi di compravendita immobiliare, non postula necessariamente l’indicazione di tre confini dell’immobile, essendo rilevante tale indicazione ai fini della trascrizione, ma non indispensabile per la sicura identificazione del bene evincibile anche da altri dati (conf. Cass. n. 11237/2016, ma con specifico riferimento al contratto preliminare, nel quale è ammessa con maggiore ampiezza la possibilità di far riferimento anche a dati acquisiti aliunde o ad atti collegati a quello oggetto di valutazione, così Cass. n. 25725/2014; Cass. n. 2473/2013).

Assume però parte ricorrente che sarebbe stato violato il principio, sempre ricavabile dalla giurisprudenza di questa Corte, in base al quale (Cass. n. 21352/2014) nei contratti in cui è richiesta la forma scritta “ad substantiam”, l’oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile sulla base degli elementi risultanti dal contratto stesso, non potendo farsi ricorso ad elementi estranei ad esso (conf. Cass. n. 5028/2007) nè tanto meno (Cass. n. 18361/2004) al comportamento successivo delle parti, dovendosi escludere la possibilità di applicazione, per la determinazione dell’oggetto del contratto, della regola ermeneutica dell’art. 1362 c.c., comma 2, che consente di tener conto, nella ricerca della comune intenzione dei contraenti, del comportamento di questi successivo alla conclusione del contratto (Cass. n. 5385/2011), ed ancor meno con il riferimento (Cass. n. 6516/2003) a documenti estrinseci al contratto.

Ritiene il Collegio che le censure siano però prive di fondamento.

La sentenza impugnata ha ritenuto che le espressioni delle quali le parti si erano avvalse nel contratto per identificare il bene oggetto del trasferimento a C.V. fossero idonee, atteso il riferimento alla casa padronale, pacificamente ubicata nel fondo (OMISSIS), ad individuare in maniera univoca il bene immobile sito al primo piano, destinato a casa padronale, e nella parte in cui era rimasto in proprietà dell’alienante, a seguito del precedente atto di donazione del 1950 in favore dell’altro figlio A..

La Corte d’Appello, partendo da un dato di comune ricorrenza nella tradizione anche rurale, secondo cui il cd. piano nobile, destinato ad abitazione del proprietario, anche detto padrone del fondo, è quello posto al primo piano, con accertamento in fatto, ha rilevato che la casa padronale era appunto quella ubicata al solo primo piano del fabbricato detto padronale (ed in tale differenziazione si rileva l’infondatezza del terzo motivo di ricorso il quale addebita ai giudici di appello di avere accomunato in altra parte della sentenza il bene oggetto di causa ad altri immobili ubicati al piano terra, non avvedendosi che una cosa è la più ampia definizione di fabbricati padronali volta a ricomprendere tutte le unità immobiliari site nel fabbricato oggetto di causa, sia al primo piano che al piano terra – ed altra è quella di casa padronale, definizione invece riservata alla sola unità al primo piano, che nella parte interessata dalla scrittura del 1957, ha conservato la destinazione ad abitazione di C.F. unitamente alla madre), e che tale definizione era comunemente utilizzata nella cerchia familiare, come comprovato anche dalla terminologia di cui le parti si erano avvalse anche in atti anteriori successivi, con i quali si disponeva dei beni ubicati nel fondo (OMISSIS).

La compiuta ed analitica ricostruzione delle varie vicende negoziali che hanno nel corso degli anni interessato le proprietà di L.M.A., lungi dal costituire elemento sulla base del quale ricostruire ab externo la volontà negoziale, ha rappresentato invece la conferma della univoca riferibilità delle espressioni utilizzate nella scrittura del 1957 al bene conteso tra le parti, in quanto così comunemente individuato nella cerchia familiare e nei vari atti di cui non si dubita della loro validità, evidenziandosi altresì che proprio la sequenza degli atti successivamente posti in essere confortava la conclusione che con la scrittura del 1957 la L. avesse inteso attribuire la proprietà del bene al figlio Francesco, stante l’assenza di una diversa volontà dispositiva nei successivi atti, che presupponevano, anzi, il già avvenuto trasferimento della proprietà in conformità del contenuto della scrittura del 1957 quale sostenuto da parte convenuta.

Atteso il previo compimento della donazione di parte della casa padronale in favore del figlio A. con atto del 1950, e la mancanza di riferimento alla casa padronale nella successiva donazione del 1951, la sentenza ha quindi ritenuto che la scrittura del 1957, con il richiamo sempre alla definizione di casa padronale, non potesse che riguardare la porzione della casa posta al primo piano non interessata dalle anteriori donazioni, e che quindi non potessero sorgere dubbi circa la concreta determinazione in maniera inequivoca dell’oggetto della datio in solutum (essendo solo quella oggetto di causa la parte di casa padronale di cui la L. era in grado di poter disporre), trattandosi, al fine però solo di corroborare la conclusione già raggiunta, di dizione (quella di casa padronale) del tutto pacifica anche in ambito familiare (in tal senso perde di rilievo il richiamo fatto da parte ricorrente al principio affermato da Cass. n. 4474/1992, che ha giudicato incensurabile la decisione di giudici del merito che avevano ritenuto l’indeterminabilità dell’oggetto con riguardo ad una divisione nella quale alcuni beni immobili delle singole quote erano indicati con espressioni – “casa mamma” “casa nonna” posto che in quella vicenda anche il riferimento alle tradizioni ed abitudini familiari, era oggetto di controversia tra le parti). Ritiene il Collegio che il riferimento alla condotta successiva dei contraenti, ed in particolare al godimento dei beni in conformità del contenuto della scrittura del 1957 non assuma portata determinante in ordine alla conclusione già raggiunta in merito alla determinatezza dell’oggetto del contratto sulla scorta delle espressioni letterali contenute nello stesso atto contrattuale, ma valga solo a corroborare la correttezza della conclusione de qua che, come confermato anche dal tenore dei successivi atti dispositivi, non trovava alcun elemento di contraddizione successivo.

Analoghe considerazioni vanno fatte quanto alla censura che concerne la pretesa violazione dell’art. 1367 c.c., in quanto se è pur vero che questa Corte ha affermato che (cfr. da ultimo Cass. n. 19493/2018) il principio della conservazione degli effetti utili del contratto, previsto dall’art. 1367 c.c., ha il limite comune agli altri criteri sussidiari, secondo cui lo stesso non può mai comportare una interpretazione sostitutiva della volontà delle parti, dovendo in tal caso il giudice dichiarare, ove ne ricorrano gli estremi, la nullità del contratto o della clausola, le espressioni utilizzate dal giudice di appello, alla fine della pagina 9, depongono chiaramente come tale regola ermeneutica sia stata utilizzata in via del tutto sussidiaria, ed in via di astratta ipotesi, avendo la sentenza viceversa già ritenuto certo sulla base delle regole di cui all’art. 1362 c.c., il contenuto della scrittura del 1957, essendo una considerazione evidentemente spesa solo ad abundantiam.

3. Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1414,1415,1417 e 2700 c.c. nella parte in cui i giudici di appello hanno disatteso l’eccezione di simulazione della scrittura del 1957.

Il motivo è inammissibile in quanto mira nella sostanza a contestare l’apprezzamento di fatto, tipicamente riservato al giudice di merito circa la ricorrenza degli estremi fattuali che possano deporre per la simulazione del contratto.

Risulta solo apparente la censura in punto di violazione di norme di diritto, ma la doglianza nella realtà contesta la valutazione delle risultanze probatorie, ed in particolare l’apprezzamento delle complessive vicende che hanno interessato i beni siti nel fondo (OMISSIS), ritenendo non appagante quanto invece riscontrato dal giudice di merito, ed aspirandosi in tal modo ad un diverso esito in punto di fatto.

Come sopra riportato, la Corte d’Appello ha ritenuto che non potesse attribuirsi valore, quanto alla ricorrenza di una simulazione, alla sola circostanza che le parti non avessero poi inteso munire l’atto di datio in solutum della forma idonea a consentirne la trascrizione, trattandosi in ogni caso di atto avente i requisiti di forma per la piena validità del trasferimento immobiliare, Inoltre ha rilevato che la volontà della L. e del figlio F. di procedere effettivamente alla datio in solutum trovava conferma nel contenuto dei successivi atti del 1972 e del 1976, nei quali era carente ogni riferimento alla proprietà della casa padronale, ed avendo interessato solo i locali posti al piano terra, il tutto a conforto del fatto che si disponeva solo dei beni che ancora non erano stati alienati, avendo quindi la L. già alienato ai figli ( A. nel 1950 e F. nel 1957) tutta la casa padronale, a conferma quindi dell’effettiva presenza di una volontà di alienare.

Nè può escludersi che il riferimento nell’atto del 1972 ad un confine, che sembrerebbe presupporre una permanente titolarità della casa padronale in capo alla L., si giustifichi proprio nel fatto che l’atto del 1957 non era stato trascritto, a differenza della divisione del 1972, sicchè proprio ai fini della trascrizione si trattava di rendere coerente la confinazione con quella che ancora poteva trarsi dalle risultanze dei registri immobiliari.

Le suesposte considerazioni consentono di rilevare l’infondatezza anche della tesi secondo cui le parti della datio in solutum con la divisione del 1972 avessero inteso privare di efficacia il preesistente accordo.

4. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la Corte d’Appello ha omesso di pronunciarsi sull’eccezione, già sollevata in primo grado, e riproposta in appello (atteso l’assorbimento della stessa per effetto della decisione favorevole ai ricorrenti presa dal Tribunale), secondo cui con la stipula della divisione del 1972 le parti avrebbero revocato consensualmente la scrittura del 1957.

Il motivo è evidentemente infondato, in quanto, a pag. 11 ultimo capoverso della sentenza, i giudici di appello, nel richiamare le ragioni per le quali non poteva ritenersi che la scrittura di datio in solutum fosse simulata, hanno espressamente affermato che non poteva ravvisarsi alcuna volontà di revoca, anche implicita” atteso che la stipulazione degli atti del 1972 e del 1976 si presentava coerente con il contenuto della scrittura del 1957, avendo i primo riguardato solo i vani a piano terra, e on anche quelli posti al primo piano.

5. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza.

Nulla a disporre sulle spese quanto alla parte rimasta intimata.

6. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso in favore della controricorrente delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge, se dovuti;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione seconda civile, il 18 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2021

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