Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 11206 del 29/05/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 11206 Anno 2015
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: TRICOMI IRENE

SENTENZA

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sul ricorso 5647-2012 proposto da:
GALANTE SANDRO c.f. GLNSDR65H12Z700S, elettivamente
domiciliato in ROMA, PIAZZALE CLODIO 12, presso lo
studio dell’avvocato DIEGO RESTIVO, rappresentato e
difeso dall’avvocato DARIA GRILLI, giusta delega in
atti;
– ricorrente –

2015
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contro

BANCA NAZIONALE DEL LAVORO S.P.A. C.F. 09339391006, in
persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PO 25/B, presso

Data pubblicazione: 29/05/2015

lo studio degli avvocati FRANCESCO GIAMMARIA, ROBERTO
PESSI, che la rappresentano e difendono, giusta
procura speciale notarile in atti;

controricorrente

avverso la sentenza n. 519/2010 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 29/01/2015 dal Consigliere Dott. IRENE
TRICOMI;
udito l’Avvocato RESTIVO DIEGO per delega GRILLI
DARIA;
udito l’Avvocato SERRANI TIZIANA per delega verbale
FESSI ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

di PERUGIA, depositata il 01/03/2011 R.G.N. 230/2010;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte d’Appello di Perugia, con la sentenza n. 519/10, decidendo
sull’impugnazione proposta da Galante Sandro nei confronti della Banca nazionale del
lavoro spa, in ordine alla sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Perugia il 9
dicembre 2009, rigettava l’appello.
2. Il Galante, al quale era stato contestato di aver effettuato dal terminale in sua
dotazione, e con la password 243, ingiustificate indagini informative su conti correnti,
correlati a pratiche di successione, e fatti oggetto di prelievi abusivi, consumati o
tentati, aveva impugnato dinanzi al Tribunale il licenziamento intimatogli dalla Banca
nazionale del lavoro con lettera pervenuta il 9 dicembre 2004, e aveva chiesto che ne
fosse dichiarata l’illegittimità.
In subordine, chiedeva che fosse affermato che il licenziamento era avvenuto
per giustificato motivo soggettivo, con condanna della Banca a versargli l’indennità
per mancato preavviso e l’indennità di malattia dal 3 dicembre 2004 all’Il marzo 2005,
ovvero in ulteriore subordine, la sola indennità di malattia.
3. Il Tribunale di Perugia aveva respinto le domande.
4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre Galante
Sandro prospettando due motivi di impugnazione.
5. La Banca nazionale del lavoro resiste con controricorso, assistito da memoria
depositata in prossimità dell’udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 7 della legge n.
300 del 1970, e dell’art. 2119 cc; la violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 cc.
Omessa, insufficiente e illogica motivazione ex art. 360 cpc, n. 5, su fatti controversi e
decisivi della causa.
2. Il ricorrente ricorda il contenuto della lettera di contestazione dell’addebito
del 23 giugno 2004, con la quale si faceva presente che, da indagini svolte dalla
direzione Auditing in merito a truffe/tentativi di truffe perpetrati inoltrando a diverse
agenzie BNL della pia7za di Roma falsi ordini di liquidazione di pratiche di
successione — apparentemente disposte dall’area funzionale legale del centro servizi
che li disconosceva denunciando i fatti alla competente autorità — era emerso che esso
Galante, quando era addetto all’Area funzionale legale:
nel periodo gennaio 2003 – febbraio 2004 aveva effettuato dal terminale in
dotazione e con la sua password ben 243 inquiry informativi (richieste di saldi ed
estratti conto) sui conti correnti correlati alle pratiche di successione oggetto delle
anzidette truffe/tentativi di truffa, senza che ve ne fosse alcuna necessità per motivi di
lavoro (infatti si trattava di posizioni immobilizzate da anni a causa della irreperibilità
degli eredi e per le quali non erano sopravvenuti elementi di novità);
aveva eseguito tali inquiry quasi ogni giorno, talvolta anche per più volte al
giorno — intervallandoli con un notevolissimo numero di accessi sui suoi conti personali
— per la maggior parte in date prossime agli anzidetti eventi criminosi, come dettagliato
e riportato in ricorso.
Quindi, espone il ricorrente, nella lettera di contestazione si affermava che, in
relazione a tutti i suddetti fatti, che evidenziavano un diretto coinvolgimento del Galante
nelle truffe e nei tentativi di truffa di cui all’inizio, veniva aperto un procedimento
disciplinari nei confronti dello stesso.
Riporta, inoltre che la BNL, esponeva che nel corso degli anzidetti
accertamenti era emersa una abnorme movimentazione dei conti correnti intestati al
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Galante, non correlata allo status di dipendente di banca, sia per entità che per
tipologia di operazioni, come specificato e riportato in ricorso.
Con successiva missiva del 23 novembre 2004 veniva irrogato il licenziamento
per giusta causa, atteso il venir meno dell’elemento fiduciario che era alla base del
rapporto di lavoro.
Tanto premesso, il Galante, con ampie deduzioni, che richiamavo passi della
sentenza di primo grado e proprie difese, censura la sentenza di appello per aver
ritenuto, in contrasto con la comunicazione del 23 giugno 2004, che non era stata
espressa alcuna accusa al Galante di diretto coinvolgimento nelle truffe perpetrate, ma
che ciò non era necessario in quanto oggetto della contestazione era l’anomalia dei
comportamenti così segnalati nelle suddette circostanze di fatto di per sé sufficienti a
costituire illecito disciplinare in assenza di adeguate spiegazioni da parte del dipendente
e tali da prospettare chiaramente il sospetto quantomeno di una connivenza.
La pronuncia della Corte d’Appello di Perugia sarebbe incorsa in vizio di
motivazione , e violazione dell’art. 2106 cc, in ordine al principio di proporzionalità tra
infrazione e sanzione.
3. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
La statuizione della Corte d’Appello, oggetto del suddetto primo motivo di
ricorso, è stata effettuata nel vagliare la dedotta, da parte dell’appellante, mancanza di
specificità della contestazione ai sensi dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, né il
Galante ha prospettato, riproducendolo nel presente ricorso, un diverso motivo di
appello, a cui andava ricondotta la statuizione oggi impugnata, in contrasto con quanto
affermato dal giudice di appello.
Questa Corte, con riguardo alla specificità, ha avuto modo di affermare che la
previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti qualificabili
come disciplinari, non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, ed ha lo
scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire
il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni
necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il
datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in
violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105cc; l’accertamento relativo al requisito
della specificità della contestazione costituisce oggetto di un’indagine di fatto,
incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni
esposte dal giudice di merito (cfr., Cass., n. 5115 del 2010, n. 11045 del 2004) ha
ritenuto la stessa sussistente.
La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, con
congrua motivazione, laddove ha affermato che le interrogazioni informatiche, nella
lettera di addebito, erano state poste in diretta correlazione con gli episodi di truffa,
consumati o tentati; veniva data indicazione specifica del numero degli accessi per ogni
singolo conto, era stata prospettata la non giustificatezza di tali accessi, soprattutto in
relazione al numero ed alla circostanza che i depositi erano inoperosi da anni; era stata
fatta espressa menzione della illiceità delle operazioni di prelievo eseguite e della
circostanza che le relative pratiche erano state asportate.
Anche l’affermazione, circa la mancanza di una espressa accusa al Galante di un
diretto coinvolgimento nelle truffe perpetrate, che, espone il Galante, sarebbe stata,
invece, presente nella lettera di contestazione, si inscrive sempre nella valutazione
della specificità della contestazione, e non presenta la dedotta contraddittorietà,
considerato che la Corte d’Appello, nella prima parte dei “motivi della decisione”,
precisa la contestazione nell’avere il dipendente effettuato dal terminale in propria
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dotazione, e con la propria password 243, ingiustificate indagini informative su conti
correnti, correlati a pratiche di successione, e fatti oggetto di prelievi abusivi,
consumati o tentati, e, quindi, ritiene la specificità della contestazione, in quanto
oggetto della stessa era l’anomalia dei comportamenti in questione, di per sé sufficienti,
peraltro, a costituire illecito disciplinare in assenza di adeguate spiegazioni, e tali da
prospettare chiaramente il sospetto quantomeno di una connivenza.
Occorre, quindi, ricordare che la giusta causa di licenziamento è nozione
legale.
Il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave
inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della
comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave
comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di
legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra
datore di lavoro e lavoratore (Cass., n. 4060 del 2011). L’irrogazione della massima
sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza d’un notevole
inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non
consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Come si è accennato, la valutazione della gravita del comportamento e della sua
idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio
dipendente (giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità del rapporto, la
qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al rapporto, l’entità della violazione
commessa e l’intensità dell’elemento soggettivo) è funzione del giudice del merito, che,
adeguatamente motivata, come nel caso di specie, in sede di legittimità è insindacabile.
4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 5 della legge
n. 604 del 1966, e dell’art. 2967 cc. Contraddittoria e insufficiente motivazione su un
punto controverso e decisivo del giudizio.
Il ricorrente censura la decisione della Corte d’Appello in quanto la stessa, con
carente motivazione, avrebbe disatteso l’art. 2697 cc, che onera il datore di lavoro della
prova del fatto posto alla base della sanzione disciplinare, nella specie con riguardo alla
effettuazione degli accessi da parte del Galante.
Dalla documentazione in atti (documento 12/a allegato alla relazione ispettiva
del 31 maggio 2004, la cui produzione in giudizio era ordinata dal Tribunale con
ordinanza del 28 agosto 2006, ordine ottemperato da esso Galante con deposito del 5
dicembre 2006), assume il ricorrente, risultava un numero di gran lunga inferiore di
complessive interrogazioni e la comparazione con l’attività degli altri colleghi era priva
di riscontro, né poteva assumere rilievo l’affermazione della Corte d’Appello che il
Galante aveva la concreta possibilità di esaminare e sottrarre le pratiche relative ai
conti in questione.
La Corte d’Appello avrebbe operato un acritico e asettico recepimento delle
argomentazioni del Tribunale, omettendo di analizzare le argomentazioni di esso
ricorrente.
Il vizio di motivazione emergerebbe, altresì nella mancata ammissione dei mezzi
di prova chiesti nei precedenti gradi di giudizio.
5. Occorre premettere che è inammissibile la censura prospettata nel suddetto
motivo con riguardo alla mancata ammissione dei mezzi di prova che sarebbero stati
richiesti nei precedenti gradi di giudizio, perché il ricorrente si limita a riferimenti
generici, senza indicare specificamente, anche ai fini della rilevanza degli stessi,
quando tali mezzi sarebbero stati richiesti e quale specifico oggetto avrebbero avuto.
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Inammissibile è anche la censura relativa alla valutazione della prova
documentale e per testi, prodotta ed espletata in primo grado (tabulato prodotto in
primo grado circa il numero delle interrogazioni, teste Gramolini escusso in primo
grado), atteso che il Galante non ha dedotto di aver censurato con specifico motivo
d’appello, che avrebbe dovuto riprodurre nel presente ricorso, le risultanze istruttorie in
questione.
Nel resto il motivo non è fondato.
Assume il ricorrente che il datore di lavoro avrebbe dovuto dare la prova diretta
che gli accessi erano stati fatti da esso dipendente.
La censura non può trovare accoglimento.
In tema di licenziamento per giusta causa, è onere del datore di lavoro
dimostrare il fatto ascritto al dipendente, provandolo sia nella sua materialità, sia con
riferimento all’elemento psicologico del lavoratore, mentre spetta a quest’ultimo la
prova di una esimente (cfr., Cass., n. 4368 del 2009).
Nella specie, a fronte della prova datoriale della riferibilità al Galante della
postazione computer dalla quale venivano fatti gli accessi ingiustificati (lo stesso
ricorrente, contesta nella parte finale del ricorso l’uso esclusivo, non l’uso della
postazione computer), circa l’effettuazione degli accessi, come affermato dalla Corte
d’Appello, il Galante avrebbe dovuto indicare almeno le ragioni e le circostanze per
cui qualcun altro avrebbe ipoteticamente conosciuto le sue chiavi informatiche di
accesso ed utilizzato la sua postazione, al fine di accentrare su di esso ricorrente i
sospetti.
6. Il ricorso non è fondato e deve essere rigettato.
7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di
giudizio che liquida in euro cento per esborsi, euro tremilacinquecento per compensi
professionali, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 29 gennaio 2015.

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